Ritorno al Medioevo?

26 Marzo 2015

In questo mondo di teste tagliate, tragiche navigazioni, simulacri di nemici fatti a pezzi, nuove epidemie, i media e i guru della geo-politica spesso affermano che la civiltà occidentale è entrata in un nuovo Medioevo. Era già capitato nel secolo scorso: questa definizione fu infatti creata in reazione alla Prima Guerra Mondiale dal filosofo russo Nikolaj Berdjaev in un omonimo libro (pubblicato in Italia da Fazi) e tornò in auge al tempo della crisi petrolifera degli anni Settanta. In quest’occasione si sviluppò un dibattito molto ricco che qui rievocherò in riferimento al tema del ritorno del passato nelle arti visive.

 

Prima di percorrere la galleria virtuale che racconta questa storia, è necessaria una premessa che si riassume nella frase-opera dell’artista Maurizio Nannucci, All Art Has Been Contemporary. Le opere d’arte del passato fanno parte del nostro presente e interagiscono quindi con la nostra contemporaneità: i filosofi però hanno messo in dubbio l’esistenza di queste categorie temporali. Quando è il presente e quanto dura? Impossibile dirlo. Il presente non è misurabile ed è indubitabilmente costituito anche da un po’ di passato e da un po’ di futuro. E se il presente non esiste, cos’è il contemporaneo e quali sono i suoi confini?

 

Nel secolo scorso la crisi dell’idea di progresso, che ha caratterizzato tanta parte del pensiero del Novecento, ha consentito il riemergere di repertori dell’arte del passato che hanno ispirato agli artisti opere costruite su contaminazioni e citazioni. Le forme del passato, come ha dimostrato lo storico dell’arte Aby Warburg, sono inoltre cariche di significati simbolici che riaffiorano ciclicamente nel nostro immaginario sul filo emozionale della memoria.

 

Aby Warburg, Mnemosyne

 

Contemplare l’Antico

Ernst Howald, un grande antichista della prima metà del Novecento, riconobbe nella rinascita del ‘classico’ la “forma ritmica” della storia culturale europea. L’antichità greca e/o romana, a ogni sua nuova incarnazione, riflette un progetto con contenuti, coordinate e implicazioni diverse. Durante il Ventesimo secolo il ‘classico’ è stato utilizzato dagli artisti dei regimi totalitari come serbatoio di valori e forme che furono manipolati, distorti e semplificati con il fine di rivendicare una presunta superiorità di un popolo e di una cultura su un’altra. Contemporaneamente, ma con obiettivi antitetici, il ‘classico’ visto come icona e separato dalla sua storia, sarà argomento di riflessione anche delle avanguardie artistiche. Per Man Ray, di origini statunitensi, formatosi in un contesto tecnicista e pragmatico nel quale il ‘classico’ non richiamava particolari memorie storiche e identitarie, la Venere di Milo, soggetto frequente di fotografie, assemblage etc., è presa in considerazione come simbolo della scultura classicista e, in senso lato, del passato artistico occidentale. In particolare la Venere restaurata (Milano, Collezione Schwarz) viene brutalmente imprigionata da una rozza corda che rappresenta, oltrepassando le allusioni erotiche, “l’azzeramento selvaggio delle avanguardie” da parte dell’arte di ieri. Il contrasto tra il materiale povero e la perfezione della scultura antica è sviluppato anche nell’ambito della neo-avanguardia con la Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto (Londra, Tate Modern). Mentre in Man Ray si trattava di una reimpaginazione dell’Antico in toni giocosi, nella Venere degli stracci prevale una monumentalità tragica: la Venere di spalle che ci nega il volto è la crisi di un sistema ideale e di una tradizione culturale che – negli anni Settanta come oggi –, si deve rimettere in discussione e rifondare contaminandosi con gli stracci, con il diverso, con il reale.

 

Altri artisti contemporanei hanno invece considerato il classico come “anima lirica del moderno” (Monti), con una concezione che riattualizza il sentimento romantico nei confronti dell’Antico, vissuto nella dimensione aristocratica della distanza dal mondo, della poetica delle rovine e nella consapevolezza tragica di un’infanzia della civiltà per sempre perduta. È il caso ad esempio del greco Jannis Kounellis o di Ian Hamilton Finlay, che dissemina di lastre marmoree con testi incisi in carattere capitale il suo giardino scozzese chiamato Little Sparta.

 

Oggi che la storia classica – greca e romana – si studia e si conosce sempre di meno (se si escludono i compiacimenti specialistici), si amplifica un uso dell’Antico citazionistico, per frammenti decontestualizzati e rimontati in modo arbitrario, che restituiscono un’immagine piatta e univoca del classico come perfezione, equilibrio, misura etc., quando invece l’essenza del ‘classico’ risiede anche nel diverso e nel multiforme.

È riscoprendone queste ultime pertinenze che la storia antica deve essere di nuovo studiata e presentata. È una storia attuale perché, come ha scritto Salvatore Settis, «l’età classica greco-romana potrebbe essere vista come un gigantesco esperimento di globalizzazione economico-culturale [...] della quale abbiamo il vantaggio di conoscere non solo il momento di formazione, ma anche i meccanismi e i tempi finali del collasso».

 

Ian Hamilton Finlay, Little Sparta Empty Since the Romans

 

Vivere il Medioevo

Secondo una definizione di Umberto Eco, l’Antico nella contemporaneità è contemplato, copiato, citato mentre il Medioevo viene continuamente ricreato e vissuto. Infatti, visitiamo i monumenti antichi ma non viviamo all’interno di essi, mentre abitiamo, lavoriamo, frequentiamo città, edifici, chiese medievali. Esistono affinità tra la nostra epoca e il Medioevo? È una domanda che vive una nuova attualità e che iniziarono a porsi gli storici della cultura al tempo della crisi petrolifera degli anni 70, quando tutto il mondo occidentale subì i contraccolpi della rivoluzione in Iran e della guerra con l’Iraq. In quell’occasione Umberto Eco riflettendo sulle conseguenze della crisi della centralità degli Stati Uniti – e noi stiamo oggi vivendo le conseguenze dell’ultimo collasso economico americano – ha individuato le connessioni tra contemporaneità e Medioevo, paragonando quella situazione a quella creatasi alla fine dell’Impero romano: in ambedue i casi “al tracollo di una grande Pax subentrano crisi e insicurezza, si urtano civiltà diverse e si disegna lentamente l’immagine di un uomo nuovo”. Sono periodi accomunati da una straordinaria vitalità intellettuale e dall’incontro-scontro fra tradizione e diversità. L’insecuritas contamina la società: ecco allora che il passato permette, attraverso la sua autorità – culturale e/o politica che sia –, di ritrovare quelle radici comuni che rappresentano le fondamenta della nostra identità e ci sostengono mentre guardiamo al futuro. E ci sentiamo anche noi come i “nani sulle spalle dei giganti” icasticamente evocati da Bernardo di Chartres nel XII secolo.

 

Non mancano riflessioni su questi argomenti anche sul fronte più specifico delle arti visive. Per quanto riguarda gli studi novecenteschi, ad esempio, Meyer Schapiro, Leo Steinberg, Lionello Venturi, Henri Focillon, Eugenio Battisti, hanno frequentato – contaminandoli – sia i territori medievali che quelli della contemporaneità, ridisegnandone i rispettivi confini. Oggi è di nuovo molto attuale il metodo di Aby Warburg che praticava la connessione tra i tempi, i luoghi e i saperi: con il suo immettere nel percorso della ricerca materiali arabi, medioevali, tardoantichi aveva dimostrato che, per ricostruire la storia delle forme, era necessario andare oltre la considerazione della classicità come fonte primaria.

 

Di recente sia la teoria postdisciplinare – e mi riferisco in particolare al libro di Alexander Nagel Medieval Modern, al quale molto deve questo articolo –, che la pratica storico-artistica hanno dimostrando la validità e la persistenza di queste premesse. A partire dalla critica modernista la messa in discussione del museo come istituzione, dell’Accademia, del quadro da cavalletto e dell’artista come singolo creatore, hanno innescato particolari sintonie nei confronti dell’arte medievale, che precede quelle istituzioni e quelle modalità di produzione artistica. Critici e artisti, ad esempio, guardano con nuovi occhi a cappelle e chiese medievali e al loro essere articolate messe in scena, dove gli oggetti e le immagini non sono autosufficienti ma interagiscono tra loro, come preistorici interventi site-specific volti a coinvolgere profondamente lo spettatore. Si pensi ad esempio all’ammirazione di Heiner Friedrich, fondatore dell’americana Dia Art Foundation, per la Cappella degli Scrovegni di Giotto, congegno in cui le varie parti risuonano fra loro e fanno vivere un’esperienza religiosa totalizzante al fruitore (Nagel). Il senso d’immersione totale all’interno di un luogo e del suo tappeto figurativo continuo, con un conseguente senso di straniamento, si vive oggi nelle installazioni di Rudolf Stingel. In quella più recente, a Palazzo Grassi a Venezia, il museo è stato interamente ricoperto dalla riproduzione di un tappeto orientale e le pareti, come le cappelle di una chiesa, sono decorate con riproduzioni in bianco e nero (anche) di sculture medievali.

 

Negli ultimi decenni varie mostre hanno osato provocanti confronti tra arte medievale e contemporanea e i medievisti hanno analizzato la risonanza sull’arte attuale dei paradigmi artistici più tipici del Medioevo (come i reliquiari, gli altari, le icone bizantine, le pratiche rituali ecc…). Consideriamo ad esempio il Reliquiario del sandalo di Sant’Andrea del Tesoro della Cattedrale di Treviri, commissionato intorno al 980 da uno dei più grandi mecenati dell’alto Medioevo, il vescovo Egberto: se ci riferiamo a pratiche tipiche del Contemporaneo, è un assemblage (di materiali e di stili diversi) ed è un ready made (perché contiene oggetti già esistenti, come il sandalo di sant’Andrea e altre reliquie). Gli artisti contemporanei riconoscono quindi delle affinità con le strategie messe in atto nella costruzione di un reliquiario: l’opera-icona dell’inizio del terzo Millennio, un cranio del diciottesimo secolo ricoperto di platino e di diamanti da Damien Hirst e intitolato For the love of God (2007), utilizza l’esplicita citazione di una reliquia per simboleggiare la devozione di oggi al dio denaro.

 

A conferma dell’attualità di queste problematiche, l’ultima Biennale d’arte di Venezia è costruita dal suo curatore Massimiliano Gioni come una mostra sui tentativi di conoscenza nelle loro versioni più barocche e medievali: enciclopedie in cui storie, leggende e miti sono raccontati con un’idea del sapere che procede per connessioni ed associazioni, agli antipodi della sistematizzazione di tipo illuminista. Emblematico di queste preferenze critiche e poetiche è il video Grosse Fatigue dell’artista francese Camille Henrot, vincitore del Leone d’Argento, che ricombina in modo visionario i diversi miti sulla nascita e l’evoluzione dell’Universo attingendo ai materiali dalle collezioni dello Smithsonian Institution di Washington. Si moltiplicano – oggi come nel Medioevo – i tentativi per organizzare un eccesso di informazioni e di immagini nate dalla collisione di culture che hanno travalicato i loro naturali confini, geografici o temporali che siano. Eco riflettendo sul “ lavoro di composizione e collage che la cultura dotta esercita sui detriti della cultura passata” ci esorta a considerare, ad esempio, una scatola magica di Cornell, gli accumuli di oggetti di Armand, una macchina inutile di Munari “e ci si ritroverà un paesaggio che non ha nulla a che vedere con Raffaello o con Canova ma che ha moltissimo a che vedere con il gusto estetico medievale”.

 

Camille Henrot, Grosse Fatigue, 2013

 

Il mosaico: una tessera medievale nella contemporaneità

Anche il mosaico ha avuto un ruolo significativo nel dibattito sulla contemporaneità del Medioevo.

In due fotografie del 1967, il celebre sociologo canadese Marshall McLuhan è affiancato da un libro aperto sulle immagini dei mosaici della basilica di Santa Sofia a Istanbul (Nagel). Naturalmente non fu una scelta casuale. Per McLuhan infatti il mosaico, medium medievale per eccellenza, rappresentava uno strumento e una metafora per capire la comunicazione nell’epoca contemporanea e, in tal senso, viene più volte chiamato in causa nel suo celebre libro La Galassia Gutenberg.

Il libro stesso, come spiega il suo autore, è costruito mediante una “struttura a mosaico”: 107 piccoli capitoli-tessere che compongono un discorso-mosaico articolato secondo argomenti eterogenei e riferiti alle epoche più disparate. Utilizza inoltre come tecnica di commento al testo le glosse, definite anche “illuminazioni”, riattualizzando un metodo in uso nei manoscritti medievali.

 

L’assunto di base del libro è che, a partire dall’invenzione della stampa a caratteri mobili, “vi sia stata nel mondo occidentale una continua spinta verso la separazione dei sensi, delle funzioni, delle operazioni, degli stati emotivi e politici, oltre che dei compiti”. Di conseguenza nel Rinascimento “il mondo tridimensionale dello spazio pittorico è un’illusione astratta costruita sulla base della separazione della percezione visiva dagli altri sensi”. Al contrario nel Medioevo il metodo scolastico era come un mosaico, un modo di trattare molti aspetti e molti livelli di significato in tersa simultaneità.

 

Nella seconda metà dell’Ottocento con Cezanne che dipingeva «come se gli oggetti fossero in mano invece di essere soltanto visti» i pittori, nell’organizzazione della consapevolezza dell’esperienza, abbandonarono il modo visivo prospettico e Rinascimentale adottando tecniche e stili che permettevano la moltiplicazione della rappresentazione dei punti di vista. Proust e Joyce, infine, che applicheranno sul fronte letterario il metodo di visione simultanea di argomenti diversi e lontani nel tempo, sono definiti da McLuhan moderni maestri del “tactile mosaic medieval”. E che i mosaici fossero percepiti come capaci di parlare all’uomo moderno perché portatori di valori e strategie rappresentative riconoscibili, lo testimoniano, in momenti e con motivazioni diverse, anche altri due grandi interpreti della contemporaneità: Wassily Kandinsky e Pier Paolo Pasolini.

 

Alla fine dell’Ottocento si afferma nella società europea una corrente antipositivista che condanna il materialismo e recupera parametri di rappresentazione lontani nel tempo. Contemporaneamente, la scoperta della possibilità di scomposizione dell’atomo, con tutte le implicazioni annesse, apre il cammino a nuove concezioni artistiche che riformulano i concetti di spazio-tempo-materia e a rappresentazioni che tendono alla simultaneità pluridimensionale, per le quali la tecnica del mosaico rappresenta un antefatto ispiratore. Wassily Kandinsky, nel 1912, sceglie come prima illustrazione del saggio Lo spirituale nell’arte, il mosaico raffigurante il corteo di Teodora in San Vitale a Ravenna: secondo il pittore-teorico, greco ortodosso e studioso delle icone, la nuova arte ha identiche risonanze con quella del passato dalla quale ricaviamo gli strumenti per raggiungere la dimensione spirituale e superare la concezione materialistica.

 

Sessant’anni di rivoluzioni figurative dopo, l’arte moderna è ancora una volta associata ai mosaici ravennati. Nel 1975 Pier Paolo Pasolini, presentando la mostra di Andy Warhol a Ferrara, scrive: “Ho davanti agli occhi le serigrafie ed alcuni dipinti di Warhol. L’impressione è di essere di fronte a un affresco (sic) ravennate rappresentante figure isocefale, tutte, s’intende, frontali. Iterate al punto da perdere la propria identità ed essere riconoscibili, come i gemelli, dal colore del vestito. L’abside della cattedrale che Warhol costruisce e poi getta al vento disperdendola nei tanti ritagli delle figure isocefale e iterate, è in effetti bizantina… È la qualità di vita americana che sembrerebbe essere l’equivalente della sacralità autoritaria della pittura ufficiale cristiana delle origini: fornire cioè il modello metafisico di ogni possibile figura vivente. A tale modello non ci sono alternative: ma solo varianti”. Per interpretare la contemporaneità tornano quindi attuali requisiti fondamentali dell’arte medievale e di quella del mosaico: il fatto che non sia necessario il singolo autore riconosciuto, la condizione di serialità e replica, il valore significante dell’aspetto decorativo.

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