Speciale

Ideologia gender e media education

17 Ottobre 2015

Da alcuni mesi, parallelamente all’iter legislativo dell’ultima riforma scolastica, divampa in Italia una polemica, a tratti grottesca, sulla cosiddetta “ideologia gender”. I fronti sui quali si muovono quanti pretendono di difendere l’infanzia dai discorsi sulla sessualità e sul gender (oscuro termine inglese per dire semplicemente “genere”) sono due: le linee guida sull’educazione sessuale nella scuola e i libri per l’infanzia. Poco importa che le prime siano state redatte, in origine, dall’OMS e recepite dalla legge in questione e che tra i libri illustrati sotto accusa vi siano dei classici della letteratura per l’infanzia considerati ormai fondamentali. Ciò che conta, in questo frangente, è proteggere i nostri bambini da una nuova, pericolosa, “Ideologia”.

 

In molti hanno cercato di spiegare che l’“ideologia gender” non esiste. Tentativo apprezzabile e condivisibile, visto il carattere di urgenza che ha assunto la questione. Tuttavia, la vera questione è: come mai gli insegnanti e i genitori italiani sono ancora così ingenui rispetto al tema dell’ideologia nell’educazione? Come mai ci si spreca a spiegare loro che l’ideologia gender non esiste, quando dovrebbero ormai essere consapevoli che l’educazione è sempre ideologica, per l’ovvia ragione che la scuola è una delle agenzie di socializzazione preposte alla costruzione/mantenimento dell’ideologia?

 

Il motivo per cui ciò avviene, a mio avviso, è molto semplice ed è il ritardo della scuola italiana nel recepire concetti e metodi della media education internazionale: un approccio educativo per il quale la comunicazione e i media non sono soltanto strumento didattico (come avviene spesso nella nostra scuola) ma oggetto fondamentale di educazione estetica e tecnica (come già avviene in Europa); un approccio che trae concetti e metodi dai media studies e dai Cultural Studies (guarda caso l’ambito di studi entro cui si sono sviluppati i Gender Studies).

 

Da questo ritardo deriva una querelle che ignora secoli di evoluzione mediatica e di affermazione dei media come agenzie di socializzazione e costruzione di orizzonti ideologici: il veicolo per eccellenza della nuova ideologia sembra essere tornato aessere il “libro”, mentre Scuola e Chiesa tornano a contendersi il tempo dell’infanzia come se non esistesse il terzo incomodo (è necessario ricordare al Sindaco di Venezia e a tanti genitori e insegnanti che alcuni film di animazione giocano sui ruoli di genere in modo molto più esplicito dei libri e dei programmi scolastici che tanto li spaventano?).

 

Il merito della media education di matrice anglofona, invece, è proprio quello di introdurre un concetto di “alfabetizzazione mediale” che affianca all’obiettivo dell’autonomia critica il concetto di partecipazione critica alla cultura (mediatica) del nostro tempo, intesa come esercizio della cittadinanza democratica. Secondo Cary Bazalgette, esiste un nesso profondo tra educazione alla cittadinanza e media education: tutti dovrebbero essere in grado di usare tecniche di decodifica che permettano di comprendere cosa è vero e cosa non lo è; chi è rappresentato e chi non lo è. Il ragazzo dovrebbe imparare a chiedersi che tipo di soddisfazione o di piacere ricava da un certo tipo di contenuto, perché è questo “sguardo dall’esterno” che gli consentirà, eventualmente, di prendere le distanze da esso. Data l’importanza di questo tipo di educazione, secondo l’autrice, tutti gli insegnanti dovrebbero essere degli educomunicatori.

 

Ora, è chiaro che se un tale approccio si fosse effettivamente affermato nella scuola italiana (come è già avvenuto in molti altri paesi europei), la polemica sull’“ideologia gender” apparirebbe in tutta la sua assurdità, per almeno due ragioni:

 

  1. 1) Gli insegnanti sarebbero già formati a educare al superamento di tutti gli stereotipi culturali (non solo quelli di genere);
  2. 2) I genitori sarebbero già abituati a essere coinvolti in percorsi educativi finalizzati aeducare bambini e ragazzi a sviluppare un atteggiamento critico verso tutti i contenuti culturali e a costruire rappresentazioni del mondo migliori di quelle imposte loro dagli adulti.

 

Ma soprattutto, avendo appreso a utilizzare correttamente il termine “rappresentazione” (e forse anche quello di ideologia”), genitori, insegnanti e ragazzi intuirebbero quanto “ideologica” sia, in realtà, questa polemica.

 

In una forma debole e semplificata, l’“ideologia gender”, infatti, esiste nella misura in cui qualsiasi discorso sulla cultura è, di per sé, ideologico. Ma essa si configura in modo opposto a come viene raccontata dai detrattori della riforma scolastica: i Gender Studies, semmai, cercano di smascherare e scardinare i rapporti di potere che si nascondono dietro ai modelli culturali e agli stereotipi basati sul “genere”, dei quali (purtroppo) le culture religiose rimangono le principali roccaforti, in un contesto storico nel quale la politica si apre al riconoscimento della parità di genere e di diritti universali che prescindono dall’orientamento sessuale.

 

Venendo a noi, il discorso sul “gender” è ideologico sia che si stia dalla parte della riforma scolastica, sia che si aderisca alla polemica sollevata dal Sindaco di Venezia e dalle associazioni cattoliche. La differenza sostanziale consiste nella distinzione tra ideologia ed egemonia. In effetti, il discorso leghista e quello cattolico sono già entrati nella sfera del senso comune, cioè sono egemonici: essi quindi generano consenso e sono condivisi come “naturali”. Come tali, non fanno che ri-confermare rapporti di potere/dominio esistenti: quando la Chiesa rivendica la bontà della famiglia “naturale” e “tradizionale” in pratica contribuisce a confermare i ruoli della donna e dell’uomo all’interno del nucleo familiare tradizionale e, con essi, l’idea che solo la relazione uomo-donna si collochi nella sfera del “normale”. In tal modo, vengono confermati e rafforzati anche i rapporti di potere tra il gruppo dominante (gli uomini) e quelli subalterni (le donne e gli omosessuali), che, non a caso, sono spesso oggetto di violenza sia nella sfera privata della famiglia (violenza sulle donne) sia nella sfera pubblica (pestaggi degli omosessuali), e spesso sin dalla più tenera età (violenza sulle bambine in casa, bullismo a scuola, pedofilia tra i preti).

 

Le indicazioni sull’educazione sessuale dell’OMS e della legge di riforma scolastica, invece, non sono ancora entrate nel senso comune, ma costituiscono una forma di resistenza alla cultura dominante e, pertanto, si collocano tuttora nello spazio della dialettica politica. La scelta se firmare o meno la petizione, quindi, costituisce una scelta tra l’adesione all’egemonia culturale che vuole le donne e gli omosessuali come gruppi sociali subalterni e l’apertura di una dialettica politica sui ruoli di genere, educando i fanciulli innanzitutto al superamento degli stereotipi culturali esistenti.

 

Sin qui, i fatti. Ma dietro ai fatti, vale sempre la pena di rilevare i processi socio-culturali profondi che li generano e li spiegano. A un primo livello di analisi, si potrebbe osservare che forse si sta tentando di utilizzare il concetto di “ideologia gender” come specchietto per le allodole al fine di demolire una riforma scolastica che va a scardinare tutto un sistema di “equilibri di potere” riguardanti le questioni dell’accesso all’insegnamento e della meritocrazia. Tuttavia, a me sembra che dietro all’uso distorto che si sta facendo del termine “ideologia” si celi qualcosa di più complesso e profondo. Abbiamo visto, infatti, come il concetto di “ideologia” (intrinseco ai Gender Studies) sia stato “fagocitato” dalla parte avversa e trasformato esattamente nel suo opposto. Un po’ come la Destra, secondo Stuart Hall, ha sconfitto la Sinistra masticando i suoi concetti fondamentali e sputandoli come inutili (tant’è che è ormai entrata nel “senso comune” l’idea che i concetti di destra e sinistra siano inutili, mentre si tenta di affermare un’unica visione del mondo, con il rischio che ciò comporta per la democrazia).

 

Per spiegare la reazione di sgomento (apparente) che ha condotto molte associazioni a demonizzare la riforma scolastica, ci viene in aiuto un altro concetto fondamentale dei Cultural Studies: quello di panico morale. Il panico morale, dipende non tanto da una serie di eventi fuori controllo (le conseguenze nefaste che potrebbero derivare dall’educazione sessuale), quanto dall’amplificazione di tali eventi per mezzo dell’uso di etichette (“si insegna ai bambini a masturbarsi”; “si insegna ai bambini aessere omosessuali”, ecc. ecc.). Al panico morale segue, in genere, un fenomeno di spostamento delle ansie sociali su dei capri espiatori appositamente costruiti (è esemplare la lista dei “libri gender” stilata dal Sindaco di Venezia). I capri espiatori del panico morale non sono la fonte reale della crisi, bensì i sintomi di problemi e ansie più profonde connesse al passaggio da una fase di consenso auna di crisi economica e di coercizione autoritaria. Dunque, è probabile che questa polemica non sia che un sintomo di ansie diffuse dovute alla crisi economica con la quale facciamo i conti da anni e alla reazione autoritaria dell’Europa (manifestatasi di recente nei confronti della Grecia e di cui, nel nostro Paese, la formazione dell’attuale Governo, fuori dai meccanismi democratici tradizionali, è l’espressione più evidente). A tutto questo, si aggiungano i due fenomeni destabilizzanti per eccellenza, che stanno minando le basi della cultura dominante: l’immigrazione (nonché il terrorismo islamico a cui viene arbitrariamente associata) e l’impatto rivoluzionario del nuovo Papa Francesco all’interno del pensiero cattolico.

 

Allora, nell’espressione “ideologia gender” – così così come viene usata dai detrattori della riforma scolastica – a mio avviso si condensano le due ansie sociali più urgenti: la paura del “diverso”, di ciò che è “altro da sé”; e la paura inconscia di una ulteriore messa in discussione del cattolicesimo: l’uso del termine “ideologia” da parte cattolica non può non richiamare alla mente l’Ideologia per eccellenza, quella che in un solo colpo osò sfidare il modello economico occidentale e la morale cristiana dominante (non a caso, Papa Francesco viene accusato da più parti di essere “comunista”). Un’eventuale apertura della scuola all’accettazione del diverso spaventa quella parte della società italiana abituata a costruire “l’altro” come una minaccia (per l’occupazione, per la produzione, per il mercato interno, per la sicurezza, per il modello tradizionale di famiglia, ecc.). Le classi scolastiche, invece, saranno il luogo nel quale questa rivoluzione culturale (demolizione degli stereotipi di genere, accettazione del diverso, integrazione dello straniero) potrà e dovrà avvenire e richiederà, da parte degli insegnanti, inedite competenze di mediazione.

 

Che il corpo docente sia spaventato da questa sfida stupisce poco. E stupisce ancor meno l’assenza di partecipazione al dibattito da parte dei media educators italiani. Basti osservare che la Media Education in Italia rimane appannaggio di pedagogisti ed educatori di orientamento cattolico che (probabilmente) in questo frangente hanno gioco forza a mettere da parte l’ideale di un’educazione critica capace di de-costruire le diverse rappresentazioni del mondo, compresa la propria. Fa molta più impressione, invece, che nonostante un indubbio cambio di passo nel magistero papale, il mondo cattolico si trovi impegnato sullo stesso fronte della Lega (e dell’estrema destra europea) nella svolta epocale che vede l’umanità impegnata a dover scegliere, una volta per tutte, tra una politica di integrazione e di pace e la guerra di civiltà.

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