Torino, 7 - 14 - 21 novembre / Quando l'economia cambia la storia

7 Novembre 2019

Venti o trent'anni fa, quando facevo lezione all'università sulla crisi del Trecento, cominciavo evocando l'unica grande crisi che a memoria d'uomo avesse investito il mondo in tempi relativamente recenti, la crisi del '29. Oggi, naturalmente, evoco la crisi che stiamo tuttora vivendo, e in cui i miei studenti in pratica sono nati, dato che dura da quando erano bambini. Dopo aver ricordato che è cominciata nel 2008 e non accenna a finire, nonostante le menzognere rassicurazioni di economisti e politici, li avverto che non bisogna illudersi, perché ci sono state in passato crisi anche più lunghe: quella del Trecento è durata un secolo! A questo punto, di solito, gli studenti si mettono a ridere, anche se magari fanno di nascosto gli scongiuri: l'idea di una crisi come quella attuale che si prolunga per un secolo è così controintuitiva che sembra più che altro uno scherzo.

 

In realtà il paragone fra le crisi del capitalismo moderno e quella che gli storici chiamano la crisi del Trecento serve soprattutto a scoprire che questa parola, "crisi", in realtà può indicare fenomeni molto eterogenei. Nel 1929 come nel 2008 è stato il crollo della borsa di New York a dare il via a una reazione a catena che ha visto il collasso della bolla finanziaria, la riduzione dei consumi, il dilagare della disoccupazione e un impoverimento generalizzato. Quando parliamo di crisi del Trecento non intendiamo dire niente del genere: nel corso di quel secolo i consumi pro capite non si sono affatto ridotti, la disoccupazione non si sapeva neanche cosa fosse, e non c'è stata nessuna compressione dei prezzi e dei salari. Ma allora, in che senso quello è stato un secolo di crisi?

 

Il fatto è che ogni sistema economico dev'essere valutato in base ai suoi parametri e ai suoi obiettivi; e se facciamo così scopriremo che c'è un parallelo possibile fra la crisi che investì l'Europa medievale alle soglie del Rinascimento e le crisi ricorrenti del capitalismo industriale e finanziario moderno. Il parallelo sta nell'arresto della crescita. Per secoli la società del Medioevo era cresciuta, in tutti i sensi possibili: la popolazione aumentava, e quindi aumentava la produzione agricola, perché bisognava mantenere sempre più gente, e crescendo la produzione agricola erano aumentati anche gli scambi, i commerci, la circolazione monetaria.

 

Opera di Meghann Riepenhoff.


E dunque erano cresciuti i profitti, sia quelli dei proprietari terrieri e dei mercanti, sia quelli prodotti da tasse e gabelle; l'edilizia tirava, città e villaggi si ingrandivano, si aprivano continuamente nuovi cantieri. C'era sempre più gente che sapeva leggere e scrivere, si producevano sempre più libri, si faceva ricerca a livello sempre più sofisticato, miglioravano le conoscenze e le tecnologie: e tutto questo a un ritmo lentissimo ma sicuro, e per secoli. C'è da stupirsi se nel Medioevo regnava nell'Europa cristiana un vasto ottimismo, la certezza che il mondo è costruito secondo un piano razionale e che Dio ha dato all'uomo gli strumenti per capirlo e dominarlo?

 

E poi la crescita cominciò a incepparsi. Già nel corso del Duecento, e poi sempre più spesso all'inizio del Trecento, si moltiplicano gli anni in cui il raccolto è cattivo. Il prezzo del pane sale, arriva al doppio rispetto agli anni normali; e la folla dei salariati che già in tempi di abbondanza fanno fatica a dar da mangiare a tutti i figli deve stringere la cinghia, e mangiare meno del necessario, per molti mesi, in attesa del prossimo raccolto che forse, se Dio vuole, andrà bene e farà scendere i prezzi. Pochi muoiono davvero di fame, ma molti muoiono di malattie a cui sarebbero sopravvissuti se fossero stati ben nutriti; i bambini dei poveri muoiono più degli altri, e quando sopravvivono crescono rachitici; e se l'anno dopo il raccolto è di nuovo cattivo, la situazione può diventare drammatica. Negli anni fra il 1315 e il 1317, in gran parte del Nord Europa tre cattivi raccolti consecutivi producono una carestia così spaventosa che nelle strade delle città si raccolgono davvero ogni mattina i morti d'inedia. 

 

È evidente che qualcosa era andato storto. Ma cosa? Oggi ne sappiamo abbastanza sui mutamenti climatici per concludere che il clima era impazzito. Dopo secoli di caldo e di bel tempo stabile, i cronisti riportano continuamente piogge fuori stagione e rovinose inondazioni. Gli anelli dei tronchi d'albero o i rilevamenti nei ghiacciai confermano che comincia a fare più freddo: sono le prime avvisaglie della piccola era glaciale che attanaglierà il continente europeo fino all'Ottocento. E tuttavia, se è bastato questo per provocare effetti così catastrofici, significa che il sistema era già sottoposto a una pressione tale da non poter sopportare nessuno sbalzo.

 

L'Europa medievale era cresciuta troppo, e nonostante gli enormi progressi intellettuali e artistici, il progresso tecnologico non aveva tenuto il passo: per dar da mangiare a sempre più gente, la soluzione principale era consistita nel mettere a coltura sempre più terra. Oggi noi stiamo diventando consapevoli che l'acqua o il petrolio non sono inesauribili; i nostri antenati medievali scoprirono che neanche la terra lo è. Dopo secoli di crescita non c'erano più nuovi campi da mettere a coltura, e la produttività della terra, troppo sfruttata, cominciava addirittura a diminuire. I cattivi raccolti del primo Trecento colpirono un mondo in cui c'erano già troppi poveri che anche negli anni buoni mangiavano appena a sufficienza, e in cui anche le regioni più produttive non potevano più permettersi di esportare la maggior parte del loro grano. Problemi come i limiti dello sviluppo e il saccheggio delle risorse, insomma, si sono manifestati anche in una società apparentemente molto più ecologica della nostra, che non disperdeva CO2 nell'atmosfera e non creava buchi nell'ozono. 


Riprende al grattacielo Intesa Sanpaolo (Torino) il ciclo di lezioni di Alessadro Barbero: 7 - 14 - 21 novembre 2019, ore 18. Ingresso gratuito previa prenotazione. Questo articolo è uscito su “La Stampa”, che ringraziamo.

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