Paola Capriolo: intervista su Gregor Samsa

1 Settembre 2014

Incontriamo Paola Capriolo, nella veste di traduttrice di Kafka (dopo "Il Castello" e "La Metamorfosi", è di prossima pubblicazione "Il Processo" presso SE) per parlare di Gregor Samsa. Non dell'insetto mostruoso, però, ma di ciò che Samsa era "prima" di trasformarsi. Un commesso viaggiatore, uomo che vende e parla per vendere. Come Leopold Bloom dell'Ulisse, venditore di spazi pubblicitari. Romanzo che Joyce iniziò a scrivere nel 1915, anno di pubblicazione della Metamorfosi. Mestieri che mescolano uomo e mercato, linguaggio e profitto. Da qui partiamo per un'indagine sulle descrizioni del pubblicitario, professione di sintesi per eccellenza.

 

 

Hai scritto "all'aprirsi del racconto la metamorfosi è già avvenuta". Dunque che cos'era, prima, Samsa? Perché Kafka sceglie per lui il mestiere di commesso viaggiatore?

 

Prima della metamorfosi Gregor Samsa è un uomo che vive per gli altri. Si sacrifica per la sorella, si sacrifica per i genitori... forse, attribuirgli un mestiere che è basato sul rapporto con gli altri, sul viaggiare, sul prendere contatti, fa parte di questa sua personalità quasi senza centro. Come se il suo io non fosse tale, ma esistesse solo in relazione. Tanto che, paradossalmente, comincia ad accorgersi di sé quando diventa un insetto.

 

Il suo lavoro di relazione prevede anche un certo uso del linguaggio.

 

Nei personaggi di Kafka non esiste mai un parlare che non sia retorico. Hanno tutti il tono di un avvocato difensore che tiene un'arringa per salvare un cliente che però è lui stesso. Anche quando esercitano professioni di per sé sganciate da quest’uso del linguaggio, come nel caso dell'agrimensore, parlano sempre come di fronte a un pubblico che va persuaso. Nel Processo, durante la prima udienza in cui il protagonista si difende, il suo è un discorso di tale teatralità che potrebbe essere tenuto da un personaggio di Dickens, che da questo punto di vista è imparentato con Kafka. Un linguaggio che non è mai uno strumento di espressione, ma sempre uno strumento di persuasione. E' uno degli aspetti della spersonalizzazione nella quale tutti i personaggi di Kafka sono così immersi.

 

D'altra parte Kafka, il quale era per mestiere esperto d'infortuni sul lavoro, fu uno dei pochi scrittori del suo tempo a conoscere da vicino le fabbriche... e portò nel suo linguaggio qualcosa di meccanico.

 

Persino il modo in cui fa muovere i suoi personaggi è meccanico. A volte, leggendolo, mi viene in mente il Chaplin di Tempi Moderni, in America in particolare. I suoi personaggi sono delle specie di automi che parlano in un linguaggio quasi forense, persino talmudico, data la sottigliezza delle interpretazioni, sempre sul punto di capovolgersi nel loro contrario. Il meccanismo fondamentale per Kafka diventa così proprio il linguaggio, che è esso stesso la macchina dentro la quale tutti sono imprigionati. Di tutto questo, poi, il suo racconto Nella colonia penale costituisce se vogliamo l'apoteosi: quella macchina atroce che scrive parole, vergando la sentenza sul corpo del condannato.

 

In questa stessa macchina Samsa è imprigionato.

 

Il quale però è forse anche l'unico a uscirne. In fondo, quanto più accetta questa nuova identità, a poco a poco cominciando a comportarsi da insetto, tanto più si umanizza, cosicché quando sente la sorella suonare il violino ha una reazione commossa che probabilmente il Samsa di prima non avrebbe avuto. Allo stesso modo, nel finale vive questa sua morte quasi pacificata, tremenda ma al tempo stesso serena. Gregor Samsa è secondo me il più umano di tutti i personaggi di Kafka. Gli altri rimangono fino in fondo impigliati in questo meccanismo linguistico che quasi li possiede e impedisce loro di raggiungere lo scopo desiderato, accedere al castello o sottrarsi al processo che sia. E' il linguaggio che adoperano a tenerli eternamente lontani da ciò che vogliono. Mi vengono in mente gli aforismi di Zürau, nei quali si dice che c’è una meta, ma non una via, e che quella che noi chiamiamo via è una corda tesa sul nostro cammino per farci inciampare. Ecco, il linguaggio in Kafka è proprio questo: una macchina che ti fa inciampare.

 

Quindi fare di Samsa un commesso viaggiatore vuol dire anche scegliere il punto di partenza più lontano da questo esito così umano.

 

Certo. E' come se lui partisse dal polo opposto per arrivare a questo silenzio. Quando ascolta la sorella e il violino, pur con tutti i suoi pensieri, assistiamo se non sbaglio all'unico caso in cui un personaggio di Kafka si abbandona. E ascolta, anziché parlare.

 

 

Anziché difendersi.

 

Anziché parlare per difendersi, sì. Il suo mestiere iniziale era quanto di più inserito nel meccanismo disumanizzante.

 

La sua mente e la sua vita sono espropriate dai ritmi lavorativi. Al superiore che chiede del suo ritardo, la madre dice "il ragazzo non ha altro per la testa che la ditta". La mattina si era svegliato da "sogni inquieti" e sembra proprio che le sue ansie fossero legate a difficoltà professionali. La macchina è penetrata nel pensiero.

 

La macchina è pensiero. La tecnologia, prima che una serie di fatti materiali, è una visione del mondo, o addirittura una “forma dell’essere”, come direbbe Heidegger. Di qui, anche, la sua pericolosità: mi vengono in mente dei versi di Rilke secondo i quali la macchina è minacciosa proprio in quanto “osa abitare lo spirito invece di obbedire”. Ma la macchina non obbedisce perché è essa stessa figura dello spirito, forse la sua ultima e più moderna oggettivazione. E quasi hegelianamente, il soggetto ne è triturato, come accade al povero Gregor Samsa.

 

Samsa ha cercato di essere un uomo-macchina ma non c'è riuscito."Negli ultimi tempi, le sue prestazioni sono state assai insoddisfacenti", lo rimprovera il superiore. La fine è ciò che attende chi non regge il ritmo della macchina?

 

Infatti, e lui stesso la interpreta in questo senso fin dalla scena iniziale. La sua prima reazione, quando si ritrova trasformato in insetto, è cercare di girarsi dall’altra parte per dormire ancora un po’ e lamentarsi della sua “professione stancante”, come se davvero la sua metamorfosi potesse essere attribuita a quello che oggi chiameremmo stress. E’ un’idea grottesca, assurda... eppure non fa una grinza.

 

Osserviamo la sua stanza. Sul tavolo c'è un campionario di tessuti. Un riferimento forse al padre di Kafka che era negoziante di tessuti, ma anche al commercio di stoffe, in quegli anni mercato tra i più fiorenti.

 

Qui io credo prevalga l'elemento biografico. Certo, quale che fosse l'intenzione di Kafka, c'è anche il richiamo a un elemento originario del capitalismo, se pensi che, in fondo, in Inghilterra la rivoluzione industriale è nata dal tessile. In un testo letterario c'è sempre più di ciò che l'autore ha volontariamente inserito.

 

Su una parete c'è la foto di una donna elegante, forse un servizio di moda o una pagina pubblicitaria. E' una pagina che Samsa ha prima ritagliato da un rotocalco e poi inserito in una cornice dorata.

 

Questa fotografia diventa uno degli appigli ai quali si aggrappa per mantenere la sua non identità precedente. Non si tratta, per fare un esempio, della fidanzata. E' priva di qualunque legame di significato con la sua vita. E' una foto strappata da una rivista. Anche questa immagine dà il senso di una vita poco personale, poco vissuta. Forse non vissuta.

 

Kafka indugia su questa donna, sul suo cappellino, sul suo boa di pelliccia...

 

La cosa più strana è farci assistere a questa descrizione nello stesso momento in cui ci racconta che Samsa si è trasformato in un insetto. E' lo stile di Kafka. Un'oggettività quasi ironica, che mette sullo stesso piano cose e persone, come se tutto avesse lo stesso rilievo, come se non ci fosse una linea di confine precisa tra la vita umana e la non-vita. C'è un momento nella Metamorfosi in cui il padre colpisce Samsa con una mela e Kafka descrive il modo in cui queste mele rotolano verso di lui: gli oggetti diventano vivi e gli esseri umani diventano oggetti. Come quando la madre cade e la sua gonna si gonfia... quasi una cancellazione del confine tra organico e inorganico.

 

Forse in questa pagina c'è anche una felicità idealizzata dalla quale Samsa ora è separato per sempre.

 

Tutte le volte che Kafka entra nei pensieri dei suoi personaggi, e li fa rievocare la loro vita precedente, quella di quando stavano bene e non avevano problemi, emerge sempre una povertà umana assoluta. Un po' come quando del protagonista del Processo si dice che ogni settimana va a trovare la cameriera. Una vita raggelante in cui tutto è regolato benissimo. E la foto è appesa al muro.

 

Poi i parenti decidono di svuotare la sua stanza. Samsa si ribella solo quando cercano di portargli via anche questo quadro. Si arrampica, va stringersi contro il vetro, copre interamente il quadro con il suo corpo d'insetto.

 

Una reazione quasi erotica, come se volesse farne una parte di sé. D'altra parte il fatto che quella immagine sia stata collocata addirittura in una cornice dorata fa pensare quanto fosse importante per il Samsa di prima. Anche altrove in Kafka compare la foto come oggetto quasi erotico. Nel Processo, K. entra in sua assenza nella camera della coinquilina signorina Burstner, dove viene trattenuto per una sorta di interrogatorio, e gli sembra di assistere a una profanazione intollerabile quando i suoi colleghi di banca, che sono stati portati lì dall'ispettore quasi come testimoni di quanto accade, toccano alcune fotografie della donna. In quel caso però si tratta delle foto di una donna della quale il protagonista è un po' innamorato, mentre nella Metamorfosi è come se non ci fosse neppure questo pretesto d'identità personale e la foto diventa qualcosa di irrelato.

 

 

In altri frangenti parlando di fotografia Kafka dichiarò "...le immagini spezzano le ali alla forza della rappresentazione. Quanto più si perfezione la tecnica della rappresentazione, tanto più deboli diventano i nostri occhi. L'apparecchio paralizza gli organi".

 

Affermazioni molto forti. Qui Kafka ripropone un altro meccanismo auto-referenziale. Così come in lui il linguaggio non riesce a uscire da se stesso, anche la macchina fotografica non riproduce che se stessa. Non avviene cioè quello sfondamento verso l'oggetto, verso la realtà, che per Kafka è assolutamente impossibile. Questa dimensione gli appartiene profondamente e forse proprio per questo parla così della fotografia. Più che con diffidenza, direi quasi con sgomento.

 

In certi riferimenti alla comunicazione Kafka stupisce. Questo passaggio del Castello sembra McLuhan “Certo, era soltanto un messaggero, non conosceva il contenuto delle lettere che doveva recapitare, ma anche il suo sguardo, il suo sorriso, la sua andatura sembravano costituire un messaggio, sebbene forse egli non sapesse nulla nemmeno di quello”. Il medium è il messaggio in versione kafkiana.

 

Per Kafka la comunicazione è intransitiva, anzi di fatto non è mai tale, finisce con il girare a vuoto e questa se vuoi è una versione tragico - pessimistica dell'idea secondo la quale il mezzo è il messaggio. E' come se il messaggero Barnabas avesse per antenato l'angelo e per pronipote il mondo moderno della comunicazione. Viene in mente Musil, quando in L'uomo senza qualità inventa una campagna, che chiama Azione Parallela, per le future celebrazioni dei 70 anni di regno dell'imperatore.

Una campagna priva di un vero oggetto, che va avanti per tutto il libro senza che si sappia bene in cosa consista, senza che nessuno abbia idea di cosa davvero debba essere. Una sorta di evento vuoto, fissato come non bastasse per il 1918 e quindi destinato a essere cancellato dalla guerra. Quello che conta è solo ciò che gli gira intorno. Come se la promozione avesse mangiato il contenuto. Qui Musil è straordinariamente preveggente.

 

Se ne ricava un giudizio duro sulle possibilità di una chiarezza condivisa nella comunicazione moderna.

 

E posizioni altrettanto feroci si possono trovare in Balzac, in Dickens, nello stesso Baudelaire, anche se è un caso un po' diverso. D'altro canto è comunque vero che la cultura di lingua tedesca ha un rapporto molto conflittuale nei confronti della modernità. Se il sarcasmo di un Balzac si mantiene sul piano di un'osservazione critica, in questi autori diventa qualcosa di più complesso, un tentativo di guardare cosa c'è dietro che a me sembra molto più sottile rispetto a quello della tradizione del realismo narrativo. Soprattutto, nella tradizione del romanzo quei grandi narratori credono fortemente nel linguaggio, nella possibilità di raccontare il mondo. Kafka non ci crede, Musil neanche.

 

Ed è come se questo tipo di critica sul mondo della comunicazione potesse venire solo in un ambiente culturale nel quale lo scetticismo viene esercitato sul linguaggio in quanto tale. Penso alla lettera di Lord Chandos di Hofmannsthal, un testo del 1902, scritto quando era già un celebre poeta, in un momento di crisi radicale. Hofmannsthal si cala nei panni di un amico di Francesco Bacone, al quale invia una lettera per dirgli che lui non scriverà mai più una riga, in nessuna lingua, né in latino né in inglese: l'unica lingua in cui potrebbe ancora scrivere non è nessuna di queste lingue umane ma quella in cui gli parlano le cose mute. Di fronte alla pienezza delle sensazioni che queste cose gli trasmettono egli avverte l'impotenza espressiva del linguaggio. Dunque la loro disperazione è una critica del linguaggio in quanto tale. Quella nei confronti dei mezzi di comunicazione è una conseguenza.

 

L'intervista completa è su Bill 11.

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