Mimosa e mimose
Non si capisce cosa ci sia da festeggiare. Ti regalano il rametto giallo d’ordinanza e il giorno dopo te lo ritrovi rinsecchito nel vaso. Spreco di mimose, di retorica, di sentimentalismo. Lasciamo le mimose sugli alberi e le donne a cavarsela da se stesse, come sempre.
Quelle partigiane e comuniste che, a Roma nel 1946, pensarono di caratterizzare la celebrazione dell’8 marzo con un fiore (come il garofano rosso per il primo maggio), scelsero la mimosa perché diffusa e facilmente reperibile nel Lazio, per nulla costosa e già fiorita alla fine dell’inverno. Ma, a distanza, tale scelta allora felice oggi non le rende un gran servizio. Tanto sono gioiosi i ciuffi che ricadono soffici dagli alberi nelle regioni più meridiane – lì ti sorprendono sopra un muro d’orto o al giro di gomito d’un vicolo – tanto fanno venire l’itterizia l’8 di marzo: sventolati come trofei da giovinette che manco sanno perché li tengono in mano, venduti a peso d’oro ad ogni crocicchio.
Dovremmo scrollare di dosso alla mimosa l’inflazione consumistica da festa della donna (con dolce e cocktail a seguire), ridarle dignità d’albero, di profumato nunzio primaverile che rigenera, scaccia il verno, contrasta il buio. Come la ritrae Giuseppe Ungaretti in questo breve testo tratto dal Taccuino del vecchio:
Ogni anno, mentre scopro che Febbraio
È sensitivo e, per pudore, torbido,
Con minuto fiorire, gialla irrompe
La mimosa. S’inquadra alla finestra
Di quella mia dimora d’una volta,
Di questa dove passo gli anni vecchi.
Mentre arrivo vicino al gran silenzio,
Segno sarà che niuna cosa muore
Se ne ritorna sempre l’apparenza?
O saprò finalmente che la morte
Regno non ha che sopra l’apparenza?
L’Acacia dealbata, tale il suo nome scientifico, è originaria dell’Australia e della Tasmania, ama perciò climi tepidi. È una leguminosa (i suoi frutti sono baccelli) e l’aspetto piumoso dei suoi fiori riuniti in generosi racemi è dato dagli stami sviluppati intorno a un piccolo capolino soffice e compatto. Le foglie, d’un pallido verde, sono persistenti, composte e bipennate, a inserzione alterna, formate da rametti tomentosi fitti di minutissime lamelle ovate, anch’esse dall’aspetto leggero e vaporoso.
Il poeta, in verità, sposta sul febbraio, mese a lui caro, epiteti (sensitivo e pudico) propri per definizione di una variante tropicale americana, la Mimosa pudica. Costei, è in tutto castigata: nelle dimensioni arbustive, nei solitari globuli color gridellino; e scontrosa nelle foglie, retrattili al minimo contatto, diffidente nei fusti spinosi. Insomma, fuor dal suo ambiente, è una tipa difficile, da conquistare e tanto più da esibire.
Alle fredde città settentrionali meglio si confà l’Acacia di Costantinopoli, albero ornamentale rustico eppur elegante. Il nome scientifico, Albizzia Julibrissin, onora il botanico fiorentino Filippo degli Albizzi, che la diffuse in Europa a metà Settecento, e i suoi «fiori di seta» (in persiano Gul-i-Abrisham) sfumanti dal crema al rosa violetto, che spumeggiano eterei sull’apice dei rami. È la mimosa evocata con assoluta perizia poetico-botanica da Zvanì Pascoli nella fresca, fanciullesca rimemorazione della sua Romagna: «Già m’accoglieva in quelle ore bruciate/ sotto ombrello di trine una mimosa,/ che fioria la mia casa ai dì d’estate/ co’ suoi pennacchi di color di rosa».
Nulla da aggiungere a tale ritratto: silhouette portamento peculiarità dell’albizzia sono suggerite con grazia indimenticabile da far desiderare in giardino una mimosa rosa, anziché gialla.