Un libro e una mostra / Le architettrici al MAXXI
Da qualche tempo, i riflettori della critica e della cronaca sono puntati sulle protagoniste femminili dell’architettura e del design: su di esse fioriscono mostre, si scrivono libri, si tengono convegni. Neglette e trascurate dalla storia, le donne architetto, o, per meglio dire, le architettrici e le designer stanno facendo parlare di sé. Parrebbe una cosa buona e giusta, e forse lo è, perché finalmente si tributa il dovuto riconoscimento al loro lavoro, ma a me, tutto questo porre l’accento sul côté féminin delle discipline appare ancora una volta divisivo, ghettizzante. Soltanto quando non si dovranno più scrivere libri e allestire mostre sulle donne architetto e sulle donne designer, ma si allestiranno mostre e si scriveranno libri sui protagonisti di queste discipline tout court, senza più alcuna distinzione di genere, sarà raggiunta un'equa normalità. Ma poiché si deve ancora recuperare terreno e far riemergere dall’oblio figure che ancora vi giacciono, nel frattempo conviene scandagliare il terreno della storia, per riconoscerle e farle conoscere riequilibrando così i podî. E dunque, ben vengano libri quali la prima biografia di Lina Bo Bardi di Zeuler Lima (qui su Doppiozero), il volume-indagine di Anty Pansera 494 - Bauhaus al femminile (qui su Doppiozero), e Donne architetto nel Movimento Moderno di Carmen Espegel (Christian Mariotti Edizioni, pp. 123), così come mostre quali Buone nuove. Donne in architettura, visitabile al MAXXI fino all'11 settembre 2022.
Giustappunto, l'edificio del MAXXI è stato progettato da un’architettrice.
Conta?
E Roma è anche la città che ha visto in azione, nel lontano XVII secolo, Plautilla Bricci, la prima donna architetto della quale si abbia notizia (su cui Melania Gaia Mazzucco, nel 2019, ha pubblicato per Einaudi la vita romanzata), essendoci del tutto ignote le sue antiche predecessore, sempre ammesso che ve ne siano state e se sì, che si trovino documenti a suffragio.
Come ci ricorda Carmen Espegel nel suo libro, l'unica donna ad esercitare la professione di architetto nell'Inghilterra dell'ottocento fu Elizabeth Eleanor Siddal, detta Lizzy o Lizzie, nata a Londra nel 1834, che fu anche pittrice e poetessa, oltre ad essere stata la modella prediletta dai Preraffaelliti. La prima architettrice tedesca fu, invece, Emilie Winkelmann, nata nel 1875, che ebbe studio a Berlino e costruì molte case unifamiliari, oltre ad edifici pubblici, e, nel 1914, ricevette addirittura la medaglia d'oro all'esposizione Internazionale di Lipsia. La seconda fu poi Elisabeth von Tippelskirch-Knobelsdorff, nata nel 1887, "la prima funzionaria pubblica della Repubblica di Weimar, per la quale lavorò come architetto del governo provinciale di Potsdam fino al 1923", ci informa ancora Espegel.
Tra gli anni venti e trenta del novecento, il numero delle donne architetto aumenta, ma le loro opere, continua la studiosa spagnola, "sono state eclissate, senza eccezioni, dai nomi prestigiosi dei loro compagni o mentori."
Da questo novero risulta però assente una grande protagonista dell'architettura scandinava della metà del secolo scorso, Ingrid Wallberg, nata nel 1890 (qui su Doppiozero), forse perché lei non ha avuto 'mentori', a parte un apprendistato presso Le Corbusier, il quale però non ha mai interferito. Magari perché Ingrid era economicamente potente, essendo molto ricca di famiglia. Sua sorella ha addirittura finanziato la costruzione della Maison Jeanneret, oggi patrimonio UNESCO, unita alla contigua maison La Roche, in Rue du Docteur Blanche, a Parigi, dove è andata ad abitare con suo marito Albert, fratello di Corbu. Comunque, anche su Ingrid Wallberg è scesa l'ombra dell'oblio, solo recentemente dissipata (2020) da Anne Brügge.
Soprattutto per merito del Vchtutemas, la scuola di arte applicata e d’architettura che ha esercitato una profonda influenza sullo sviluppo dell’architettura moderna europea, nell'URSS, il numero di studentesse iscritte ad Architettura è stato di gran lunga il più notevole, certamente superiore a quello delle Bauhausmädels.
A far parte del gruppo razionalista ASNOVA (АСНОВА, acronimo di Ассоциация новых архитекторов, Associazione dei nuovi architetti) ci furono: Militsa Ivanovna Prokhorova (che collaborò con El Lissitzky); Lyubov Sergeevna Zalesskaya (collaboratrice di Ladovsky), Lidiya Konstantinovna Komarova, socia di Alexander Vesnin e membro del team OSA (Unione Architetti Contemporanei, che, per molti versi costituì l'ala architettonica dei modernisti socialisti del LEF, ЛЕФ, il Fronte di Sinistra delle Arti).
Rashel Moiseevna Smolenskaya è forse la più nota fra tutte loro, infatti la sua proposta per il concorso del Palazzo dei Congressi dell'Unione Sovietica, progettato nel 1928 all'interno dello studio di Ladovsky, "anticipa nell'utilizzo di masse oblique nella sezione verticale, ricerche che non solo sono estremamente moderne ma che costituiscono anche la nostra contemporaneità odierna", ci ricorda Espegel.
Né si possono dimenticare le grandissime Alexandra A. Exter, Lyubov S. Popova e Varvara F. Stepanova, che realizzarono sia importanti opere di architettura, pittura, grafica, design, ma anche straordinari allestimenti scenici per il Teatro della Rivoluzione di Vsevolod Mejerchol'd, il tutto nel più puro linguaggio costruttivista.
In Unione Sovietica vi furono persino delle ingegnere impegnate nell'edilizia, come Tatyana Mikhailovna Makarova. "A lei si devono gli studi effettuati nel 1929 sui paraboloidi iperbolici per il loro utilizzo come innovativi tetti sospesi e che in seguito avranno una grande influenza su architetti come Le Corbusier, Félix Candela o Frei Otto" annota Espegel.
La prima ingegnera civile italiana fu, invece, Emma Strada, laureatasi al Politecnico di Torino, nel 1908, specializzata nella progettazione di ferrovie, gallerie, acquedotti e persino miniere, fondatrice, tra l'altro, dell'AIDIA, l’Associazione Italiana Donne Ingegnere e Architetto.
Nel suo libro, la studiosa palenciana ricorda poi anche una grande architettrice dell'Europa dell'Est, la ceca Hana Kučerová-Záveská, che, nella sua breve vita (è morta a soli quarant'anni) ha progettato sia villa Balling che villa Sukova, entrambe in puro stile funzionalista, che sorgono tutte e due nel quartiere Dejvice di Praga, all'interno del complesso Baba.
La prima progettista degli Stati Uniti fu Louise Blanchard Bethune, la quale, sebbene non fosse laureata, esercitò con successo la professione a Buffalo, insieme al marito Robert, con cui condivise sia il cognome che lo studio di progettazione. Invece, la prima donna a laurearsi, addirittura con lode, al Massachusetts Institute of Technology fu Sophia Hayden, nota soprattutto per aver progettato il Women's Building alla Chicago World's Columbian Exposition del 1893 quando aveva soltanto 21 anni. Tuttavia, gli ostacoli e le ostilità che incontrò, in quanto donna, durante la costruzione furono talmente devastanti da indurla ad abbandonare la professione.
Neppure Walter Gropius, una volta trasferitosi in America per sfuggire al nazismo, desistette dal suo antifemminismo: infatti, dopo aver opposto strenua resistenza all’ingresso della componente femminile al corso di Architettura del Bauhaus, quando ne era direttore, entrato alla School of Architecture di Harvard, suggerì che le donne vi fossero ammesse “come studenti speciali e non come candidate al titolo di laureate.”
Oh, la pertinace perseveranza di un preconcetto! Per fortuna, Gropius non fu ascoltato e la School of Architecture di Harvard, dal 1941 ammise al corso di laurea uomini e donne indistintamente.
Il testo di Espegel prosegue quindi scegliendo di approfondire la vita e l'opera di quattro famose protagoniste dell'architettura degli anni venti e trenta del novecento: Eileen Gray (qui su Doppiozero), Lilly Reich (qui su Doppiozero), Margarete Schütte-Lihotzky, Charlotte Perriand.
Non è 'curioso' che ad occuparsi e a scrivere delle architettrici e delle designer siano sempre e soltanto studiose e mai studiosi?
Per fortuna, questa tendenza è stata recentemente contraddetta dai curatori della mostra Buone Nuove. Donne in architettura, in corso al MAXXI, tra i quali, insieme ad Elena Motisi ed Elena Tinacci, c'è anche Pippo Ciorra.
La rassegna si articola in quattro sezioni: Storie, Narrazioni, Pratiche, Visioni, che l’allestimento di Matilde Cassano propone su diversi supporti, cartacei, video, tridimensionali, e si conclude con il focus Unseen di Frida Escobedo, un omaggio all'immensa Anni Albers (qui su Doppiozero).
Storie è poi a propria volta scandito in otto capitoli: Prime donne, Lady managers, Mise en scène, La città delle donne, Tracce, Visioni, Nomadismi e Duetti, ciascuno dei quali raccoglie al proprio interno varie protagoniste.
Organizzare mostre di Architettura destinate al grande pubblico è compito arduo. Infatti, il più delle volte, esse risultano criptiche ai non addetti ai lavori, a meno che non siano allestite in modo coinvolgente, capace cioè di toccare anche le corde dell'emozione, magari con molti disegni, con maquettes, fotografie, video, etc. Ed è esattamente ciò che è accaduto, proprio al MAXXI, con la grande mostra di Aldo Rossi, e, in Triennale con quella di Carlo Aymonino, tenutesi entrambe nel 2021: due esposizioni di elevato rigore scientifico ma anche ricche di pathos che hanno fatto registrare un notevole successo di critica e di pubblico.
Le architetture hanno a che fare con lo spazio, non soltanto con il volume e con la forma, per comprenderle è sempre auspicabile entrarci realmente dentro, percorrerle, così da percepirne la luminosità e le zone d'ombra, apprezzarne i materiali costruttivi, viverne le suggestioni suggerite dalle variazioni di quota e dal rapporto fra lo spazio costruito e l'esterno che lo circonda, lasciarsi avvincere, insomma, dal genius loci di ciascuna (impagabile l'emozione che si prova entrando, per esempio, nella E1027 e in Villa Tugendhat. E che dire, poi, di quella che nasce percorrendo lo stesso MAXXI? O, magari, il MASP? E persino la Gare d'Orsay!). Se ciò non potrà avvenire, sarà la ricchezza della documentazione che le concerne a indurne la comprensione, magari sostenuta anche da un intento didattico.
Forse il destino di una mostra di Architettura è quello di essere monografica, o, magari, a tema, oppure di ambito territoriale. Estremamente difficile, invece, rendere comprensibile e, al tempo stesso accattivante, una mostra collettiva che presenta l'opera e la poetica di più di 90 protagoniste diversissime tra loro, distanti nel tempo, nello spazio e nelle scelte progettuali, così come avviene in questa rassegna romana, che si dipana, per giunta, in un ambiente non eccessivamente esteso, quale è quello della Galleria 2 che la ospita, al primo piano dell'edificio progettato da Zaha Hadid. Il rischio di una simile scelta risiede nel ridursi a proporre poco più di un indice, finendo per non soddisfare la curiosità del visitatore e rischiando di non rendere merito neppure al lavoro di chi è oggetto della rassegna, lasciando inevitabilmente delusi coloro che vorrebbero saperne di più e indifferenti, invece, quelli che preferiscono 'andar oltre', tralasciando addirittura di vederla.
È pur vero che attorno a Buone nuove. Donne in architettura sono state contemplate una serie di lezioni, tenutesi in alcune mattinate, ma non a tutti è stato possibile assistervi. Inoltre, l’assenza di un catalogo non facilita la riflessione a posteriori su quanto di molto interessante visto in mostra. Forse un libro che avesse raccolto questo censimento di Donne in architettura sarebbe stato davvero utile, per non dire necessario.
Certamente la rassegna ha il merito di puntare l'indice sull'opera di architettrici altrimenti poco note, alcune persino sconosciute ai più.
E così, accanto a nomi famosi, troviamo quello della prima laureata in architettura al mondo (nel 1890), la finlandese Signe Hornborg e quello di Elena Luzzatto Valentini, la prima a laurearsi in Italia, nata ad Ancona e laureatasi a Roma nel 1925, o Louise Blanchard Bethune, nata nel 1856, che fu la prima donna iscritta all’AIA (American Institute of Architects); e Eleanor Raymond, del 1887, che nel 1948 ha realizzato una delle prime case con riscaldamento solare. E poi, ancora Maria Teresa Parpagliolo, pioniera dell'architettura del paesaggio; Norma Merrick Sklarek, la prima architettrice afroamericana ad accedere alla professione nel 1954; Ada Louise Huxtable, ideatrice negli anni Sessanta della critica di architettura con una rubrica sul New York Times; la canadese Phyllis Lambert, direttore di cantiere nella realizzazione del Seagram Building, progettato da Mies van der Rohe per suo padre; la cinese Anne Griswold Tyng, Jangaxi, che trasferitasi negli USA, ha lavorato con Louis Kahn; e ancora il gruppo Vanda (Gisella Bassanini, Sandra Bonfiglioli, Marisa Bressan, Ida Farè), formatosi negli anni novanta al Politecnico di Milano per studiare il ruolo e l’opera delle donne in architettura, nel design e nell’urbanistica, che ha prodotto i primi studi su questo tema; e, tra le altre, la brasiliana Susana Torre, autrice del volume Women in American Architecture. A Historic and Contemporary Perspective del 1977; e poi la francese Odile Decq, che, con Benoit Cornette, ha realizzato il Padiglione della Francia alla Biennale di Architettura di Venezia del 1996, vincendovi il Leone d’Oro; Benedetta Tagliabue, a capo dello studio EMBT di Barcellona che nel 2010 ha proposto nel Padiglione Spagnolo dell’Expo di Shangai tessiture in vimini quali tecniche di costruzione sostenibili. Fra le più di 90 architettrici presenti in mostra, purtroppo, ancora una volta manca la svedese Ingrid Wallberg e, vi risultano assenti persino la francese Andrée Putman (qui su Doppiozero) e la nostra Piera Peroni, fondatrice della rivista Casa Novità (1961) che, dopo i primi cinque numeri divenne Abitare; e chissà quante altre ne restano da scoprire: la ricerca e il censimento continuano.
Nella mostra romana, curatrici, direttrici di riviste e di musei, critiche e storiche, quali Paola Antonelli, Maristella Casciato, Beatriz Colomina, Sylvia Lavin, Martha Thorne ed altre forniscono il loro prezioso contributo in brevi video che il visitatore è purtroppo costretto a vedere in piedi, ottuso almeno il frastuono generale dal provvidenziale impiego di cuffie.
L'aspetto più seducente della rassegna è indubbiamente rappresentato da alcune installazioni, come quella di Lu Wenyu, fondatrice, con il marito Wang Shu, di Amateur Architecture Studio, a Hangzhou in Cina. Suo, infatti, è il prototipo in scala di un tetto in legno tipico della casa tradizionale cinese, la cui struttura a trama lignea evoca la forma delle ali dispiegate di un uccello in volo (e ci richiama alla mente gli studi di Leonardo da Vinci). E ancora il modellino della Stone Garden, della libanese Lina Ghotmeh, una torre costruita al limite della città storica di Beirut, vicino al porto industriale, a un miglio di distanza dall'epicentro dell'esplosione che ha squarciato metà della capitale libanese nell'agosto 2020.
"La facciata è lavorata a mano e le aperture si distribuiscono come sentinelle a sorvegliare una città troppo spesso in guerra", spiegano i curatori. Tra gli altri, c'è anche il plastico in acciaio dell’Icefjord Centre, che sorge in Groenlandia, a 250 km a nord del Circolo Polare Artico, ai margini dell'area protetta dall'UNESCO. Si tratta di un centro di ricerca sul cambiamento climatico progettato dalla danese Dorte Mandrup, per "sperimentare l’infinita scala non-umana della natura artica, dove poter vivere l'esperienza della transizione tra l’oscurità e la luce, il sole di mezzanotte e le luci del nord che danzano nel cielo”, scrive lei stessa. E altrove aggiunge: “Quando a gennaio il primo raggio di luce illumina l’orizzonte dopo sei settimane di buio, la comunità si riunisce in questa zona per celebrare il sorgere del Sole per 40 minuti. La speranza è che il tetto dell’Icefjord Centre diventi il luogo di questo raduno.”
Certamente il periodo che stiamo vivendo è piuttosto fecondo per gli studi e le rassegne sull’artisticità femminile, quasi una primavera per le architettrici e le designer. Speriamo che l’estate che la seguirà sia ricca di messi finalmente prive di ogni distinzione di genere.