Sconfitta e utopia. Identità e feticismo tra Marx e Nietzsche / «Ci hanno davvero preso tutto»

16 Giugno 2018

«Naufragium feci, bene navigavi, perché sono naufragato nelle speranze», scrive Romano Màdera all’inizio di un prologo inedito che, insieme ad un altro testo del 2011, correda la ripubblicazione del suo Identità e feticismo (1977) nel volume Sconfitta e utopia. Identità e feticismo tra Marx e Nietzsche (Mimesis, 2018). A quarant’anni di distanza, l’autore ripensa al testo «scritto di furia tra la fine del 1975 e il 1976» come una bottiglia-libro contenente un messaggio gettato in mare, esattamente come fanno i naufraghi. Ma a quale naufragio si riferisce? 

Nelle nuove pagine introduttive, Màdera – filosofo, psicoanalista e militante sessantottino – non rinuncia, oggi come allora, alla scelta di «leggere Marx con il nucleo pulsante della sua teoria […] cioè con la teoria del feticismo» (p.10). Il testo, scritto in un periodo che l’autore già individuava come disastroso per le avventure politiche della sinistra rivoluzionaria, oggi non può esimersi dal misurarsi con il trionfo del “capitalismo globale” per cui “tutto diventa merce” e «l’intero pianeta appare sempre più ricoperto di una sola rete di scambi interdipendenti» (p. 22). Il naufragio è dunque quello delle speranze rivoluzionarie. Tuttavia, si affretta a precisare il naufrago Màdera, il messaggio nella bottiglia non contiene «lagnosi pentimenti e squallidi colpi nello stile di chi si glori di colpire un uomo morto, o gli sconfitti di turno», bensì il suo contrario, ossia «un amorosissimo testa a testa con il tentativo di Marx di coniugare la sua critica al feticismo capitalistico […] con una teoria rivoluzionaria basata sulla lotte di classe» (p. 9).

 

Il titolo di questa nuova e integrata edizione, Sconfitta e utopia, sembra esattamente rimandare all’evidente e inappellabile «rovinosa disfatta» (p. 25) della teoria rivoluzionaria tanto che, a mio avviso, è legittimo leggere questo volume alla luce di quella che Enzo Traverso ha definito «la tradizione nascosta» della Malinconia di sinistra (E. Traverso, Malinconia di sinistra, Feltrinelli, Milano 2016). Per quanto io non sia a conoscenza di un’influenza tra gli autori, ho ritrovato nei due testi più di un’assonanza addirittura nella scelta dei termini e nell’immaginario a cui ricorrono: il primo paragrafo del lavoro di Traverso si intitola esattamente Naufragio con spettatore, con esplicito richiamo a Hans Blumenberg, e inizia mettendo a tema la storia del socialismo letta come «una costellazione di sconfitte» (ivi., p. 31). «E la malinconia – scrive Traverso citando Siegfried Kracauer – come disposizione intima […] favorisce l’estraniamento da sé, che è una premessa della comprensione critica» (ivi., p.35). Un movimento del genere mi sembra che possa appartenere a Màdera il quale, infatti, non si fece coinvolgere nell’attivismo del ’77 e si dedicò al già citato tentativo di leggere – o ri-leggere – Marx, assumendo l’idea che la teoria del feticismo «non spiega tanto, o peggio, soltanto, l’ideologia implicita nella produzione di merci […]», ma che essa sia «la teoria che fonda la teoria del valore e della sua forma e, quindi, la teoria generale dei rapporti di produzione e di scambio capitalistici, la critica dell’economia politica» (p. 20). La teoria del feticismo, quindi, assunta come «sorta di DNA» dell’organismo sociale che è la società capitalista.

 

Questa «immane pretesa» ha permesso di dare risposta a un interrogativo semplice quanto radicale: perché la classe operaria non ha fatto la rivoluzione? La soluzione offerta dall’autore è senza dubbio di straordinaria originalità e drammaticità: Marx non ha dedotto la sua passione per la rivoluzione dalla teoria che aveva delineato, ma l’ha giustapposta. La teoria marxiana, secondo la ricostruzione di Màdera, nega la possibilità della rivoluzione. Marx è infatti il titolare di «una disperata lucidità capace di scorgere quello che davvero [accade]: la funambolica capacità del capitale di rendere perfettamente omogeneo a sé stesso ogni preteso avversario» (p. 11). La classe operaia, stando alle conseguenze del processo capitalistico delineato da Marx, assume e percepisce le categorie dell’economia politica come “naturali” non andando oltre, nel migliore dei casi, allo sviluppo di una coscienza sindacale volta al miglioramento delle immediate condizioni di vita. 

 

 

La dissoluzione del soggetto, che da Nietzsche approda al postmodernismo, è secondo Màdera anticipata da Marx nella potenza sussuntrice che egli attribuisce al capitale «come automa, come processo senza soggetto, [in cui] diventa l’unico “soggetto” [e dove] gli uomini e le loro idee vengono riprodotti come appendici ruolizzate» (p. 27). 

Il codice genetico della civiltà dell’accumulazione nelle scoperte di Marx è il titolo del già citato breve saggio del 2011 che in Sconfitta e utopia trova spazio tra Quaranta anni dopo Identità e feticismo, l’inedito prologo che pensa al testo come una “bottiglia-libro”, e la vera e propria riedizione di Identità e feticismo. Per comprendere efficacemente le considerazioni di Màdera risulta molto esplicativo il sottotitolo del primo dei tre testi appena elencati il quale, continuando a fare uso di metafore biologiche e mediche, si riferisce all’impresa teorica e politica marxiana definendola «una perfetta diagnosi, una mediocre prognosi, una terapia inconsistente». Identità e feticismo è un tentativo di mostrare come, stando ai suoi stessi argomenti, la «teoria rivoluzionaria [marxista] non dà ragione delle sue condizioni di possibilità entro le condizioni di possibilità del suo stesso oggetto» (p. 183). Ed è la sua caparbia insistenza nel voler mantenere teoricamente valida e politicamente percorribile la strada rivoluzionaria che porta Marx «sul terreno dell’utopia».

 

Tuttavia, se le domande a proposito delle rivoluzioni mancate o fallite portano alle conclusioni ora accennate, rimane aperto uno spiraglio che ha origine dalla «semplice fatticità del pensiero critico»: «il fatto che la critica esistesse – sostiene Màdera ripensando al sé che scriveva a metà degli anni ’70 – dava a pensare che, da qualche parte, ci dovesse essere qualcosa che poteva opporsi alla identificazione del mondo con il capitale prodotta dal capitale stesso» (p. 11). “Che fare”, quindi, se oltre a quest’ultima considerazione aggiungiamo che la perdita della teoria di riferimento non si è mai accompagnata alla volontà di «spargere ceneri sulla speranza rivoluzionaria diventando [apologeti] dello stato di cose presenti»? (p. 12). È su questo interrogativo, potremmo dire su questo spostamento del pensiero, che si passa, anche nella struttura formale del testo, dalla prima parte di Identità e feticismo – dedicata a Marx – alla seconda, in cui l’interlocutore privilegiato è Nietzsche. Un’influenza qui altrettanto determinante, insieme al pensiero nietzscheano, è quella di Freud. I due autori, anch’essi punti di riferimento nei suoi anni giovanili, sono per Màdera “un segnavia” per la dimensione psichica; una dimensione nascosta e, per quanto declinata sempre singolarmente, tutt’altro che priva di ricadute collettive. È dall’unione di questa attenzione per lo psichismo e lo studio della società storicamente determinata – con le sue annesse ideologie e culture – che «otteniamo un composto» che possiamo chiamare “biografia”. 

Nella seconda parte di Identità e feticismo inizia così a prefigurarsi un movimento, messo nero su bianco nell’ultima pagina del libro, che vuole procedere «dalla biografia alla storia». «Data la generazione, le premesse culturali e i casi amari della vita – scrive Màdera ripensando al proprio percorso intellettuale inaugurato in quegli anni – era inevitabile passare per la psicoanalisi» (p. 14). Da allora quest’ultima non è stata altro che «una continuazione della politica con altri mezzi» nel tentativo di dare risposta a quel tragico “che fare?” scaturito dalla contemplazione dell’“indicibile”, ovvero «la critica del capitale [avvolta] su sé stessa fino ad essere stravolta nel circolo vizioso del suo oggetto» (p. 223). 

 

Se, assumendo la sconfitta e salvando l’utopia, vogliamo continuare a parlare di rivoluzione, la questione, con Identità e feticismo, «passa alla possibilità e al significato di una rivoluzione antropologica, almeno nel senso di un radicale mutamento di civiltà» (p. 25), intraprendendo così un lavoro «non solo analitico ma esteso all’insieme delle pratiche filosofiche» (p.15). Ciò che mi preme sottolineare, in chiusura di questa breve e parziale ricostruzione di un percorso filosofico e politico estremamente complesso, è il riaprirsi del problema dell’azione e della prassi trasformativa, anche se di natura evidentemente diversa da come si era posta inizialmente. La malinconia che scaturisce dalla sconfitta delle utopie per cui ci si è battuti, ritornando a Traverso, può essere vista come «un processo suscettibile di sbocchi diversi, tra i quali una ritrovata capacità d’azione […] un processo nel quale, osserva Judith Butler, il soggetto esperisce un ripiegamento autoriflessivo necessario alla sua sopravvivenza (una visione che lo stesso Freud avrebbe infine accettato in L’Io e l’Es)» (E. Traverso, Malinconia di Sinistra, cit., p. 64).

 

R. Màdera, Sconfitta e utopia. Identità e feticismo tra Marx e Nietzsche (Mimesis, 2018).

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