Orwell, Amazon e l’economia domestica del libro

12 Settembre 2014

Nella burrascosa tenzone tra Amazon e Hachette che ha infervorato il gossip editoriale agostano, di recente ripercorsa su queste stesse pagine da eFFe con una condivisibile proposta politica al lettore, ha fatto molta sensazione, tra le altre cose, una goffa citazione di George Orwell. I portavoce di Bezos hanno estrapolato un brano dal contesto originale, interpretando alla lettera un’evidente antifrasi, da un testo pubblicato il 5 marzo 1936 sul «New English Weekly», dove lo scrittore recensisce parte del programma editoriale dei mitici tascabili Penguin. Come il «New York Times» ha segnalato tra i primi, infatti, basta leggere un estratto un po’ più corposo per cogliere l’ironia dell’articolo:

 

«Sei centesimi, per i Penguin Books, sono spesi magnificamente, tanto magnificamente che se gli altri editori avessero un minimo di senno farebbero causa comune per toglierli di mezzo. Chiaramente, è un grande errore credere che i libri economici siano un bene per il mercato librario. In effetti è proprio il contrario. Se, per esempio, avete cinque scellini da spendere e normalmente il prezzo di un libro è mezza corona, è abbastanza presumibile che spendiate i vostri cinque scellini per due libri. Ma se i libri costano sei centesimi ciascuno, non ne comprate dieci, perché dieci libri sono più di quelli che volete: avrete raggiunto il vostro punto di saturazione molto prima. Probabilmente comprerete tre libri da sei centesimi e spenderete il resto dei vostri cinque scellini per un biglietto del cinema. Quindi, più i libri diventano economici, meno soldi si spendono in libri. Dal punto di vista del lettore è un vantaggio, e non arreca danno al mercato considerato nel complesso, ma per l’editore, il compositore, l’autore e il libraio è un disastro».

 

Tra il serio e il faceto, insomma, Orwell osserva che mantenere alti i prezzi avvantaggerebbe soltanto l’industria editoriale, mentre il loro abbassamento favorirebbe non solo i lettori ma il mercato considerato nel suo complesso. Lo scrittore conclude paventando:

 

«una marea di ristampe economiche che paralizzerebbe le biblioteche di prestito (madri adottive del romanziere) e metterebbe un freno all’uscita di nuovi romanzi. Sarebbe bello per la letteratura, ma molto brutto per il commercio, e quando si tratta di scegliere tra arte e denaro, beh, finite voi la frase».

 

 

Possiamo aggiungere che Orwell sarebbe tornato sull’argomento esattamente dieci anni dopo, diffondendosi ampiamente sull’economia domestica del libro in un articolo apparso l’8 febbraio 1946 sul «Tribune», dal titolo Books vs. cigarettes. L’autore riporta in dettagliate tabelle i suoi acquisti di libri nell’arco degli ultimi quindici anni: l’allarmata conclusione è che il denaro speso per le sigarette, nello stesso periodo, è quasi il quadruplo! Dati alla mano, dunque, Orwell dimostra l’infondatezza dell’idea che la lettura sia un «costoso hobby»:

 

«È difficile stabilire una qualche relazione tra il prezzo dei libri e il valore che se ne può ricavare. […] Se non leggete altro che romanzi e letteratura “leggera”, e comprate ogni libro che leggete, spenderete – ponendo che il prezzo di un libro sia di otto scellini, e che per leggerlo ci vogliano quattro ore – due scellini all’ora. È più o meno il prezzo di una poltrona nei cinema più costosi. Se vi dedicate a libri più seri, e ancora comprate tutto quello che leggete, le vostre spese saranno all’incirca le stesse. I libri costerebbero di più, ma ci vorrebbe più tempo a leggerli. In entrambi i casi, manterreste il possesso dei libri dopo averli letti, e potreste rivenderli a un terzo circa del prezzo di copertina. Se comprate soltanto libri di seconda mano, le vostre spese di lettura saranno ovviamente di molto inferiori: forse sei centesimi all’ora è una stima ragionevole. D’altro canto, se non comprate i libri ma vi limitate a prenderli in una biblioteca di prestito, leggere vi costa circa mezzo centesimo all’ora, e se li prendete alla biblioteca pubblica non vi costa nulla, o giù di lì».

 

Ancora una volta, la conclusione del pezzo è venata di un umorismo sferzante:

 

«Se il nostro consumo di libri continua a mantenersi basso, dobbiamo ammetterlo, la ragione è che leggere è un passatempo meno eccitante che andare alle corse dei cani, al cinema o al pub, non che i libri, comprati o presi in prestito, sono troppo cari».

 

Paradossali e, da par suo, al contempo lucidi, i conteggi di Orwell offrono spunti – ben diversi dai travisamenti di Amazon – per una riflessione sul prezzo dei libri e degli eBook. La questione chiave, infatti, è che se in generale «è difficile stabilire una qualche relazione tra il prezzo dei libri e il valore che se ne può ricavare», questa difficoltà è rinnovata e moltiplicata in un regime di post-scarsità come quello che caratterizza l’economia del libro digitale. Se infatti, nel ragionamento di Orwell, dal punto di vista del lettore, il “grado zero” è rappresentato dal prendere in prestito i libri in una biblioteca pubblica, il formato digitale rappresenta un grado ulteriore.

 

 

Per un verso, infatti, un eBook è un bene non-rivale, cioè se un lettore ne “prende in prestito” una “copia” non riduce in alcun modo per altri lettori la possibilità di fare altrettanto, contrariamente a quanto avviene con i volumi di una biblioteca. Per altro verso, la produzione di “copie” immateriali di un libro digitale non ha alcun costo marginale, perché una volta prodotto il file, farne dieci copie o un milione costa uguale: non costa nulla.

 

È vero cioè, come è stato sostenuto, che in termini di lavoro editoriale i costi di realizzazione di un libro digitale non sono diversi da quelli di un libro di carta, ma si tratta per lo più di costi fissi, o al limite la cui componente variabile è legata alla lunghezza o alla complessità redazionale del testo, parametri che – come Orwell chiarisce meglio di chiunque altro – difficilmente possono costituire la base di un conteggio coerente e adeguato del prezzo.

 

Come conciliare allora il diritto a un’equa retribuzione con questa impossibilità di stabilire criteri che non siano un puro e semplice fatto di marketing? È un grave problema strutturale, che non si risolve certo con una caccia alle streghe contro la major di turno, per quanto odiose possano essere le sue politiche; né ostinandosi a pensare che si possa continuare a fare come se niente fosse, come se cioè si trattasse ancora e sempre di vendere beni materiali; e che peraltro riguarda allo stesso modo libri, musica, film ecc.

 

La rivoluzione digitale, insomma, acuisce l’urgenza di sperimentare per la cultura modelli nuovi, capaci di tenere insieme il reddito di creatori e curatori con la rimozione degli steccati che sbarrano l’accesso e la condivisione, altre economie sottratte alla mera logica del mercato.

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