Noi schiavisti
C’è un esercito di schiavi che lavora per noi, e facciamo finta di non saperlo. Dunque siamo noi, gli schiavisti. Ma a volte noi stessi siamo schiavi e magari lavoriamo per loro, in un altro comparto e un’altra zona. Questa la tesi – dimostrata – dal libro di Valentina Furlanetto, Noi schiavisti (Laterza, 2021). Un libro che racconta e ascolta gli eserciti di schiavi e schiavisti, lasciandoci alla fine con due dubbi: ammettere che sappiamo, sapevamo, già tutto (e quindi, accettiamo tutto?); constatare che è il fisiologico funzionamento dei mercati, delle merci e del lavoro (e quindi, ci sta bene così?).
Cominciamo da quest’ultimo punto, con il macellaio. “Non è certo dalla benevolenza del macellaio, del fornaio o del birraio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse”, è la citatissima frase con la quale Adam Smith in La ricchezza delle nazioni comincia a tracciare la teoria della “mano invisibile” del mercato. Ecco, il libro di Furlanetto – giornalista d’inchiesta, lavora a Radio 24 – parte proprio dal macellaio. Anzi, dalla macellazione della carne, dai mattatoi nei quali lavora il primo plotone dell’esercito degli schiavi. L’intera filiera della carne si basa sui macellatori invisibili, per lo più immigrati, che in tutt’Europa lavorano a paghe bassissime e condizioni durissime per portare nei supermercati carni a prezzi assai contenuti.
Non ci chiediamo, quando vediamo la pubblicità degli iper e quando prendiamo la confezione dallo scaffale, come fa una sovracoscia di tacchino a costare 2,5 euro al chilo. È perché il lavoro in essa contenuto costa pochissimo (anche per gli allevamenti intensivi, le condizioni di vita dei polli oltre che degli umani, ma questo è un altro discorso, benché connesso). Non ce lo chiediamo, ma sotto sotto lo sappiamo; quello che il racconto del libro rivela è l’estensione della catena, il fatto che in Europa lo standard lo dà la Germania, che per prima ha cominciato con l’uso della manodopera dell’Est Europa. Non è la benevolenza del macellaio, è il suo personale interesse che lo porta a usare tutti i mezzi per abbassare i costi, e la competizione livella il mercato al minimo costo – che vuol dire, minimo prezzo per il consumatore. Perché succede adesso, a due secoli e mezzo dai tempi di Adam Smith? Perché quella semplificazione brutale, al limite della banalizzazione (la teoria di Smith è ben più complessa della caricatura dell’homo oeconomicus alla quale viene così ridotta), appare adesso la pura descrizione della realtà?
Eppure nella realtà non si muovono solo gli interessi economici individuali, atomizzati, di chi vende e chi compra; ci sono i governi, le istituzioni, la società con le sue organizzazioni, i sindacati, i movimenti, l’azione collettiva. Il potere, che può essere quello dei macellai organizzati o dei loro dipendenti organizzati, o dei governi per i quali gli uni e gli altri votano. Il diritto, i contratti. Tutto ciò che manca nei mondi del lavoro passati in rassegna negli anelli successivi di questa inchiesta, che dai mattatoi di tutt’Europa passa al welfare delle badanti; ai servizi di consegna dei pacchi; all’assistenza ai malati nelle case di cura; alle pulizie nelle case e negli alberghi; ai campi, alle vigne; alle cave di pietra; alle navi da crociera; e infine ai rider, alla pronta consegna di pranzi e pizze a domicilio.
Il libro è pieno di fatti, di persone e di voci. Non è un saggio sul fenomeno, ma un’inchiesta nella quale i protagonisti del “fenomeno” hanno volti e nomi (a volte fittizi, per paura di ritorsioni), storie che vanno a finire male o bene, luoghi. Entrando nelle case e nei capannoni, si scopre che la realtà non è divisa tra “buoni” e “cattivi”, le vittime non sono di per sé buone ma anzi spesso nei gradi intermedi dello sfruttamento ci sono ex-sfruttati che passano a organizzare i nuovi sfruttati.
Come anelli successivi di una collana, i capitoli del libro si inoltrano in mondi molto antichi, come quello della pietra di Luserna scavata in Piemonte, e molto recenti, come i rider che lavorano per l’algoritmo. Un filo comune di questa collana è nell’assenza del contratto. Facciamo un salto fuori dal libro, nei numeri dell’Istat: ci dicono che attualmente in Italia ci sono 5,8 milioni di lavoratori che hanno un contratto collettivo in vigore; e altri 6,5 che hanno un contratto collettivo scaduto, in attesa di rinnovo. 12,3 milioni di persone. Poco più della metà delle persone che lavorano in Italia.
Tutti gli altri sono senza contratto, o indipendenti. Per tutti costoro non c’è una regola collettiva che – sia pure con tutele e salari calanti, per la riduzione del potere dei sindacati (non ovunque) – bene o male li protegge. Ci sono le leggi. Che però non bastano: non solo perché la nostra legge non prevede un salario minimo (e Confindustria e sindacati concordano sulla scelta di non recepire la direttiva europea in proposito); ma anche perché altre tutele giuridiche poste a garanzia delle condizioni di lavoro vengono spesso violate.
Quella sulla sicurezza, come dicono i numeri sugli incidenti sul lavoro, anche quello “regolare”; quelle sulle condizioni e gli standard; e quelle che dovrebbero evitare che la concorrenza tra le aziende avvenga sistematicamente ai danni dei soggetti più deboli, come le regole sugli appalti e i subappalti. Un grande protagonista del racconto sono i sub-appalti e le gare al massimo ribasso, attraverso le quali forme ottocentesche di sfruttamento del lavoro si insinuano anche in settori che di per sé dovrebbero essere super-regolati: un esempio classico sono gli infermieri, sui quali si sono accesi i riflettori con la pandemia ma non abbastanza da scoperchiare l’apartheid che vige in corsia e nei servizi di assistenza tra contrattualizzati e finti soci di finte cooperative; un altro esempio, nascosto nonostante il gigantismo dei prodotti, sono le navi da crociera, gioiello dell’industria pubblica italiana.
Tutto questo avviene in modo legale, sfruttando le possibilità consentite da una normativa tutta concentrata sul mondo del lavoro standard; ma viene fuori anche – e questo è un altro dei pregi dell’inchiesta di Furlanetto – una pervasiva violazione delle (poche) leggi che ci sono. E qui, è evidente la responsabilità delle istituzioni, che dovrebbero controllare e non lo fanno, dovrebbero sanzionare e chiudono un occhio oppure non vedono affatto. Anche prima di arrivare al vero e proprio lavoro nero, c’è una gigantesca area grigia che scavalca continuamente i confini tra legale e illegale.
Come è evidente fin dal titolo, il libro è anche sulla nostra connivenza con questo sistema, la complicità di chi gode di prodotti e servizi a basso prezzo, di chi di fatto usa il lavoro degli “schiavi”. Per necessità, come nel caso della famiglia a basso reddito con una persona anziana non autosufficiente da accudire, che non ha i soldi per pagare dignitosamente una/un badante; o per abitudine, come nel paradosso della cyclette: “Esiste una fascia di popolazione, per lo più straniera, che ha pochi diritti e pochi soldi, che accetta lavori mal pagati e faticosi perché non ha altra scelta, che pedala e consuma calorie e non sa se riuscirà a mangiare a sufficienza. Esiste poi una fascia di popolazione, italiana e benestante, che vuole fare sport e perdere calorie, ma non esce di casa per prendere la cena e la ordina a domicilio”. Questo non vuol dire che la soluzione possa stare in cambiamenti virtuosi individuali: non è che se la signora della cyclette smette di ordinare il pranzo al fattorino in bici, dopo il rider starà meglio. “Il punto non è toglierli anche quel lavoro, ma che loro abbiano diritti e una giusta paga”.
Il come, non è oggetto di questo libro-denuncia. Lo svelamento è un primo passo necessario. Potrebbe seguirne anche una riflessione sulla sostenibilità complessiva di una economia per larghi strati basata su lavori a basso reddito e consumi low cost: ma anche in questo caso, come per la transizione ecologica, il passaggio a un modello sostenibile non è indolore. Se i servizi di consegna e pulizie fossero pagati di più – il giusto – potrebbero permetterseli solo i più ricchi, come in passato. Interi settori economici e abitudini di consumo dovrebbero riassestarsi. Non è utopia: la pandemia ha dimostrato che, spinti da necessità, possiamo fare cose prima impensabili. Il punto è capire e scegliere qual è, la necessità. Su questo punto, entrano in gioco i rapporti di forza e il potere: proprio i lavori più sfruttati e sottopagati si sono rivelati essenziali, nella pandemia, e questo sta lentamente incidendo sulle relazioni contrattuali. Lo si vede per ora più in contesti come quello statunitense, con un aumento delle paghe, e anche una ondata di dimissioni. Una spinta politica verso tutte quelle forme di tutela, giuridica ed economica, nei posti dove adesso non c’è alcuna tutela, rafforzerebbe il potere contrattuale degli “schiavi”.