Delirio produttivo / Il giorno dopo il giorno della memoria

18 Febbraio 2020

Quando il 27 gennaio 1945 l'Armata Rossa varca la soglia di Auschwitz e passa sotto la scritta di ferro che sormonta l'ingresso, il mondo scopre quella frase: Arbeit Macht Frei, il lavoro rende liberi. Si tende spesso a leggerla come un tragico inganno a danno dei deportati o come un simbolo di falsificazione propagandistica. La realtà è peggiore. Finché quei prigionieri non moriranno – assassinati, oppure di stenti e fatica – il loro destino è fare da manodopera a basso costo per l'industria tedesca. Come lavoratori schiavi, insomma. Perché molte aziende e molti marchi dell'epoca vedono nella loro prigionia niente più che un'opportunità vantaggiosa per produrre a basso costo.

 

Il progetto coinvolge tutti i campi di concentramento. Come ricostruisce il Dizionario della Resistenza, la scritta è stata installata sull'ingresso di Auschwitz nel 1940 per emulazione di quella già situata nel campo di Dachau. Andavano sfruttati fino all'estremo, lavorando undici ore al giorno ininterrotte tranne la mezz'ora per il pasto, in un tempo di lavoro che è sempre tempo di terrore, all'interno del quale sono sempre possibili ovunque e in qualsiasi momento violenze, maltrattamenti, sevizie e incidenti provocati con dolo da parte dei sorveglianti e delle guardie

 

Ma l'operaio schiavo conviene, è ambito. Ad Auschwitz molte industrie private ne sfruttano gli ultimi giorni: il calzaturificio Bata, la Bayer che sperimenta lì anche i suoi farmaci e la loro tossicità, la I.G.Farben, industria chimica che produce anche lo ZyklonB, il gas chimico utilizzato nelle camere a gas, e incorpora anche marchi come Basf e Agfa, così come la DAW, fabbrica di proprietà delle SS. La Siemens possiede un impianto ad Auschwitz. Anche Hugo Boss, lo stilista che ha disegnato le uniformi naziste, fa ricorso ai lavori forzati. E certo non si sottrae l'industria bellica: i deportati sono costretti a costruire le armi che saranno usate contro i loro possibili liberatori. A Dachau lavorano per la BMW, per le officine aereonautiche Messerschmitt, per la fabbrica di locomotive Krauss-Maffei.

 

Industria tedesca e nazismo hanno stretto da subito un patto strettissimo. Personaggi di spicco come Richard Brhun, fondatore di Audi, sono membri del partito fin dall'avvento di Hitler nel 1933. Il nazismo, ha scritto George Mosse, salva la struttura capitalistica della Germania da sicura rovina assicurando alla grande borghesia proprietaria le condizioni più ambite. Non solo commesse statali formidabili. Proibisce gli scioperi, chiude i sindacati, cancella la sinistra, alza l'orario di lavoro: il suo legame protettivo con la macchina produttiva nazionale penetra l'immaginario assumendo un significato totale, facendosi identità profonda, assorbendo l'intera cultura industriale tedesca senza possibili eccezioni. Non a caso il libro I sogni del terzo Reich, che raccoglie i racconti dei sogni di circa trecento tedeschi, si apre con quello vissuto dal proprietario di una fabbrica – il Signor S., di idee socialdemocratiche – appena tre giorni dopo la nomina di Hitler a cancelliere.

 

Goebbels giunge alla mia fabbrica. Ordina alle maestranze di schierarsi sulle due file, una a destra, l'altra a sinistra. Io devo stare nel mezzo e sollevare il braccio per il saluto nazista. Mi ci vuole mezz'ora, per riuscire ad alzarlo, un millimetro dopo l'altro. Goebbels assiste ai miei sforzi quasi fosse uno spettacolo, senza esprimere né biasimo, né approvazione. Ma quando ce l'ho finalmente fatta, pronuncia cinque parole: "Non desidero il suo saluto", mi volta le spalle e si avvia verso la porta. Così mi ritrovo messo alla berlina nella mia azienda, tra la mia gente, con il braccio alzato.

 

 

Nel gioco dei simboli, l'umiliazione si manifesta davanti al nazista perfetto: Goebbels, ministro della propaganda, incarna la massima densità dell'azione hitleriana, e nella sua figura comprende l'esercizio del potere come la sua argomentazione, la violenza criminale quanto la volontà persuasiva. Un sistema nel quale la martellante, trionfale produzione di merci felicemente naziste che irrorano il mercato tedesco ha un posto fondamentale: è anche quell'abbondanza a dimostrare il successo della mobilitazione nazionale. 

 

La macabra euforia produttiva coinvolge chiunque. Persino agli impianti di Coca-Cola, bevanda troppo "americana" per circolare durante la guerra, è data la possibilità di riconvertire la catena di montaggio e non fermarsi mai: nasce così la Fanta, abbreviazione di Fantasie. Vivere tra oggetti fabbricati da schiavi diventa possibile, se si tratta di celebrare la fine della paura sociale. Intanto, nei campi di prigionia e di sterminio si concentra un'immensa forza lavoro che a occhi bassi non smette di produrre gli oggetti nazisti, braccia silenziose di un'incessante propaganda delle merci.

 

L'idea di Oskar Schindler raccontata poi nel film di Steven Spielberg – gli ebrei prigionieri assunti con la scusa di fargli produrre beni, così sottraendoli allo sterminio – si ambienta e ricava uno spazio invisibile al potere proprio in questa tragedia dell'abbondanza. Merci in cambio di vita: in una scena, il regista ci mostra i lavoratori all'opera mentre la voce off di Schindler legge una sua lettera di presentazione inviata ai gerarchi e scritta con piglio da brochure pubblicitaria: 

 

È con grande piacere che presento, nel pieno della sua produttività, la Deutsche Email Fabrik, fabbrica di vasellame di qualità appositamente disegnato e realizzato per uso militare. Grazie a macchinari moderni, il nostro staff altamente specializzato di artigiani e operai offre un prodotto di valore ineguagliabile e mi consente di proporre, con sicurezza e orgoglio, una linea da campo e cucina insuperabile dalla concorrenza. Allego modelli e colori disponibili. (...)

 

Spielberg si sofferma non a caso sull'aspetto reclamistico dell'imprenditore-benefattore, il quale intuisce il potere della merceologia nel delirio produttivo nazista. Mentre la fabbrica sorge, gli chiedono di cosa si occuperà, e Schindler risponde farei pubblicità in giro, mi occuperei dello stile... È questo che so fare, non lavorare: la presentazione. Ma la magia della merce, l'allure del suo spettacolo – i prodotti di Schindler sono "smaltati", luccicano – che in questo film produce il singolo miracolo e salva le vite, può essere ribaltata e vista invece nella sua potenza di segno contrario e irresistibile, capace di spezzare le catene della storia e schiacciare l'uomo.

 

Si tratta di realizzare l'annientamento mediante il lavoro, attingendo al flusso ininterrotto di manodopera. Per sostenere i ritmi alti della produzione è usata anche la frusta, creando un'atmosfera di disciplina terroristica. Riprodurre con parole quella condizione è impossibile: gli operai schiavi del nazismo sono una follia sorta alla fine del nostro mondo. E la lista dei marchi che hanno partecipato a qualche titolo al crimine nazista è lunga e pubblica. Ma non avrebbe senso ripercorrere questa storia per accusare. Settantacinque anni dopo, quelle aziende hanno preso le distanze in ogni modo, attraversando le fasi dolorose di una colpa non misurabile che non ammette fughe. Neanche economiche. Ancora nel 1999, dodici grandi compagnie – tra esse Deutsche Bank, Allianz, DaimlerChrysler, Volkswagen – hanno istituito un fondo per compensare le vittime dell'Olocausto. Nel 2000 un gigante come Nestlé ha dichiarato di star continuando a risarcire i sopravvissuti e le organizzazioni ebraiche per aver utilizzato lavoratori forzati.

 

Ma dalla presenza banale delle merci e dei marchi in questa tragedia si arriva all'oggi per altre vie. Custodire l'unicità dell'olocausto non impedisce di vedere che una forza-lavoro di schiavi, senza volto né vita, è una presenza fantasmatica che continua ad abitare il mondo. Nelle campagne italiane come nelle fabbriche orientali, dai pomodori agli smartphone: non serve uno spirito anticapitalista per ritrovare lì uno sfruttamento disumano che riduce l'individuo alle sue braccia, alla sua schiena, e prevede intorno alla produzione la volenterosa distrazione di un'opinione pubblica alla quale poi recapitare merci nuove, prodotti perfetti, prezzi a portata di mano. 

 

Nel giorno dopo il giorno della memoria vediamo intorno a noi una folla muta di oggetti dei quali nulla sappiamo. Non dobbiamo imparare ad ascoltare la loro voce, conoscere ogni loro singola storia? Mentre sull’efficacia della memoria contemporanea si posano dubbi, come quelli di Valentina Pisanty in I Guardiani della Memoria, la luce nera di allora si proietta sul presente in modo diverso, su un altro possibile mai più che oggi risuona nella costruzione di una nuova coscienza sostenibile, nella ricerca di modelli di vita compatibili. Se la memoria diventerà progetto.

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