Lega Internazionale per l’Educazione Nuova / Gli innovatori dell’educazione

23 Gennaio 2022

I bambini e i ragazzi sono persone

 

Fino al XVIII secolo il bambino e il giovane erano considerati forme imperfette di umanità predisposte al male, al vizio, dunque vicine all’animalità. L’educazione era una forma di correzione dell’animalità originaria del bambino per fargli acquisire la virtù e il dominio di sé. I luoghi educativi dovevano essere chiusi e separati dalla vita reale. Non è un caso, dunque, che le scuole dell’Ancien Régime siano state costruite sul modello del chiostro e del convento: è nei collegi dei gesuiti e nelle scuole lasalliane che nasce quella che oggi viene chiamata la «forma scolastica» (insegnamento simultaneo e collettivo, classi omogenee per età, valutazione numerica, ecc.). 

 

Nel XVIII secolo inizia però ad affermarsi una nuova idea dell’infanzia. Il bambino non è più considerato un essere imperfetto, gli si riconosce uno status a sé che merita rispetto. Jean Jacques Rousseau fece scandalo quando scrisse nell’Emilio: «Amate l’infanzia, favorite i suoi giochi, i suoi piaceri, il suo amabile istinto». Questo puerocentrismo è il tratto principale di quella che a partire dalla fine del XIX secolo sarà chiamata Educazione Nuova. Già dalla fine Settecento il puerocentrismo è stato però accompagnato da un altro principio, quello dell’educabilità di tutti. L’educazione, scolastica e non, deve sì rispettare il minore, partire dai suoi bisogni e interessi ma per farlo crescere, non per lasciarlo dov’è. Tutti possono crescere e migliorare, anche coloro che molti considerano non educabili (i disabili, i ritardati mentali, i folli). Questi principi sono stati messi in pratica da alcuni educatori cresciuti nella stagione dell’Illuminismo. Penso soprattutto al medico Jean Gaspard Itard (quello di Il ragazzo selvaggio del noto film di François Truffaut) e all’educatore svizzero Johann H. Pestalozzi. 

 

Il movimento dell’Educazione Nuova

 

Le nascenti scuole nazionali non hanno fatto propri questi principi, se non a parole. L’esigenza di “educare” i nuovi cittadini al patriottismo spinse infatti nel corso dell’Ottocento le nuove élites politiche ad adottare il modello “clericale” dell’insegnamento simultaneo e collettivo. Ma la contraddizione doveva prima o poi emergere. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento la “forma scolastica” è stata messa in discussione da educatori che registravano le nuove sensibilità che stavano emergendo nella società. I fondatori delle prime Scuole Nuove, il tedesco Hermann Lietz e il francese Edmond Demolins, hanno fatto conoscere in Europa la scuola di Abbotsholme dell’inglese Cecil Reddie, una scuola-comunità situata in campagna centrata sui lavori manuali, l’igiene di vita, la pratica delle arti e degli sport. Lo hanno fatto con i loro libri e grazie alla collaborazione con lo svizzero Adolphe Ferrière. Fu Ferrière, infatti, a fondare nel 1899 il BIEN (Bureau International des Écoles Nouvelles) e a giocare un ruolo essenziale di ponte tra i Paesi di cultura tedesca e quelli di cultura latina.

 

Fu sempre Ferrière a cercare di definire i criteri per distinguere le Scuole Nuove dalle scuole tradizionali. Ferrière li sintetizzò in trenta punti (Caratteristica delle scuole nuove. Le 30 tesi) che verranno pubblicati nel n. 15 (aprile 1925) della Rivista “Pour l’Ère Nouvelle” di cui era direttore. Per brevità indicò anche un programma minimo di una “Scuola Nuova”: «La Scuola Nuova è prima di tutto un convitto familiare situato in campagna in cui l’esperienza personale del ragazzo è alla base sia dell’educazione intellettuale – in particolare grazie ai lavori manuali – sia dell’educazione morale attraverso la pratica del sistema dell’autonomia relativa degli scolari». Il principale obiettivo di queste “scuole” era diffondere un’educazione rinnovata nel segno del ritorno al bambino e al ragazzo, ai suoi interessi e impulsi naturali, ignorati da un’educazione trasmissiva e autoritaria che aveva formato soldati e non cittadini.

 

Quegli educatori sostenevano anche la necessità di una coeducazione tra i sessi affinché bambine e bambini potessero trarre beneficio da un’educazione comune. Fu così posto il problema femminile in società ancora molto maschiliste. L’Educazione Nuova avrebbe dovuto essere naturale, vicina alla vita e preparare le future generazioni a una vita sociale solidale grazie a un’esperienza comunitaria. Il vitalismo, il naturalismo, la centralità del corpo (di qui le prime esperienze di educazione all’aperto), erano un terreno comune ai diversi esponenti del movimento. Se è vero che non possiamo parlare di un comune metodo pedagogico, è certo che per tutti si può parlare in linea generale di scuola attiva (espressione lanciata da Pierre Bovet e che poi ebbe grande successo con la pubblicazione dell’omonimo libro di Adolphe Ferrière). Convinti che a scuola il ragazzo debba “agire” e non “subire”, questi educatori promossero un’educazione in cui si impara “facendo”. 

 

Dopo la carneficina della prima guerra mondiale, era il 1921, questi educatori, pur molto diversi (tra loro c’erano anarco-libertari e fedeli alle istituzioni, cristiani e liberi pensatori, socialisti e liberali), sentirono la necessità di riunirsi in Congresso a Calais. Credevano che solo una nuova educazione avrebbe potuto formare cittadini aperti al mondo, tolleranti e solidali evitando così nuovi sanguinosi conflitti. L’iniziativa fu promossa da alcuni teosofi inglesi, Beatrice Ensor e Iwan A. Hawliczek (animatori del New Education Fellowsh). A loro si unirono Adolphe Ferrière, Alexander Neill e Ovide Decroly. Nacque così la Lega Internazionale per l’Educazione Nuova. Negli anni tra le due guerre la Lega si riunì più volte. Vi parteciparono altri educatori e ricercatori, tra cui Edouard Claparède, Roger Cousinet, Pierre Bovet, Paul Geheeb, Célestin Freinet, Maria Montessori, Jean Piaget, Elisabeth Rotten, Henri Wallon, Paul Langevin. 

 

 

Le finalità e i principi della Lega Internazionale per l’Educazione Nuova approvati

nel Congresso di Calais (1921).

 

Il movimento riuscì a coinvolgere solo alcune élites illuminate. Ben presto emersero anche le differenze tra chi sosteneva la necessità di rispettare in modo assoluto la spontaneità del ragazzo (i libertari assoluti come Alexander Neill, autore di un libro mito degli anni Sessanta, I ragazzi felici di Summerhill) e chi (Maria Montessori, Célestin Freinet) riteneva che la vera libertà potesse esprimersi solo all’interno di vincoli determinati da materiali e situazioni organizzate, tra chi credeva che bisognasse optare per scuole “ideali” fuori dai circuiti istituzionali (i liberali liberisti) e chi (i socialisti e altri liberali) riteneva che l’innovazione pedagogica dovesse costituire uno stimolo per cambiare la scuola pubblica, tra chi pensava che l’azione pedagogica fosse la diretta conseguenza di test psicologici individualizzati (gli psicopedagogisti dell’Istituto Jean Jacques Rousseau di Ginevra) e chi (Freinet o Makarenko) riteneva che, pur essendo utile comprendere il funzionamento di certi meccanismi dello sviluppo infantile, l’educatore dovesse guardare al futuro del bambino e non condannarlo a restare vincolato al suo passato. Tra le due guerre queste tensioni tornarono ciclicamente ma prevalse la necessità di costruire un fronte unito contro la scuola tradizionale.

 

 

Purtroppo quegli educatori e ricercatori non riuscirono a strutturare un corpus unitario di dottrine che potesse “fare autorità”. Oggi abbiamo qualche strumento in più per conoscere quella storia. Utilizzando rari documenti di archivio, il film Révolution école ha recentemente ripercorso il percorso della Lega Internazionale per l’Educazione Nuova dal 1921 al 1939. 

L’esperienza della Lega fu interrotta dallo scoppio della seconda guerra mondiale. Non rinacque per diverse ragioni, tra cui un affievolimento dello spirito cosmopolita a causa della guerra fredda. Tuttavia molte istanze che avevano animato quegli anni agirono da fermento anche nel secondo dopoguerra. In Italia si diffusero gli studi di Dewey e le esperienze pedagogiche della Progressive Education americana. Negli stessi anni il movimento promosso in Francia da Célestin Freinet e da sua moglie Elise divenne internazionale. In Italia, su iniziativa di alcuni insegnanti (Giuseppe Tamagnini e Aldo Pettini e molti altri) che si ispiravano alla pedagogia Freinet, fu fondata la Cooperativa per la Tipografia Scolastica, che successivamente prese il nome di Movimento di Cooperazion Educativa. Fu questo movimento, insieme ad altri, a preparare e a promuovere le iniziative di rinnovamento della scuola che caratterizzarono gli anni Sessanta e Settanta del Novecento: il tempo pieno, la lotta contro i voti e la selezione, l’apertura della scuola di tutti ai ragazzi con disabilità e ritardi cognitivi.

 

L’Educazione Nuova oggi

 

E oggi? Nella società “individualizzata” e consumista che si è lasciata alle spalle le società “olistiche” qual è l’eredità che ci lascia quell’esperienza? Per tentare di rispondere è necessario prima di tutto tener conto di due fenomeni. Il primo è la sostanziale vittoria della pedagogia tradizionale nei sistemi scolastici. Anche se è stata superata la scuola “caserma”, repressiva e punitiva, il modello didattico più diffuso è ancora sostanzialmente quello ottocentesco dell’insegnamento simultaneo e collettivo con la divisione in classi omogenee per età e i suoi correlati: lezione frontale, studio o esercitazioni, valutazione numerica. La “pedagogia bancaria” di cui parlava uno dei grandi educatori del Novecento (Paulo Freire) fa ancora parte della routine quotidiana della maggior parte degli insegnanti.

 

Non solo: la pedagogia tradizionale è stata implicitamente legittimata da politiche scolastiche guidate da un modello manageriale e tecnocratico (quello che è stato chiamato “progressismo organizzativo”) che, con lo stesso stile autoritario, ha imposto la competizione tra scuole e tra Stati e il “pilotaggio dei risultati” sulla base delle valutazioni internazionali e nazionali. Ci sono insegnanti e intellettuali che hanno identificato questo modello con la pedagogia. Ora, è pur vero che una parte della pedagogia accademica si è consegnata a quel modello manageriale ma i fondamenti della pedagogia moderna, ripresi dall’Educazione Nuova, non sono affatto quelli. È un fatto che quei principi non sono mai stati presi in considerazione dalle autorità pubbliche, se non a parole. Di conseguenza, molte istanze di rinnovamento si sono spostate fuori dalla scuola pubblica. Molti genitori e insegnanti, spinti da una perdita di fiducia nelle istituzioni, oggi accusano la scuola pubblica di essere troppo rigida, poco attenta allo “sviluppo naturale del bambino” e ai suoi interessi, ossessionata da continue prove di valutazione che invece di motivare favorirebbero il cinismo e la competizione.

 

Quando la “libertà” è un valore che si fa sempre più difficoltà a vedere soddisfatto nella scuola pubblica ci si rivolge altrove costruendo scuole alternative. Si tratta di iniziative molto variegate tra loro: scuole montessoriane private, educazione libertaria, educazione diffusa, asili nel bosco, ecc. Sono iniziative che riprendono i “luoghi comuni” di alcuni educatori dell’Educazione Nuova: la mistica dell’infanzia (il mito del buon selvaggio, tradotto nel mito del bambino essere perfetto) e una sorta di neoanarchismo antistituzionale. I principali riferimenti pedagogici di queste reti sono Alexander Neill, Maria Montessori e Rudolf Steiner ma non mancano citazioni di Célestin Freinet, della cui pedagogia si colgono però solo alcuni aspetti. L’uso di questi nomi è in molti casi strumentale e finalizzato a una sorta di mitopoiesi per giustificare la bontà delle iniziative in atto. Per realizzarle queste reti utilizzano spesso le possibilità di istruzione familiare offerte dalla normativa italiana (una scelta che ha visto una crescita esponenziale durante la pandemia Covid 19). 

 

Dobbiamo considerare queste reti alternative i veri eredi dell’Educazione Nuova? Non è affatto certo. Al di là degli slogan contro la scuola tradizionale che, soprattutto nella fase iniziale, hanno agito come segni di riconoscimento (è celebre l’allegoria di Ferrière sulla scuola “creata su indicazione del diavolo”) il movimento storico era molto variegato e sull’alternativa tra “scuole ideali (private) e scuola unica (pubblica) si divise profondamente. Aveva poi di fronte una scuola “caserma”, figlia di una società “olistica” e molto più autoritaria di quella di oggi. Lo stesso Célestin Freinet, sostenitore della scuola pubblica, ne fu cacciato e fu costretto, suo malgrado, a fondare una sua scuola a Vence (v. pedagogia Freinet). 

 

Oggi, dunque, pochi possono ambire a raccogliere l’eredità di quei pionieri. Non a caso Louis Raillon, collaboratore di Roger Cousinet, ha potuto scrivere: «In questa avventura, ciò che stupisce non è il fatto che l’Educazione Nuova non abbia vinto, ma che ci si debba chiedere se sia veramente esistita». Non bisogna tuttavia cedere al pessimismo. Se cerchiamo di andare oltre i “luoghi comuni” dell’Educazione Nuova (dei “luoghi comuni” e della necessità di approfondirli ha scritto Philippe Meirieu in Pedagogia. Dai luoghi comuni ai concetti chiave) ci accorgiamo che le istanze poste dal movimento dell’Educazione Nuova ci interrogano ancora oggi. Il principio di educabilità universale (ogni piccolo essere umano è sacro e può imparare e crescere) impegna le istituzioni e tutti noi, interroga i promotori delle scuole alternative che a quel principio forse dovrebbero attenersi: è possibile garantire l’universalità e l’apertura a tutti, compresi i disabili e le fasce sociali più deboli, in un sistema di scuole private a pagamento?

 

E soprattutto, è giusto? Modernità è il rifiuto del fatalismo, non certo la “psicologia delle doti”, oggi in grande ascesa, quella che pretende di individuare supposti “talenti” originari favorendo ragazzi cresciuti in ambienti socialmente più favorevoli. L’Educazione nuova ci chiede di ricercare sempre una soluzione educativa alle difficoltà, di non gettare la spugna, pur sapendo che gli esiti non sono affatto certi. È il principio morale che anima la “fede dei miscredenti”, quella che ci impone di non fermarci al presente interrogando le istituzioni e proponendo nuove vie, nuove pratiche. L’Educazione Nuova ci ricorda che nella scuola abbiamo bisogno di una pedagogia del progetto e di un’organizzazione del lavoro alternativa alla “forma scolastica”. Gli esempi non mancano. Ci ricorda anche che scopo della scuola è l’apprendimento, non l’insegnamento, che a scuola si va per imparare a vivere insieme. Se la scuola vuol essere una palestra di democrazia non può essere organizzata con un modello erede della tradizione “clericale”. Come scriveva John Dewey, uno dei protagonisti di quella stagione, “la scuola non è preparazione alla vita ma la vita stessa”. Per far questo non bisogna perdere la fiducia nella possibilità di una scuola ideale ma la sua ricerca, sempre incompiuta, va perseguita senza rinunciare alla scuola di tutti. 

 

Il progetto Convergence(s) pour l’Éducation Nouvelle

 

Questa esigenza è stata raccolta in questi ultimi anni a livello internazionale da alcune associazioni, anche italiane (il Movimento di Cooperazione Educativa e, più di recente, la Rete di Cooperazione Educativa). Questi movimenti si sono incontrati in una Biennale Internazionale dell’Educazione Nuova attorno al progetto Convergence(s), il cui scopo primario è la condivisione di un nuovo Manifesto dell’Educazione Nuova per il XXI secolo. Il nuovo Manifesto sarà discusso e approvato in occasione del prossimo incontro della Biennale che, si spera, potrà tenersi a Bruxelles nell’autunno del 2022. Oggi forse le ambizioni sono più modeste rispetto a quelle dei primi pionieri. Sappiamo, ad esempio, che l’educazione non può e non deve volere tutto (l’onnipotenza educativa può aprire la strada ai totalitarismi) ma resta una speranza che può ancora fare qualcosa per il mondo a venire (Philippe Meirieu).

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