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L'esperienza turca oltre le barricate di Gezi Park
Rivolte. Questa è stata la definizione data ai movimenti popolari che hanno agitato le piazze delle capitali. Dai tempi delle primavere arabe fino alle ultime proteste di Kiev, quello a cui abbiamo assistito è un’emersione del malcontento di massa nei confronti del potere maggioritario, il quale a seconda dei casi ne è stato travolto e ribaltato. In altri casi il potere egemonico, se sopravvissuto, ne è uscito quanto meno ridimensionato agli occhi degli elettori.
In quest’ultimo caso ci troviamo ancora di fronte a una rivolta compiuta? Come potremmo definire quella esperienza se, nonostante gli scontri urbani tra civili e forze dell’ordine, gli ulteriori gravi malcontenti favoriti dalle scelte politiche del governo, la morte di civili caduti nelle piazze, e molto altro ancora, il paese si ritrova ancora a confermare deliberatamente, in sede di elezioni, quello status quo tanto combattuto a suon di slogan.
L’esperienza turca rientra in quest’ultima fluida interpretazione. La piazza si è accesa alla fine del mese di maggio dello scorso anno con l’occupazione del Parco di Gezi. Dopo il suo sgombero, a metà giugno, il movimento popolare non si è spento, ma ha anzi continuato ad esprimersi in forma urbana e collettiva. Con l’inizio dell’estate circoli collettivi serali per il dibattito e l’approfondimento dello scenario politico hanno continuato a riempire gli spazi pubblici. La coscienza civile, seguita alla protesta gridata nelle piazze, ha avuto modo di maturare e farsi più consapevole. Spentisi i fumi delle barricate, quella massa indistinta che parlava all’unisono per slogan contro il premier Tayyip Erdoğan si è evoluta in gruppi di individui, portatori di una pensiero.
I mesi passano, nasce un partito sulla scia dell’esperienza di Gezi, Gezi Partisi. Prende forma un nuovo progetto politico dalla scissione sorta all’interno del partito filocurdo BDP: inizia l’avventura dell’HDP (Haklarin Demokratik Partisi), formazione che segna un passo avanti rispetto al partito di rivendicazione curda e che cerca piuttosto di accogliere rappresentanti della sinistra laica e liberale.
L’inverno scorre lentamente, ma porta con sé interessanti notizie: una riforma giudiziaria proposta dall’Akp (poi dichiarata incostituzionale); intercettazioni che svelano una ramificata tangentopoli connessa al ramo edilizio, nella quale finiscono coinvolti Premier, ministri e familiari; l’inizio della guerra politica del leader religioso Fethullah Gülen contro Erdoğan, per lungo tempo suo stretto affiliato dagli Stati Uniti; la morte di un’altra vittima degli scontri di Gezi, Berkin, un ragazzo di quattordici anni rimasto in coma per sette mesi per trauma cranico; la chiusura di Twitter; le intercettazioni tra capi di Stato turchi sul conflitto siriano; la chiusura di Youtube, per evitare la circolazione di ulteriori intercettazioni. Un sintetico sommario che porterebbe a pensare che, probabilmente, la stabilità politica del partito di maggioranza sia stata compromessa da mesi di critiche.
Gli esiti delle elezioni amministrative tenutesi qualche settimana fa hanno invece dimostrato il contrario. Su scala nazionale, l’AKP, il partito di Tayyip Erdoğan ha riscosso circa il 45% del voto popolare, mentre il principale partito di opposizione di sinistra, CHP, ha ottenuto un 30%, un risultato che non sembra essere stato scalfito da mesi di critica mediatica e giudiziaria.
Chi erano le persone che hanno agitato le strade delle città dell’estate scorsa? E che volto aveva la fiumana di gente che è accorsa ai funerali del giovane Berkin Elvan? Uno dei fatti che forse ha più commosso l’animo degli abitanti di Istanbul è stata la morte dell’adolescente dopo mesi di coma. Lo scorso 16 giugno, nel periodo delle proteste per Gezi Park, era uscito di casa per andare a comprare il pane; durante il tragitto è stato accidentalmente colpito alla testa da un candelotto di lacrimogeno. Entrato in coma, non si è più svegliato ed è morto l’11 marzo di questo anno. Il giorno dopo, al corteo funebre hanno partecipato decine di migliaia di persone. Un fatto che ancora una volta ha visto scendere per le strade persone di diversa età ed estrazione sociale, proprio come ai tempi di Gezi, ma questa volta con slogan differenti. Mesi fa, a suon di pignatte e cucchiai per la strade e dalle finestre, la gente gridava “Tayyip dimettiti”. Ora, alla luce degli ultimi fatti, il premier viene apostrofato come “ladro” (dopo gli scandali per corruzione) e “assassino”.
Gli esiti delle ultime elezioni hanno reso ancor più insanabile una polarizzazione all’interno del paese, già chiara fin da prima. Gli oppositori a Erdoğan vedono in lui la negazione della Turchia liberale e laica che è stata costruita a seguito della rivoluzione di Mustafa Kemal, Atatük, il padre dei turchi, colui che nel 1923 mise in moto una rivoluzione politica, sociale e culturale che avrebbe voltato definitivamente le spalle al passato islamico ottomano, sia dal punto di vista politico che religioso. Una rivoluzione culturale che necessitava di una costruzione identitaria nuova, fondata sulla cittadinanza. Essere turco, un nuovo turco, significava credere in un nuovo futuro fondato sulla costruzione della società dal basso, attraverso un sistema educativo democraticamente allargato, dalle campagne alle città. Significava abbandonare i simboli religiosi dalla vita pubblica e acquisire un nuovo alfabeto (quello latino a discapito di quello arabo), modernizzare la lingua e molto altro ancora.
Un progetto rivoluzionario che ha impresso profondamente la nuova identità post-ottomana. Detto ciò, l’avvento dell’Akp al potere ha messo in bilico l’egemonia dell’immaginario kemalista, supportato politicamente da partiti di sinistra e, ovviamente, da quelli più oltranzisti nazionalisti come l’MHP (Milliyetçi Hareket Partisi – Movimento Nazionalista). L’Akp è stato in grado di interpretare un vuoto politico avvertito da quella fetta di popolazione che, seppur credendo nei valori della Repubblica turca, anelava un leader più familiare a valori morali tradizionali. All’interno di essa non compaiono necessariamente solo gli strati sociali inferiori, anzi, vi confluisce anche quel ceto medio alto di imprenditori anatolici vicini a modelli di vita tradizionali e religiosi.
Dall’altra parte della barricata si delinea, d’altro canto, uno schieramento di sinistra che ancora non riesce a convincere l’animo degli elettori indecisi e a strappare voti decisivi. Il CHP (Cuhmuriyet Partisi, Partito Repubblicano), maggiore partito di sinistra, risulta essere da un punto di vista numerico l’unica scelta obbligata per gli elettori di sinistra, per quanto non interpreti realmente il desiderio di cambiamento del paese. I partiti minori, tra cui i Nazionalisti dell’MHP e il neonato HDP, non hanno il supporto sufficiente per poter essere una reale alternativa al Partito Repubblicano. La possibilità di una coalizione di sinistra potrebbe essere utile a raccogliere un numero maggiore di voti alle prossime elezioni politiche 2015, ma è al momento un percorso irrealizzabile per via delle troppe anime politiche che coesistono all’interno dei movimenti anti-Erdoğan.