Di libro in libro scorre la vita

15 Luglio 2011

Certe volte capita che la lettura di un libro metta in moto una reazione a catena, per cui si sente il bisogno di dipanare una matassa, si ricorre ad altri libri, ti tocca fare i conti con episodi del passato, si ritorna ai libri e si va avanti, fino a quando si mette un punto. Per modo di dire.

 

Chernobyl di Francesco Cataluccio mi ha portato a Imperium di Ryszard Kapuscinski, come tenendomi per mano. Il 4 giugno 1933, mentre in Ucraina si muore di fame e le madri impazzite mangiano i propri figli denutriti, il responsabile della catastrofe passata alla storia col nome di Holodomor, Stalin, approva l’esecuzione del suo progetto più folle, la costruzione del Palazzo dei Soviet a Mosca: l’edificio, racconta Kapuscinski, avrebbe dovuto oscurare l’Empire State Building; alto 415 metri, sormontato da una statua di Lenin alta tre volte la Statua della Libertà, (il cui dito indice avrebbe dovuto misurare 6 metri), a costruzione ultimata avrebbe raggiunto una capacità di 7 milioni di metri cubi, equivalente alla cubatura dei sei massimi grattacieli newyorkesi di allora, un vero schiaffo all’America. Mentre sulle strade e fra i villaggi dell’Ucraina il cannibalismo tornava a spaventare l’Europa, se mai un tempo vi era circolato.

 

A proposito di statue, Kapuscinski racconta di un tizio conosciuto in Moldavia che s’era fatto dieci anni di lager per aver dovuto collocare un grosso busto di Lenin in una sala comune al primo piano di un edificio pubblico: la statua non passava dalla porta e il poveretto pensò bene di issarla dal balcone avvolgendole una grossa fune al collo; “si ritrovò rinchiuso nella prigione prima ancora di aver sciolto il cappio”.

 

 

Qualche anno fa, ho visitato a Budapest il Parco delle Statue della Dittatura Comunista (in foto), un luogo assurdo dove si compra e si vende sotto forma di gadgets la memoria di quell’epopea tragicomica; ad accompagnarci, il responsabile dell’Istituto Italiano di Cultura, Giovanni Cataluccio, che il giorno prima ci aveva guidato attraverso le sale del suo Istituto, un tempo sede del Parlamento ungherese, dove il ministro Ciano era di casa, ma anche Giorgio Perlasca, come agente di una ditta triestina d’importazione di carni bovine. Era il 1942, in quel palazzo s’incrociavano gerarchi fascisti, uomini d’affari, membri del governo collaborazionista di Horthy e, più tardi, i carnefici delle Croci Frecciate. Dopo l’8 settembre, Perlasca cercò rifugio presso l’ambasciata spagnola e da lì, nel ‘44, riuscirà a salvare migliaia di ebrei dai crociati di Szalasi, fantocci di Eichmann.

 

Giovanni Cataluccio, fratello di Francesco, se mi leggi, grazie per quei giorni

 

Sulla torre più alta del Cremlino, nel 1990 sventolava ancora la bandiera rossa, ma nelle strade di Mosca si respirava un’aria di grandi novità. Kapuscinski in quei mesi era in viaggio nelle province dell’Impero e nota che, nonostante glasnost e perestrojka, la gente ha ancora paura: sono sparite le domande, “la forma interrogativa per decenni monopolio degli inquirenti” insospettisce subito l’interlocutore. Un bel problema per uno scrittore reporter, (secondo solo a Vasilij Grossman, a mio giudizio), che Kapuscinski analizza con disincanto: “una civiltà che non ponga domande, che espella dal proprio ambito tutta la sfera dell’inquietudine…è una civiltà paralizzata, immobile, al palo”.

 

Eppure a Mosca in quei mesi c’era un’aria diversa. Un mio amico dell’allora ricco nordest mi aveva invitato con un’allegra brigata all’inaugurazione del primo “store in franchising” della Benetton in Russia, a Mosca, sulla Piazza Rossa. Era attorniato di giovani ragazzi e ragazze multilingue e ferocemente anticomunisti e in quel maggio del ‘90, da quel piccolo fortunato milieu che si affacciava sul vasto mondo della moda, le domande fioccavano, eccome. E anche noi ne avevamo di cose da chiedere e si poteva, altro che, era tutto un incrociarsi scoppiettante di parate e risposte. Ma già allora, devo dire, si capiva che i nostri interlocutori erano poco interessati a raccontare il proprio paese: i diritti umani, la libertà di stampa, bah, tutte chiacchiere, loro volevano sapere dei Mondiali di calcio di Italia ‘90, se era possibile sciare d’estate alle Dolomiti, se eravamo andati al nuovissimo Mc Donald’s in Piazza Pushkin…

 

 

In quegli anni di cambiamenti, Kapuscinski torna in Ucraina, a Donesk, cuore del bacino minerario ucraino, dove in pieno centro vede “una donna vendere zoccoli di mucca”; passa una mezza nottata nella locale stazione in attesa del suo treno, descrive un’umanità sfinita e terrorizzata dai ladri che approfittano del sonno di quei poveri viaggiatori per colpire; poi sale sul treno per Odessa e gli si rivela un mondo nuovo: nello scompartimento “tutti dividono con tutti quello che hanno” e, la vera sorpresa, dove prima regnavano il silenzio e la diffidenza, ora è tutto un chiacchierare. S’è rotto il ghiaccio, piovono i racconti e le confidenze: al centro dell’epos la Siberia, che tutti definiscono “la più grande prigione del mondo”; ma Klavdia Mironova non è d’accordo, lei invece considera la Siberia un’oasi di libertà: nella tajga lei e il marito, con una mucca e due porcelli, riuscirono a svanire nel nulla e a sopravvivere per tutta la durata dello stalinismo, senza vedere un’anima viva. Ma come ce l’avete fatta, chiedono i compagni di viaggio: grazie all’arte di conservare il lardo, risponde Klavdia, “il lardo, ecco il vero segreto della vita”.

 

E a me non poteva non venire in mente la bellissima postfazione a Il sentiero dei nidi di ragno scritta da Italo Calvino nel 1964, autentico talismano per gli insegnanti di lettere dell’ultimo anno delle superiori, quando prima degli esami ci si affanna a chiudere le lezioni sugli scrittori del Neorealismo. Calvino torna sul clima che si respirava in Italia subito dopo la guerra, prova a restituire lo sfondo e la matrice dei romanzi di allora, e scrive che “nei treni che riprendevano a funzionare, gremiti di persone e pacchi di farina e bidoni d’olio, ogni passeggero raccontava agli sconosciuti le vicissitudini che gli erano occorse, e così ogni avventore ai tavoli delle ‘mense del popolo’, ogni donna nelle code ai negozi; il grigiore delle vite quotidiane sembrava cosa d’altre epoche; ci muovevamo in un multicolore universo di storie”.

 

Di libro in libro scorrono le vite, nostre e degli altri, e bisogna guardarsi dalle vertigini del rispecchiamento. L’ospedale militare in cui, da giovane, Francesco Cataluccio scopre carte segrete sulle malattie provocate dalla diossina di Seveso rimanda a L’ospedale dei dannati di Stanislaw Lem, dove la follia degli internati si riflette in quella che dilaga in tutta la Polonia per mano dei tedeschi, impegnati nello sterminio dell’ultima guerra. E fin qui tutto bene. Ma quell’ospedale somiglia molto anche a quello militare di Baggio, dove all’inizio dell’81 cercavo goffamente una via di fuga dal corpo friulano di artiglieri di montagna in cui ero stato per mia disgrazia arruolato un mese prima. Vedete, arriva sempre un momento in cui mettere un punto. Facciamolo.

 

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