Speciale
Franco Basaglia. “E mi no firmo”
Massimo: Alcune cose le sappiamo. uno dei primissimi giorni succede che l’ispettore capo dell’ospedale psichiatrico di Gorizia – una figura importante, si chiama Michele Pecorari – porta al nuovo direttore il registro delle contenzioni. È il librone su cui vengono scritti i nomi di chi la notte prima è stato legato al letto. Il direttore deve vistarlo, apponendovi una semplice firma. Si è sempre fatto così. Prassi vuole che adesso tocchi a Basaglia. L’ispettore gli consegna il libro e gli porge con molta deferenza la stilografica. lui toglie il cappuccio e si blocca. Passa un attimo, chi è presente nella stanza dirà poi che è sembrato un tempo lunghissimo. Un attimo e Basaglia, semplicemente, rimette la stilografica nel cappuccio. Alza lo sguardo e dice nitidamente: «E mi no firmo».
Un gesto di rifiuto.
Ci viene in soccorso un dettaglio biografico. Sembra una semplice nota di colore, ma in questa storia c’entra molto. Qualche anno prima, nel 1953, Franco Basaglia si è sposato con Franca Ongaro – c’entra molto anche lei in questa storia, e non solo perché è nel manicomio di Gorizia come volontaria nei reparti. Testimone dello sposo è stato il grande amico nonché ex collega di studi a Padova, Hrayr Terzian, che diventerà un famoso docente di Neurologia e primo rettore dell’università di Verona. Il regalo di nozze non è, come si usa oggi, un viaggio alle Maldive – negli anni cinquanta le Maldive forse non erano ancora emerse – e nemmeno una più modesta settimana sulla costiera amalfitana. Il regalo per Franco Basaglia è l’opera completa di Jean-Paul Sartre, ventuno volumi. Vuol dire che la filosofia c’entra in questa storia.
C’è un altro dettaglio molto importante. Dopo qualche mese, Basaglia al manicomio di Gorizia non è più solo. Lo raggiunge Antonio Slavich, i due sono amici, ma si daranno sempre del lei e fra di loro parleranno sempre e soltanto in veneziano, forse per non essere “intercettati”. Cominciano a fare, Slavich e Basaglia, una cosa che non si è mai vista, né a Gorizia, né nei manicomi di tutto il mondo. Cominciano sistematicamente, ogni pomeriggio, a parlare, o a cercare di parlare, singolarmente, con tutti i seicentocinquanta ricoverati. È uno sforzo immane, inventano qualsiasi possibilità. ci racconta Slavich che con il suo primo stipendio compra una Fiat cinquecento beige, usata, e per smuovere le acque, per cambiare scena, prende a invitare i pazienti, quelli che ne hanno voglia, a salire in macchina e lì dentro, nell’abitacolo, a parlare con loro, mentre fanno un giro sul greto dell’Isonzo o nel centro di Gorizia. C’è molta titubanza da parte degli internati, perché una cosa del genere, appunto, non si è mai vista, perché se mai sono saliti su una vettura, l’ultima volta è stata dieci, quindici, vent’anni prima, quando un’ambulanza li ha portati in manicomio. Però molti salgono, e cominciano a parlare.
E così, in men che non si dica, il manicomio di Gorizia diventa un luogo in cui si parla. Si parla tantissimo.
Torno, Carletto, torno
Massimo: Permettimi la domanda un po’ brutale: cambiare sguardo va benissimo, ascoltare è un requisito, la democrazia, ci mancherebbe… Però quello è un ospedale psichiatrico, la follia ha tante facce, la malattia mentale esiste, né Basaglia ha mai sostenuto il contrario. E ogni tanto la malattia mentale esce fuori in forma di crisi, violenza, pericolosità. A volte è un’esplosione, succede anche quello. Ecco, cosa fate quando succede?
Peppe: Certo che succede. Succede e tu stai toccando un punto cruciale di questa storia. Non solo succede tra le mura del manicomio, ma anche nel mondo di fuori, e succede nell’immaginario, più di quanto accada nella realtà. Quindi c’è un altro fronte che devi continuamente aver presente e sotto controllo. Si sono aperte le porte, anche quelle dei camerini d’isolamento, e ciò mi stupiva, anzi, mi “sconvolgeva”, come ti ho detto. Oltre a questo, non c’è più il letto a rete, non c’è più contenzione, tutto deve avvenire in un rapporto diretto con l’altro. In ospedale, quando sei di guardia, per esempio di notte, solo con milleduecento internati, può accadere che qualcuno abbia un’insufficienza cardiaca, una diarrea ostinata, che si ferisca cadendo dal letto e tu devi correre a dargli i punti: una medicalità, questa, che abbiamo ancora tra le mani e che fa quasi piacere mettere in campo, così che gli infermieri in quel momento riconoscano che sei dottore, anche senza il camice bianco. Ma ciò che ti preoccupa, quando cominci il turno di notte, è che lì dentro ci sono appunto milleduecento persone, dunque può accadere di tutto: quello che comincia a star male e a prendere a calci le porte, quello che fa rissa con il vicino di letto, quello che si barrica spostando un letto e sbarrando l’ingresso della stanza, quello che urla e tiene sveglio tutto il reparto, e così via. Ci sono cinquanta infermieri durante la notte, suddivisi in una ventina di reparti, che non ti conoscono, e tu non conosci loro. E c’è molta diffidenza. Se il grande cambiamento proposto da Basaglia coinvolge noi medici, che ne siamo convinti sostenitori, molti tra gli infermieri si rifiutano di aderirvi, oppongono scetticismo, se non addirittura ostilità. Basaglia, dal canto suo, ci invita a essere sempre responsabili e a prestare attenzione al rapporto con gli infermieri, pur mantenendo, talvolta, quella diffidenza. Quando succede qualcosa e l’infermiere ti chiama e ti dice: «Dottore, questo ha sbattuto la porta e sono tutti svegli», oppure: «Ha fatto a botte con l’altro, non si lascia avvicinare», alla fine aggiunge quasi sempre: «Dottore, se crede, ci pensiamo noi». E tu sai benissimo cosa intende con quel “ci pensiamo noi”: al paziente in crisi faranno un “cravattino”, gli metteranno un lenzuolo bagnato sulla testa, lo sistemeranno nel letto a rete o dentro il camerino d’isolamento, gli faranno le iniezioni già predisposte per sedarlo. Ed è la regola non scritta del manicomio che il medico di guardia dica: «Va bene, va bene, allora ci vediamo domani mattina». E tutto finisce lì. Ma adesso qualcosa sta cambiando. Siamo ormai in un’altra scena.
Una sera mi chiamano dall’Accettazione uomini, il reparto più nuovo di San Giovanni: due piani, ospita gli uomini accolti di recente e quattro infermieri del turno di notte. Uno di questi mi telefona. Si chiama Flavio, lo conosco abbastanza bene, e mi dice: «Dottore, c’è qui Carletto Afarnik». Anche questo nome mi è noto. «Non dorme, è agitato, ha già svegliato tutto il pianoterra e cerca adesso di svegliare anche il piano di sopra, vuole parlare con tutti, parlare, parlare.»
Io reagisco in maniera un po’ stupida, e me ne rendo conto mentre formulo la domanda: «E che dice?».
All’altro capo del telefono all’infermiere, credo, cadono le braccia: «Ma dottore, cosa vol che ’l disi? Monade, stupidezzi».
Massimo: È matto. Del resto, siamo in manicomio.
Peppe: E io non posso fare altro, come ormai dovevamo fare e facevamo tutti, era questo adesso il patto non scritto. «Vengo, vengo subito.» Arrivo in reparto e trovo Carletto ad aspettarmi davanti alla porta insieme a Flavio, mentre un altro infermiere sta cercando di mettere a dormire le altre persone. Provo a tranquillizzarlo, ma Carletto non si lascia catturare dalle mie parole. Andiamo avanti e indietro per il corridoio, giriamo intorno al tavolo, ci sediamo, ci alziamo e camminiamo di nuovo. Carletto è in preda a un’angoscia che è difficile da comprendere e ancor più da spiegare, è come se si fosse perduto nell’universo. Parla del tempo, di un tempo che non torna, parla della sua finitezza e gli viene da piangere. Mi abbraccia. È come se gravitasse tra le stelle. Parlare gli serve, credo, per cercare un punto di appoggio, fermarsi. Comincia a dire qualcosa del nonno, prende forma una figura di grandissimo spessore umano, di straordinaria ricchezza. A quel punto ci sediamo e lui mi racconta di quando suo nonno lo accompagnava a scuola e faceva i compiti con lui, di quando lo portava nell’orto – abitavano a Longera, appena fuori città. A comprare i quaderni andavano sempre insieme. Non menziona mai né la mamma né il papà, forse non li ha mai conosciuti, forse c’è un risvolto drammatico in questo. Va avanti a parlare, a momenti si ferma, di nuovo trema, piange, mi abbraccia. Flavio, che ci ha seguiti a distanza, adesso è lì con noi che ascolta. Dopo un po’ interviene anche lui, comincia a raccontarci di quando era ragazzino e abitava in un paese sotto Monte Maggiore, in Istria. Tira fuori vecchie vicende di carbonai – sul Monte Maggiore si raccoglieva la legna e si faceva il carbone. E allora anch’io comincio a raccontare del mio, di nonno. Viveva in un paese dell’Irpinia, dove aveva un negozio e dove ero solito trascorrere con i nonni una parte dell’estate. La sera, quando chiudeva bottega, andavo a prenderlo. Tornando a casa, le volte in cui tirava vento e faceva più freddo, mi metteva sotto il suo mantello a ruota e mi teneva stretto. Salendo i vicoli verso casa facevamo sempre un gioco. Lui mi chiedeva: «E adesso dove siamo?». E io, senza poter vedere, dovevo dirgli davanti a quale portone stavamo passando, se quello della famiglia Bresci, o della famiglia D’Urso, o altre ancora. Una volta giunti a destinazione, scostava il mantello e rideva insieme a me, mentre ad accoglierci al nostro portone accorrevano i gatti di casa. Era questa una felicità tutta nostra.
Ecco, in simili momenti hai l’impressione che si stia creando una nuova scena per la terapia e che il cambiamento consista veramente nella possibilità tanto agognata di incontrarsi, di stare insieme, di esserci gli uni con gli altri.
A un certo punto mi chiamano da un altro reparto, devo andare. Dico: «Carletto, devo andare», ma lui mi trattiene, non vuole che vada, vuole dilatare questo momento. È come se lo avessimo salvato da un naufragio. Ha di nuovo paura, mi trattiene. «Carletto, devo andare, ma torno, ti prometto che torno.» Allora vado. È già molto tardi, è passata l’una. Mantengo la mia promessa, ma quando torno, sono quasi le quattro.
Carletto mi sta ancora aspettando e i due infermieri sono lì a parlare con lui. È tuttora un’emozione ricordarlo. Non sono più stupidezzi, si stanno raccontando pezzi di vita.
Carletto mi viene incontro: «Siediti, parliamo».
«Carletto, è tardi, sono le quattro e io sono stanco, devo andare a dormire. Ma anche tu sei stanco. E a quest’ora il reparto dorme.» L’altro infermiere ha appena preparato il caffè. Ne beviamo tutti una tazzina. «Basta, adesso, dobbiamo andare a dormire», dico. Ma Carletto insiste, vuole che rimanga.
Ecco, solo ora posso alzare la voce con Carletto, facendo valere le ragioni della mia stanchezza, come se non fossi più il medico di guardia, negando così l’autorità che mi viene da quel ruolo.
Dico: «Basta! Adesso basta, Carlo. Bisogna andare a dormire. Io sono stanco e vado a dormire». Mi alzo e faccio per avviarmi, Carletto mi accompagna alla porta in fondo al corridoio. Mi giro per salutare gli infermieri, dico: «Buonanotte, allora, ci sentiamo». Lui mi apre la porta. Sta già albeggiando. Mi guarda andar via e poi, da lontano, sorridendo un po’ sornione, mi dice, non appena mi volto: «Buongiorno! Buongiorno, dottore!».
Questi dialoghi sono tratti da Peppe Dell’Acqua, Massimo Cirri e Erika Rosso, (tra parentesi) La vera storia di un’impensabile liberazione, Edizioni alpha beta Verlag, Merano, 2019. Da questo libro provengono anche le immagini, i cui crediti specifici sono poi indicato nelle didascale. Grazie a questa piccola casa editrice da dieci anni si tiene viva la conoscenza e il confronto su quanto è accaduto e continua ad accadere.
Basaglia raccontato a teatro
Quando il direttore del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Franco Però, ha proposto a Massimo Cirri, conduttore radiofonico, psicologo e amico mio carissimo, a Erika Rossi, giovane regista triestina e a me di fare qualcosa in occasione dei 40 anni della legge 180, ho pensato che scherzasse. Per più di un mese ho tenuto lontano anche il pensiero di quell’improponibile avventura. Temevo che, specie a Trieste, lo spettacolo potesse avere scarsa partecipazione dal momento che i triestini sanno già tutto e da decenni sono partecipi di questa storia e poi temevo potesse far riemergere contrasti feroci che sempre ci hanno accompagnato.
Erika e Massimo, invece, erano entusiasti. Durante l’estate abbiamo cominciato a pensare a cosa e come raccontare. Non era solo l’orrore del manicomio l’oggetto delle nostre chiacchierate. Non voleva essere il nostro narrare soltanto “la distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione”. Bisognava cercare di andare alle radici della “rivoluzione”. Il tema avrebbe dovuto essere: Basaglia non solo chiude i manicomi ma restituisce diritto, dignità, soggettività. Bisognava raccontare la vera storia. “Messa tra parentesi la malattia…” L’ingresso di Basaglia a Gorizia l'inizio del canovaccio.
Come si capisce è stato per me un andare indietro. Le storie che ogni sera raccontavamo muovevano passioni, interrogativi, memoria di sconfitte brucianti e conquiste gioiose. Emozioni che non mi hanno mai lasciato. Ci sentivamo, noi ragazzi venuti da mezz’Italia, nel cuore di una storia impensabile che accadeva davanti ai nostri occhi. Contribuire allo smontamento della grande e secolare istituzione manicomiale era come vivere nell’urgenza di un capovolgimento epocale che non poteva fare a meno della nostra passione. Affrontavamo rischi, amori, conflitti nella vertigine di orizzonti sconosciuti.
Non posso proprio dire che ce ne rendessimo conto, anzi a volte mi sembrava di perdere completamente le coordinate. Mi sentivo perduto. Che si stesse chiudendo il manicomio e che si stesse trasformando la vita nel manicomio era evidente, ma avere consapevolezza di quanto questo avesse poi potuto cambiare radicalmente quel mondo, non era alla mia portata. Era l’entusiasmo che ci teneva uniti e impegnati in un’impresa che avremmo poi raccontato come “il sogno di una cosa migliore”. Venivamo tutti dalle recenti esperienze universitarie e Basaglia ci permetteva di continuare a pensare alla “rivoluzione” proprio nel lavoro che stavamo cominciando a fare. Una fortuna che pochi di noi ebbero.
Durante le numerose repliche dello spettacolo, più di cinquanta, 5000 spettatori, non c’è stata una sola volta che, in alcuni passaggi cruciali, non abbia avvertito un’emozione tanto profonda da non riuscire a dominarmi. Le parole venivano fuori svelando i sentimenti che stavo provando. Ogni sera dovevo prendere il mio rassicurante confettino di trinitrina con un’angina sempre in agguato.
Non potevo non riandare agli anni dell’università e vivere con stupore la presenza attenta delle persone che senti palpitare nel buio della sala.
Ogni sera a teatro ho raccontato di me e delle cose meravigliose e ruvide che accadevano intorno. Ho rivissuto i dieci anni forse più importanti della mia vita, la frequentazione preziosa di un gruppo di lavoro che di anno in anno diventava sempre più coeso e stimolante. Ci rendevamo conto che raccontare delle origini, delle parentesi e della frattura insanabile che Basaglia ha provocato nel corpo della psichiatria comportava il rischio di non essere compresi e la certezza di un vergognoso fallimento, diceva Massimo per farmi coraggio!
Il successo è stato ancora più inaspettato. Ogni sera a Trieste e poi a Milano, a Torino, a Ferrara, a Udine, a Codroipo e Cervignano tutto esaurito! Le persone manifestavano la loro partecipazione, ci facevano avvertire la loro emozione. Gli applausi a scena aperta ci stupivano e mettevano ancora di più in crisi la mia fragile tenuta. Credo che a Trieste come negli altri teatri, ma a Trieste soprattutto, il nostro narrare ha fatto sì che le persone potessero finalmente appropriarsi di una storia che ha cambiato il modo di vedere l’altro. Di interrogarsi sulla natura della malattia mentale. Un desiderio di appartenere. Cosa di meglio potevo attendermi!
Peppe Dell’Acqua