Lingua madre / Agi Mishol. In volo
«La scrittura è la più tortuosa delle vie / per ricevere amore», è farsi spazio tra le rovine del passato, farsi strada, vicolo, sentiero, «è chinarsi sulle parole / finché non si trasformano in porta / e allora farvi irruzione».
Agi Mishol è una delle più note poetesse israeliane, autrice di sedici raccolte tradotte in molte lingue e vincitrice di diversi premi, tra cui, nel 2014, l'italianissimo Lerici Pea alla Carriera. Nello stesso anno le è stato assegnato un dottorato onorario (Dottore Philosophiae Honoris Causa) dall’università di Tel Aviv “in riconoscimento della sua posizione come uno dei più importanti e amati poeti di Israele [e] del suo immenso contributo all’arricchimento della cultura israeliana“. Dal 2011 insegna presso la Scuola di Poesia Helicon a Tel Aviv, dove tiene anche laboratori di scrittura creativa.
Nata a Cehu Silvaniei, in Transilvania, «da una fossetta della morte», da una madre sopravvissuta ad Auschwitz e un padre scampato ai campi di lavoro, Mishol fu la prima bambina della sua città venuta al mondo dopo la Shoah, simbolo di una resistenza, di una vita possibile anche dopo l'orrore, di un nuovo inizio da scrivere.
Da scrivere in una lingua madre – titolo di una delle poesie che compongono la raccolta “Ricami su ferro”, uscita a maggio 2017 per Giuntina ed unico testo dell'autrice ad oggi tradotto in lingua italiana – diversa da quella della madre, che era l'ungherese, mentre quella di Mishol è l'ebraico. Il suo primo vagito nel venire alla luce, scrive, fu «la alef con il kamatz», ovvero fu in ebraico, lingua che la recise dall'utero materno, ma dalla quale partorì la propria madre-poesia.
Lingua d'identità, lingua di terra, di passi verso casa. Tanakh, lingua sacra, sì, ma anche lingua di commistioni, da inzuppare nel panorama culturale occidentale, tra la Yourcenar, Rilke e Kavafis, tra Pessoa e Saramago, stretti in un abbraccio sulla libreria di Mishol, là, in Israele. Una testimonianza di come la scrittura – e la poesia, in particolare – riesca a travalicare i confini geografici e politici, creando un'altra lingua, una sorta di fil rouge universale che resiste al silenzio e agli scoppi delle bombe.
Le poesie di Mishol camminano a passo d'uomo, nel terriccio fresco delle campagne, tra gli alberi e gli animali. Hanno l'odore dell'alba e il sapore delle more non ancora mature. Animano la casa e «la soffitta degli oggetti respinti». Ma sono anche piene dei rumori della televisione, fotografano lucciole che brillano tra termini slang e vibratori viola, tra inglesismi e nani da giardino.
Poesie ancorate nella realtà e nel quotidiano, ma sempre accompagnate da un battito d'ali in potenza, sempre sul punto di levarsi in volo. I versi di Mishol pullulano di pavoni, cicogne, aironi, di ascese al cielo in cui «vedere un uccello / dimenticare che tu sei tu / e trasformarti in volo».
Lei, «lasciata cadere […] all’ombra di una piantagione di cachi / sotto il percorso di migrazione degli uccelli», con lo sguardo rivolto all'insù, come a cercare «riposo nelle fini piume delle nuvole», come a voler ricomporre un alfabeto perso tra stormi di volatili, sillabe incagliate nelle loro penne, parole che solcano le loro planate.
Dietro quelle «spalle così nostalgiche di un volo» ci sono le ali della poesia. La scrittura è per Mishol quell'altrove, irraggiungibile e materico al tempo stesso, meta e rifugio della sua migrazione poetica. «Scrivo da una nostalgia / che è il punto G dell'amore». Scrive per «fare l'amore sulle bianche lenzuola di carta del blocco». Amore e scrittura, indissolubilmente uniti a fare Uno con la propria impossibilità.
Noi, i poeti – scrive – «conficchiamo la puntuazione nelle lettere perché non volino / dalla carta / assetati di ogni congiunzione e tuttavia / sanguinanti da ogni trattino». Di nuovo un taccuino su cui fare l'amore, avvinghiati alle parole, tracce, orme, solchi di corpi destinati ad andarsene. «Svegli come un uccello nella notte / rimasto senza albero», poeti fluttuanti, in volo, appoggiati solo a qualche consonante dispersa nell'aria. Segni da tracciare piano, con la matita, cancellando e soffiando via i resti di parole dimenticate, mentre una formica cammina tra le righe, mentre il mondo scorre sulla pagina.
La scrittura come spazio difeso – titolo di una delle poesie della raccolta – un rifugio nella lingua santa, «nelle fessure delle vocali lunghe / nelle segrete di quelle brevissime», un nascondiglio di lettere e parole da cui guardare il mondo. Ma anche scrittura come estrema nudità, come – forse unica – possibilità di donarsi all'altro amato, di mostrare le proprie viscere: «mi spoglio per te sino alla calligrafia / sino a che mi si vedono le gutturali / le enfatiche / le matres lectionis».
I versi di Mishol sono davvero dei “ricami su ferro”: non incisioni definitive, solchi abrasivi che scavano nella carne, ma ricami, appunto, parole in volo, che salgono leggere anche quando sotto c'è il ferro, l'inevitabile pesantezza della storia. «Io, Agi Mishol, seconda generazione / accendo torce di poesie / che non sono neppure un'arma deterrente», scrive in un testo intitolato “Shoah, ricordo, indipendenza”. Non armi, ma parole, fari, luci che illuminano il buio in cui ha annaspato il popolo ebraico e, con esso, la famiglia dell'autrice. Torce che rischiarano anche il viaggio della sorella di Mishol, “salita al cielo in fumo”, dispersa chissà dove, tra quelle nuvole verso le quali gli occhi della poetessa non smettono di rivolgersi.
Leggere le poesie di Agi Mishol è come tenere stretta tra le dita la cordicella di un palloncino, poi schiuderle piano e lasciare che lo spago solletichi via. Alzare la testa verso il cielo e vedere quella piccola sfera colorata salire in alto, con un volo tutto suo, sospinta da chissà quale vento, e diventare sempre più piccola, veloce, lontana.
Oche
Epstein, il mio insegnante di matematica,
amava chiamarmi alla lavagna.
Diceva che la mia testa andava bene giusto per portare
un berretto.
Diceva che un uccello con un’intelligenza come la mia
sarebbe volato all’indietro.
Mi mandò a pascolare le oche.
Adesso, a distanza di anni da quella frase,
quando siedo sotto la palma
con le mie tre belle oche,
penso che forse allora aveva visto giusto,
il mio insegnante di matematica,
e aveva ragione lui,
perché non vi è nulla che mi renda più felice
del guardarle ora
avventarsi sul pane sbriciolato,
agitare la coda felice,
arrestarsi per un attimo in silenzio
sotto le gocce d’acqua
con cui le spruzzo
dalla canna,
drizzare il capo mentre il corpo
si tende come memore
di laghi lontani.
Il mio insegnante di matematica è morto da un pezzo ormai
e morti sono anche i suoi problemi che non mi riuscì mai
di risolvere.
Mi piacciono i berretti,
e sempre la sera
quando gli uccelli fanno ritorno tra le fronde dell’albero,
cerco quello che vola all’indietro.