I progressi della cosmologia ci lasciano senza ormeggi / Mappare l'universo per resistere al nulla
Come nasce una nuova teoria scientifica? In che modo si sviluppa e si diffonde fino a essere accolta dalla comunità scientifica anche quando scardina certezze e visioni consolidate del mondo? Sono questi gli interrogativi a cui vuole rispondere l'astrofisica e cosmologa Priyamvada Natarajan, nel saggio L'esplorazione dell'universo (Bollati Boringhieri). Lo fa, avverte, partendo da due osservazioni: la prima è che la più antica tra le discipline scientifiche, la cosmologia, dà forma alla nostra idea del mondo e del posto che occupiamo nell'Universo; la seconda è che, come ogni attività umana, la scienza «non è priva di soggettività», pertanto è soggetta a errori, pregiudizi, ambizioni personali, amicizie e inimicizie. Richard Feynman, Nobel per la fisica nel 1965, affermava che ogni grande scoperta scientifica «comporta sempre una sorpresa filosofica» e per Priyamvada Natarajan questo è vero soprattutto per la cosmologia e le sue scoperte. In poche migliaia di anni, siamo passati dal credere che il mondo poggi su una tartaruga che a sua volta poggia su un'altra tartaruga, e così via all'infinito, a un progetto di mappatura dell'Universo, cui partecipa Priyamvada Natarajan insieme a scienziati di tutto il mondo, allo scopo di «mappare la materia oscura con un livello di accuratezza mai raggiunto prima». Come ci siamo arrivati?
Il prezzo da pagare ogni qualvolta la scienza cambia la mappa del cosmo e, di conseguenza, la collocazione e il senso della presenza dell'essere umano nel mondo, è molto alto in termini filosofici e psicologici. Riferendosi al carattere dell'Età Moderna, ad esempio, Sigmund Freud riteneva che fosse il risultato di tre ferite narcisistiche. La prima, è stata la perdita della centralità e immobilità della Terra, intuita da Copernico e confermata da Galileo, dopo quattordici secoli in cui aveva dominato la visione tolemaica con la Terra immobile al centro dell'Universo; fu un tale rivolgimento che da allora l'espressione rivoluzione copernicana definisce, anche nel linguaggio comune, un cambiamento irreversibile e radicale di un sistema consolidato e immutabile. Della seconda ferita, dice Freud, è responsabile Charles Darwin, il quale ci ha spodestati dal vertice della creazione scoprendo che siamo solo una specie tra molte altre (benché, va detto, veramente molto in gamba). Della terza ferita Freud, con autostima invidiabile e non infondata, si riteneva personalmente responsabile poiché la sua scoperta delle pulsioni e del loro ruolo sulla mente ce ne aveva sottratto il pieno controllo.
Seguendo il lungo cammino di alcune idee rivoluzionarie dal primo emergere per la straordinaria immaginazione di un singolo scienziato, al riconoscimento generale, Priyamvada Natarajan racconta una storia in cui tra intuizioni geniali, lavoro collettivo, persecuzioni, entusiasmi, gelosie e trionfi, oltre alle tappe del progresso scientifico emergono gli effetti della dimensione emotiva, psicologica, personale e sociale sulla «pura ricerca intellettuale della conoscenza». I grandi cambiamenti di paradigma e i conseguenti quesiti esistenziali, sono riferiti dall'autrice naturalmente con grande competenza scientifica – Natarajan, tra l'altro, insegna astronomia e fisica alla Yale University ed è esperta sul tema della formazione dei buchi neri supermassicci – ma anche con un'evidente sensibilità per gli aspetti umani delle diverse vicende. Sappiamo, così, quanto sia stato, e sia sempre difficile per chi ha un'idea nuova o compie una nuova scoperta ammetterla, quando comporta un cambiamento radicale di una visione consolidata. E come il peso delle passioni umane, talvolta nobili talaltra meschine, sia stato, e sia fondamentale nel facilitare o ostacolare il riconoscimento di nuove teorie o osservazioni. Ad esempio, Edwin Hubble fu il primo a scoprire che le galassie si allontanano a velocità crescente più sono lontane ma faticò molto ad accettare l'idea, conseguente dalla sua stessa scoperta, di un Universo in espansione. L'idea, in verità, riferisce Natarajan, fu esposta molto tempo prima e da un personaggio insospettabile, lo scrittore Edgar Allan Poe, in una conferenza nel 1848, che non riscosse alcun successo, intitolata Sulla cosmogonia dell'universo, in cui descriveva la sua personale convinzione che l'Universo sia in costante movimento ed evoluzione. Anche Albert Einstein, d'altra parte, lottò parecchio con se stesso prima di rassegnarsi all'idea che il cosmo non fosse immutabile ed eterno.
A volte, invece, un'idea fatica a trovare consenso semplicemente per l'invidia o la disonestà intellettuale di qualche figura eminente e autorevole del momento. Come fu il caso della teoria sui buchi neri del fisico indiano Chandra, osteggiata in modo scorretto dal famoso Arthur Eddington, lo stesso che aveva dato prova di grande rettitudine e intelligenza comprovando sperimentalmente per la prima volta la teoria della relatività di Einstein. Eddington sostenne Einstein mentre era in corso la prima guerra mondiale, cosa che gli attirò critiche e attacchi molto duri in Inghilterra, il che dimostra la sua integrità scientifica e il suo coraggio (questa storia è raccontata in un bel film, Il mio amico Einstein, in cui emergono molto bene gli aspetti scientifici, politici e psicologici dell'intera vicenda). Ciò nonostante, lo stesso Eddington si comportò in modo meschino nei confronti di un altro scienziato, appunto l'astrofisico indiano Chandra, il quale nel 1930 aveva risvegliato con il suo lavoro l'interesse per i buchi neri. Detto per inciso – e il saggio di Natarajan è molto ricco di informazioni di questo genere che contribuiscono a renderne piacevole la lettura – l'espressione buco nero deriva dal nome di una cella minuscola famosa a Calcutta chiamata appunto black hole, in cui in una notte del 1756 morirono per asfissia 123 prigionieri occidentali. Tornando a Chandra, la sua ipotesi «creava un terribile conflitto d'interessi per Eddington, che aveva sviluppato una propria teoria», per questo lo boicottò pur essendo stato suo esaminatore durante il dottorato a Cambridge e pur avendolo incoraggiato a proseguire il suo lavoro.
Eddington contestò duramente e inaspettatamente il collega più giovane in pubblico, durante il convegno annuale della Royal Astronomical Society nel 1935, senza avere mai prima espresso personalmente a Chandra le sue obiezioni e soprattutto senza dargli possibilità di replica. Per Chandra fu un vero colpo, ma nel 1942 la sua tesi fu sostenuta pubblicamente da alcuni tra i più importanti scienziati del tempo, tra i quali Paul Dirac, considerato il più grande genio del Novecento dopo Einstein (si deve a lui l'equazione che ha formalizzato la struttura della meccanica quantistica e previsto l'esistenza dell'antimateria). Nel 1983 Chandra ha vinto il premio Nobel per la fisica. E giustizia è stata fatta.
Mappare l'Universo, adesso che ne conosciamo l'immensità e l'espansione continua, può sembrarci come il tentativo di vuotare l'oceano con un bicchiere. Eppure non possiamo farne a meno, lo abbiamo sempre fatto. Infatti, anche se noi associamo l'idea di mappa ai viaggi per mare e per terra, in realtà, ricorda Natarajan, le prime mappe mai disegnate dall'uomo sono mappe del cielo. E pure oggi scrutiamo il cosmo, percorrendolo con gli occhi di immensi telescopi, come gli esploratori antichi scrutavano l'orizzonte e lo spazio attorno per decifrarlo, per non perdersi.
La nostra condizione è la stessa, il nostro oceano è il cosmo, la nostra nave la terra. «Per loro natura i progressi della cosmologia ci lasciano senza ormeggi», afferma Priyamvada Natarajan. Ed è così che siamo, oggi ancor più che nel passato: disancorati, senza un centro fuori di noi e forse neppure più dentro di noi – ma questo non è colpa dell'Universo. Ad ogni modo, conclude, «Negli ultimi cento anni la nostra visione del mondo è cambiata drasticamente, riscrivendo il senso stesso di chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo».
Oggi sappiamo di vivere in un Universo meraviglioso, ma non eterno. È nato in un certo momento e in un altro che non sappiamo, e in un modo che non sappiamo ma siamo in grado di ipotizzare, finirà o diventerà qualcosa di totalmente diverso. Un Universo, ha affermato Carlo Tonelli, fisico del Cern e grande divulgatore scientifico, fragile e precario, come ha rivelato la scoperta del bosone di Higgs – la particella che tiene insieme la materia ma di cui nulla ci può garantire che continuerà a farlo –, che condivide in qualche modo la nostra stessa situazione di fragilità. Col che, negli ultimi tempi, è stato scardinato ogni appiglio, fino all'ultimo, fino all'idea che almeno l'Universo potesse costituire una certezza, qualcosa che si poteva immaginare sarebbe durato per sempre. Insomma, un posto in cui la vita avrebbe sempre avuto una possibilità.
La situazione in cui ci ha messi la conoscenza è duplice e ambigua, eccitante, ma disorienta e confonde, perché ci insegna che siamo allo stesso tempo unici, grandiosi e insignificanti. Siamo riusciti a scoprire le dinamiche che governano il mondo, persino le più contro-intuitive, dall'infinitamente piccolo all'incommensurabilmente grande, e abbiamo capito di essere un nulla rispetto all'immensità che ci circonda. Siamo costretti a rimettere in discussione concetti sui quali per migliaia di anni abbiamo costruito civiltà ed elaborato filosofie e religioni: il tempo, l'eternità, la distinzione tra spirito e materia… Dobbiamo ripensare molte cose per trovare nuove risposte a domande antiche e ineludibili: chi siamo, dove andiamo e, soprattutto, perché. Per la prima volta nella storia umana sappiamo con certezza che, a prescindere da noi, l'esistenza della Terra, dell'intero sistema solare e dell'Universo, forse l'esistenza in se stessa finirà, e tutto questo, anche se non ce ne accorgiamo, segna lo spirito del nostro tempo e noi stessi. La morte di Dio aveva aperto la strada alle utopie escatologiche laiche, come il marxismo, lasciando intatta la speranza che l'umanità potesse realizzare con le sue forze e i suoi progressi una società e una vita migliori per tutti. Ma il limite che le scienze ci fanno intravedere, per quanto lontano, rende il sogno una sorta di palliativo per combattere un'insensatezza che si è insinuata come una nebbia a offuscare il sole di qualunque avvenire. E così la metafisica e le sue domande sull'essere, il nulla e il senso del mondo che le scoperte scientifiche avrebbero dovuto – pensavano alcuni – mettere a tacere per sempre, proprio grazie alla scienza si stanno pian piano riaffacciando sulla scena del pensiero.