E la primavera araba in Giordania?

28 Ottobre 2014

Tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012, sono stati in molti a pensare che a breve sarebbe stato il turno della Giordania, che una rivoluzione fosse ormai alle porte. Furono perciò in molti a essere delusi o, al contrario, contenti che i venti della Primavera Araba avesse risparmiato il piccolo stato che si trova proprio nell’occhio del ciclone, confinando a nord con Siria, a nord-est con Iraq, a sud-ovest con le acque territoriali egiziane e a ovest con Israele e i Territori Palestinesi. Tuttavia voglio iniziare con il chiarire un punto: anche se non ne ha modificato drasticamente l’assetto politico nazionale come nel caso dell’Egitto e la Siria, una rivoluzione in Giordania c’è stata. Il re, la famiglia reale hashemita e il suo entourage sono stati criticati aspramente dal movimento politico di protesta (al-hirak) che si è sviluppato in questi ultimi anni. Per la prima volta da decenni si è parlato di uno stato giordano che non facesse necessariamente riferimento agli hashemiti. Non un cambiamento da poco se si considera che l’articolo uno della costituzione giordana specifica che “il Regno Hashemita di Giordania è uno stato sovrano indipendente […] con un sistema di governo parlamentare a cui fa capo una monarchia ereditaria”.

 

 

Ci sono state altre manifestazioni e rivolte in passato, ma per quanto spettacolari erano più che altro dirette ad attrarre l’attenzione del palazzo su determinati problemi socio-economici piuttosto che a sfidarne l’autorità. Il malcontento degli ultimi anni è invece di natura differente. Si è manifestato inizialmente nel gennaio del 2010 con una serie di manifestazioni contro la corruzione, l’inflazione e la disoccupazione che hanno portato a numerosi rimpasti di governo, ma nel giro di un paio di anni ha cambiato pelle, arrivando a chiedere l’abdicazione del re e la fine dell’egemonia hashemita. Quello che prima era considerato un tabu nazionale è stato infranto.

 

Ma da dove è partita la prima pugnalata? Naturalmente, come in ogni dramma che si rispetti, è stato il più insospettabile tra gli alleati: la popolazione delle aree meridionali a maggioranza transgiordana (la cosiddetta comunità locale), storicamente bastione saldo della monarchia. E pensare che proprio da qui circa quarant’anni prima Re Hussein (il padre di Abdallah II) ha tratto la forza militare e politica per fronteggiare le rivolte scoppiate a Amman e negli altri centri urbani del nord-ovest della Giordania, abitati prevalentemente da giordani d’origine palestinese.

 

 

Ma andiamo con ordine.

 

Come mi ha fatto notare uno dei leader del movimento durante un’intervista, al-hirak non è il semplice riflesso di quello che è accaduto e accade al di là dei confini si stato. La protesta ha tratto forza e coraggio nell’emulazione ma le origini del malcontento sono antecedenti.

 

Durante gli anni 1950 e 1960, gli hashemiti riescono a imporre il loro dominio sul territorio attraverso una rete di favori e scambi che assicura loro l’appoggio di gran parte delle famiglie e clan transgiordani delle zone rurali del paese. Il patto si viene a definire istituzionalmente con la creazione di un apparato burocratico abnorme e un sistema militare sovrasviluppato. Il contratto sociale funziona: lealtà politica in cambio di posti di lavoro. Il prezzo da pagare tuttavia è alto. Configurandosi come un vero e proprio sistema di welfare, il patronato hashemita ha bisogno di essere oliato con cospicue somme di denaro; una liquidità però che le scarse finanze giordane non possono garantire. Fortunatamente per re Hussein e re Abdullah II, la centralità geopolitica della Giordania in Medio Oriente assicura un flusso costante di entrate e aiuti allo sviluppo prevalentemente dall’Europa, dagli Stati Uniti e dai paesi del golfo. Il clientelismo e la corruzione rampante però aggravano la situazione. Lo sviluppo di un’economia indipendente dagli aiuti esterni non solo fatica a decollare ma s’impantana sempre di più. La dipendenza dei transgiordani dal sistema clientelare hashemita si cronicizza e con questa anche il divario economico tra le zone meridionali e i ricchi centri urbani del nord-ovest, dove vive una maggioranza di giordani d’origine palestinese. Con l’acuirsi della polarizzazione sociale ed economica aumenta lo scontento. I primi segnali si hanno nel 1989 e nel 1996: alcune rivolte scoppiano nel sud del paese in risposta all’aumento dei prezzi delle materie prime. Nessuna di queste però mette in discussione l’autorità di re Hussein. Con l’insediamento al trono di Abdalla II nel 1999 la situazione si aggrava.

 

 

Cresciuto alla scuola neoliberista americana, il nuovo monarca vuole cambiare il paese. Lo fa attraverso la privatizzazione selvaggia delle strutture statali. Abituata agli ingenti sostegni statali, la popolazione transgiordana nel sud del paese si vede scalzata dalla sua principale fonte di reddito. A esacerbare gli effetti negativi della nuova linea di governo si aggiunge la crisi economica mondiale che non risparmia la Giordania e la costringe a indebitarsi ulteriormente. Lo scontento popolare incomincia a prendere forma verso la fine del 2009 attraverso uno sciopero dei lavoratori portuali di Aqaba. Nel 2010 è il turno degli insegnanti statali. Le proteste si moltiplicano. In maggio acquistano un nuovo impeto con la pubblicazione di un manifesto da parte di un gruppo di militari in pensione che si fa chiamare il “Comitato Nazionale dei Veterani”. Nel documento si critica apertamente il sovrano per avere permesso alla regina (la celebre Rania di Giordania) di svendere il paese agli affaristi giordani d’origine palestinese. Nel frattempo, in Tunisia, il suicidio di Mohammed Bouazizi innesca una serie di rivolte nel mondo arabo. La Primavera Araba dà un nuovo impeto alle rivendicazioni dei manifestanti in Giordania.

 

Due cose hanno infastidito maggiormente i transgiordani che hanno preso parte alle proteste. Innanzitutto, il palazzo ha cambiato pelle: dall’essere il cuore pulsante di un potente sistema clientelare è diventato il centro operativo di multinazionali straniere. Secondo uno dei partecipanti alle proteste, “la Giordania è diventata uno stato privatizzato incurante del benessere dei suoi cittadini”. A questo si deve aggiungere una generalizzata antipatia per Rania. La regina, tanto amata dai rotocalchi occidentali, non riscuote lo stesso consenso in patria dove è accusata più o meno esplicitamente di corruzione, peculato e, per via delle sue origini, di privilegiare i cittadini di origine palestinesi.

 

La protesta raggiunge il suo culmine a Karak, il 16 novembre 2013. Il carattere marcatamente anti-hashemita della manifestazione è evidente. Nelle proteste precedenti, una versione più moderata di quello che è passato alla storia come lo slogan della Primavera Araba vedeva la sostituzione di “isqat” con “islah”: “ash-shaʻb yurid islah an-nizam” (il popolo vuole riformare il regime). A Karak non si usano gli stessi riguardi. Migliaia di manifestanti scendono in piazza al grido di “ash-shab yurid isqat an-nizam” (il popolo vuole rovesciare il regime) e “diaretna el-urdunie kabel al-thawra al-abriya” (la Giordania è la nostra casa sin da prima della rivoluzione ebrea). Ora quest’ultimo slogan merita un’analisi più attenta. Il significato è ambiguo e si riferisce al fatto che una parte della popolazione transgiordana rivendica la propria appartenenza al territorio in un periodo precedente alla Rivolta Araba (al-thawra al-arabiya) del 1916, cioè prima dell’arrivo degli hashemiti. In questo caso si gioca sull’assonanza del termine “al-abriya” (ebrea) con “al-arabiya” (araba). Gli eventi che seguiranno la Rivolta Araba, infatti, non porteranno solo alla costruzione dello stato di Giordania ma anche a quello d’Israele. Lo slogan non solo delegittima la presenza degli hashemiti sul territorio ma ne mette in discussione anche la buona fede, rendendoli complici del progetto sionista.

 

 

Con Karak si scandisce a chiare lettere quello che in molti tra i dimostranti ormai pensano da qualche tempo: re Abdallah II è un traditore che sta svendendo il paese e l’identità nazionale prescinde dalla famiglia reale hashemita. Dopo Karak, però, la forza propulsiva del movimento va a scemare per svanire da lì a poco. Le cause sono diverse. L’euforia per la Primavera Araba sfuma nel timore che le atrocità commesse in Siria sull’onda dello slancio rivoluzionario si possano ripetere anche in Giordania e che, come in Egitto, la caduta di un regime non porti necessariamente a uno migliore. Inoltre, l’agenzia d’intelligence (il mukhabarat) e le forze di sicurezza giordane svolgono “egregiamente” il loro lavoro, contenendo la protesta senza soffocarla nel sangue. A questo si deve aggiungere l’assenza pressoché totale d’impegno politico di gran parte della popolazione giordana d’origine palestinese che (con le dovute eccezioni) non prende parte alle proteste.

 

A oggi dell’hirak non è rimasta granché traccia. Ma una rivoluzione c’è stata, anche se molto meno cruenta che altrove. C’è da chiedersi come si declineranno nel futuro prossimo le trasformazioni che la Primavera Araba ha irrimediabilmente innescato in Giordania.

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