L'allegria contro Pinochet
Può la Milano da bere sconfiggere una feroce dittatura? Nel Cile del 1988, fu una frivola campagna pubblicitaria a propiziare la vittoria del No a Pinochet?
Bisogna prepararsi a bei paradossi davanti a “No - I giorni dell’Arcobaleno” di Pablo Larrain (nomination miglior film straniero Oscar 2013, vincitore a Cannes della Quinzaine), film che promette di incrinare più di un’idea corrente. Per cominciare, quella che vede nel linguaggio pubblicitario la negazione di ogni valore umanistico, una sorta di baco della democrazia. E se fosse invece una risorsa inutilizzata?
“No” è anche il primo film del cinema moderno a raccontare il pubblicitario come eroe democratico grazie al suo lavoro, non perché abiura o cambia vita. Nessuna parentela col tormentato Kirk Douglas scolpito da Kazan in The Arrangement o con gli alienati di Olmi in Un certo giorno. Il che fa di René Saavedra, il giovane creativo del film, una vera perturbante novità culturale.
Anche la pubblicità è raccontata da una prospettiva inedita ai più. Non sistematico inganno o gesto di potere, ma utile strumento al servizio di verità ben dette. E’ per questo che Saavedra esclude ogni accenno alle torture o ai desaparacido dal suo spot che dice No al regime. Azzera l’autobiografia del dissenso cileno e la traduce in una lingua immaginifica. In un desiderio di felicità. Nasce così il suo spot-jingle, che ricorda molto da vicino l’estetica ottimista e patinata dei nostri spot anni ottanta. Ai leader dell’opposizione propone di parlare “come la Coca-Cola”. In cambio, ricevono ascolto. E un’insperata vittoria al referendum.
Bill Bernbach, grande “mad men” umanista del ‘900, scrisse: “Ho visto troppe cause valide
fallire per mancanza di competenza nel comunicare con il pubblico, mentre altre indegne trionfavano avendo quelle capacità. Gli uomini di buona volontà non sono per forza dei bravi comunicatori. E questo può essere una tragedia”. Parole amare nell’Italia di oggi, satura di così tanta brutta e inutile pubblicità da impedire di immaginarla diversa.
Eppure non arriva a caso questo film, mentre in tutto il mondo il linguaggio pubblicitario dimostra sempre più di poter incidere anche sui cambiamenti politici. In Tunisia, a pochi giorni dalle elezioni, una finta affissione con il dittatore Ben Ali ha scatenato la partecipazione al voto (agenzia: Memac). In Colombia, la Lowe si fa venire idee per riavvicinare i guerriglieri Farc alle famiglie. In Russia i creativi di Voshkod con le campagne attaccano gli inefficienti politici locali. C'era linguaggio pubblicitario in Occupy, nella Primavera Araba. La lista è lunga, il cambiamento in atto. Basta vederlo senza pregiudizi.
Come nella scena finale del film, quando arriva la vittoria del No. La sede del comitato viene invasa dalle troupe tv in cerca di interviste. Nessuno però si rivolge al pubblicitario, che si allontana come un eroe fordiano, ignorato da tutti. Cosa ci dice il regista in quel momento? Che l’apporto di René – dei René - non è considerato dalla storia ufficiale. Raccontando questa solitudine, “No” chiede attenzione per quel linguaggio.
Un linguaggio senza autori al quale il regista Pablo Larrain guarda invece con grande rispetto. E forse pure con partecipazione, visto che egli stesso è fondatore di una casa di produzione anche di commercial, la Fabula. Larrain intende dare dignità a un ruolo altrimenti invisibile, lo si vede da come pedina il suo protagonista nel corso del film. Che è nei fatti il making of della campagna pubblicitaria. Sono tanti i momenti nei quali René resta il solo a difendere, scena per scena, la coerenza interna del suo lavoro, scortandolo intatto tra le esitazioni del comitato e della sua stessa troupe.
Film di storia dei media, anche. Era un’era fa, quella analogica nella quale il comitato del No poteva parlare alla gente solo dalla tv e per un quarto d’ora a sera, come imposto dal regime di Pinochet. Un passato oggi remoto, gli anni ottanta, non a caso ricostruito dal regista con l’attenzione che Visconti riservava all’ottocento. Compresi gli strumenti di ripresa. “No” è girato infatti con video camere degli anni 80, a sottolineare la distanza storica. Ecco, spettatori di oggi: questo accadeva in quell’epoca di reti unificate, di messaggi al popolo dal tubo catodico, unico collegamento tra potere e massa. Non c’era il mondo digitale né i mille schermi di oggi.
Non che il film indichi mai nella campagna di Saavedra l’arma decisiva contro Pinochet. Sarebbe come dire che davvero può esistere una “persuasione occulta” e per di più a fin di bene, ovvero l’ennesima puerile lettura del linguaggio pubblicitario. La pellicola di Larrain propone semmai un’altra e più matura visione. Raccontando i dubbi dei leader dell’opposizione, committenti e carne viva di quel “No” al regime, definisce la comunicazione come gesto di profonda interrogazione personale fino all’umile rinuncia a sé. Quanto di noi deve passare intatto e cosa invece va spiegato altrimenti? Ciò che pensiamo sul nostro conto è necessariamente ciò che per gli altri è importante? Domande benvenute, mentre in Italia ancora una volta si è costretti a interrogarsi sulle alternative alla demagogia, sui modi democratici per essere semplici.
Questo articolo è una versione ampliata di quello apparso venerdì 19 sul Venerdì di Repubblica