Cucire la storia / Ricamare
Ci sono state epoche in cui il cucito contava.
Per esempio, il ruolo propagandistico che oggi svolgono i media, digitali o analogici, e che fino a pochi decenni or sono era assolto dalla carta stampata, un tempo fu invece affidato ai tessuti. Stendardi, religiosi o gentilizi, vessilli guerreschi, insegne e gonfaloni mercantili o corporativi, arazzi celebrativi e persino abiti di rappresentanza, in stoffe pregiate, in bisso, in seta, in velluti, in damasco, ornati di pizzi, di ricami e di pietre preziose costituivano un efficace veicolo di trasmissione di messaggi, ovviamente legati al potere, tanto a quello spirituale, quanto a quello temporale ed economico.
Per non parlare poi del carattere simbolico delle bandiere, drappi di stoffa spesso ricamata, nelle quali sono incarnati (ed è proprio il caso di dirlo pensando alle guerre di indipendenza o di salvaguardia della patria) i valori identitari dei popoli.
Sulle stoffe, già di per sé pregiate, si ricamavano poi anche motti e monogrammi, con fili e con decori preziosi, per attestare l'autorità o l'autorevolezza di chi, una volta cuciti in forma d'abito, li avrebbe indossati.
Scrive Clare Hunter nel suo libro I fili della vita. Una storia del mondo attraverso la cruna dell’ago, in uscita da Bollati Boringhieri, a proposito del tempo di Maria Stuard, a sua volta eccelsa ricamatrice:
"Il ricamo era una forma potente di comunicazione, prezioso strumento per la trasmissione di idee ed emozioni, addirittura una conversazione tra le persone e Dio, tra la chiesa e i fedeli, tra il sovrano e i suoi sudditi."
Così è stato fin dal tempo delle origini della vita sociale dell'umanità, come ben documenta il libro dei libri. Nell'Esodo (28-32), infatti, molti versetti sono dedicati alla descrizione dell'abito di Aronne, il sacerdote per antonomasia. Ecco la parola di Dio:
"Parlerai a tutti gli artigiani più esperti, che io ho riempito di uno spirito di saggezza, ed essi faranno gli abiti di Aronne per la sua consacrazione e per l'esercizio del sacerdozio in mio onore.
E questi sono gli abiti che faranno: il pettorale e l'efod, il manto, la tunica ricamata, il turbante e la cintura. Faranno vesti sacre per Aronne, tuo fratello, e per i suoi figli, perché esercitino il sacerdozio in mio onore. Useranno oro, porpora viola e porpora rossa, scarlatto e bisso."
Per la sua elevata valenza simbolica, quest’abito compare in molti affreschi altomedievali, tra cui il magnifico absidale Il silenzio di Zaccaria nella chiesa di Santa Sofia in Benevento, risalente alla fine dell’VIII secolo. Così come lo è questo affresco, anche tutti i ricami che ci sono pervenuti sono anonimi. In nessuno dei tanti musei sparsi per il mondo, in cui si conservano autentici capolavori di tessitura e di ricamo, è riportato il nome delle loro autrici perché, si sa, nella maggior parte dei casi, a ricamare erano e sono le donne (a Venezia, nel 1531, vide la luce addirittura il primo manuale, a firma di Giovanandrea Vavassore, detto il Guadagnino, dal titolo Esemplario di lavori: che insegna alle donne, il modo e l’ordine di lavorare), nè mai vi è fatta neppure menzione della loro esistenza. Si tutela e si studia il prodotto del loro ingegno, si ammira la loro bravura, la tecnica con cui lo hanno eseguito, ma in nessun caso si parla di loro. Così Hunter:
"Improvvisamente mi sento fremere di rabbia per questa ingiustizia. Ore e ore di lavoro, di applicazione di capacità tecniche, inventiva, fantasia, tutto è liquidato come irrilevante. Nessuna congettura sulla vita di queste donne. Nessuna descrizione delle condizioni di lavoro, nessun entusiasmo per il loro talento. Le vedo sedute ora dopo ora, mese dopo mese, anno dopo anno, chine sul telaio. [... ] Ricamare costava fatica: una mano sopra il telaio, l'altra sotto, ad accogliere lago all'uscita e spingerlo di nuovo verso l'alto, di continuo. Un lavoro tedioso, impegnativo, monotono. Immagino le loro schiene indolenzite per tutto il tempo passato al telaio; gli occhi che bruciano per il fumo e la luce delle candele, stanchi per la scarsa illuminazione fornita dalle finestrelle nei giorni d'inverno, per la necessità di esercitare un'attenzione costante."
Nel suo avvincente libro, la scrittrice e artista tessile scozzese, raccontandoci la storia di alcuni ricami famosi, li riscatta dal limbo in cui hanno giaciuto per secoli, liquidati tout-court come "Lavori di donne", guadagnando loro il posto che meritano nella Storia dell'Arte.
La narrazione prende avvio dall'arazzo di Bayeux, a cui sono dedicate pagine e pagine, affascinate, rispettose, quasi devote. Non vi si riferiscono solo le vicissitudini da esso subite nel tempo, né vi si dice soltanto della carica simbolica che gli è stata attribuita nelle varie epoche per i fatti storici di cui tratta (la battaglia di Hastings, 1066, combattuta da Guglielmo il conquistatore per il controllo dell'Inghilterra) ma si racconta del suo ineguagliabile valore artistico che va ben oltre quello dell'essere esso stesso documento. Innanzi tutto non è un arazzo, ma un ricamo che misura sessantotto metri e trenta centimetri di lunghezza, eseguito in opus anglicanum, con filati di lana di pochi colori: rosso, ocra, beige, verde e, naturalmente anche bianco e nero. Le riproduzioni non gli rendono giustizia, infatti solo dal vero si colgono la tattilità, "la matericità dell'arazzo e il palpito dei ricami. [... ] È la fattura a donargli immediatezza: personaggi, eventi ed emozioni prendono vita grazie all'abile, creativo impiego di fili colorati e dei punti di ricamo. Qui sta la sua forza. È la manualità a catturare consistenze, ritmi, toni, personalità, è l'opera di cucito ad esprimere il suo fascino."
A volte un ricamo può anche diventare una forma di scrittura figurata, come è avvenuto con Maria Stuard, che, tenuta sotto stretta vigilanza dalla censura della sua rivale, Elisabetta I, non potendo scrivere, affidò al ricamo i propri pensieri e i propri giudizi, dando alla Tudor la forma di un topo rossastro e a se stessa quella di un uccellino in gabbia. Ancora più emblematico è il caso del famigerato cuscino, da lei ricamato per il suo amante Nicholas White (contesole dalla cugina) sulla cui fodera, come ci riferisce Hunter “è raffigurata una mano con un polsino di pizzo che discende dal cielo impugnando una cesoia da giardino con la quale taglia il ramo infruttuoso di una vite per permettere a germogli più giovani e fecondi di crescere e prosperare: un chiaro riferimento alla sterilità di Elisabetta e alla fertile Maria.”
Questo ricamo verrà addirittura esibito come prova di alto tradimento e di lesa maestà nel processo istruito dalla giustizia inglese contro White, che si concluderà con la sua esecuzione.
Ma un ricamo si può anche trasformare in un viatico di diplomazia. È il caso della gonna di raso rosso, che sempre Maria confezionò per Elisabetta, su cui aveva ricamato un intreccio di cardi (simbolo della Scozia) e di rose (simbolo dei Tudor), rimandanti alle due monarchie che vi si ribadivano distinte e separate, seppure legate da un vincolo parentale, il medesimo che univa le due regine.
Un tempo i tessuti e il cucito contavano, e anche parecchio.
Che alla radice del nostro Rinascimento vi siano state stoffe e ricami è cosa poco risaputa dai più ma ben nota agli storici. Infatti la ricchezza di molti stati dipendeva dalla produzione e dal commercio di panni: così a Firenze al tempo degli Strozzi e dei Medici, produttori di straordinarie stoffe ricamate i primi, banchieri che ne facilitarono la vendita, arricchendosi, i secondi. E ancora i tessuti furono centrali nella Milano dei Visconti e degli Sforza, noti per aver incentivato la produzione della seta e per aver dato avvio a quella dei cosiddetti tessuti milanesi, auroserici, divenuti famosi in tutto il mondo: lampassi e damaschi, broccati d’oro e d’argento e velluti di seta su cui venivano ricamati, in oro, i simboli araldici del committente.
Nella mostra Seta, oro, cremisi, allestita nel 2009 al museo Poldi Pezzoli era esposto un frammento di damaschino d'oro, delle dimensioni di un libro aperto, appartenuto all’abito indossato dall’imperatore Massimiliano I nelle nozze (1494) con Bianca Maria Sforza, nipote di Ludovico il Moro, allora reggente il ducato di Milano. Nella sua trama è intessuto un bocciolo di sempreviva, quale simbolico auspicio che la stirpe degli Sforza venisse insignita del titolo imperiale; certamente non è merito di questo augurio affidato al ricamo, ma sta di fatto che il Moro la ricevette davvero quell’investitura.
E ancora, l'agio economico di cui godettero Piero della Francesca e la sua famiglia dipese dalla sua abilità nell'aver messo a punto un processo di colorazione dei tessuti e dei filati in indaco che rivaleggiava per qualità e prezzo con quelli importati da Bagdad, molto rari e ben più costosi.
Sete lucchesi, ricercatissime per il loro colore azzurro e per il loro rosso, decorate in battiloro, venivano vendute con grande profitto persino nelle Fiandre, come testimonia il fatto che Giovanni Arnolfini, allora rappresentante dei mercanti di stoffe lucchesi a Bruges, si sia potuto permettere di farsi ritrarre dal più affermato e quotato pittore fiammingo del momento, Jan van Eyck, in un quadro oggi molto famoso, I coniugi Arnolfini, del 1434, conservato alla National Gallery di Londra.
Nel suo documentatissimo libro, Hunter si sofferma ad analizzare anche esempi di ricami poveri, eseguiti in tempi più prossimi ai nostri, legati alle tradizioni popolari: dal kilt scozzese, ai ricami dei nativi d'America, a quelli ucraini, dimostrando come i colonizzatori o gli invasori, che fossero essi inglesi, oppure missionari cristiani o ancora militari sovietici, avendone compresa la valenza simbolica e la carica identitaria, ne avessero vietata, caso per caso, la produzione; costoro distrussero inoltre tutto il patrimonio tessile, ritenuto un possibile istigatore di sentimenti sovversivi, dimostrando così di aver ben compreso la potenza simbolica del ricamo.
Altrove, Hunter aggiunge: "Molti di noi tengono in casa dei tessuti come ricordo, usati di rado ma custoditi con amore, in quanto capaci di evocare il legame con una persona, un luogo, un momento passato. Sono tessuti che provocano stimoli sensoriali ed emotivi, troppo preziosi per separarsene. E allora le conserviamo, queste testimonianze tattili, questi legami familiari tangibili, lasciandoli alle generazioni successive come prova materiale di ciò che siamo e da dove veniamo.
[...] Nella sua Storia naturale dei sensi, Diane Ackerman scrive che il tatto è il nostro primo senso, il primo strumento che usiamo per registrare e ricordare le differenze, per attestare l'eredità che abbiamo ricevuto. I tessuti che custodiamo ci chiedono di essere tirati fuori dal cassetto, accarezzati, maneggiati. Perché ci tengono letteralmente in contatto con il nostro passato."
E ancora nel suo libro si susseguono racconti di vite, persino storie di tessuti in odore di magia, o a cui si attribuiscono virtù benefiche, se non addirittura taumaturgiche, narrazioni che ci tengono con il fiato sospeso fino all'ultima pagina e da cui impariamo a conoscere anche le doti tecniche ed estetiche di questa forma d'arte nobile ma purtroppo trascurata.
Da appassionata ricamatrice, vorrei offrire un altro spunto alla riflessione sul tema del ricamo: nel ricamare con fili colorati si agisce accostando sul tessuto minuti tocchi cromatici con piccoli punti, come se si procedesse con una tecnica analoga a quella che in pittura è detta “divisionista”, o “pointillista”. E ciò accade da molti secoli prima che le ricerche sull’ottica del XIX secolo teorizzassero il processo della visione che ha originato quei procedimenti pittorici. Chi ricama vede, quindi, e opera scomponendo la forma in micro porzioni cromatiche (i punti – oh, la bella coincidenza anche nel nome!) che sarà poi il risultato finale a ricomporre in figura, conferendogli unità e senso. Questa straordinaria capacità somiglia alla ‘visione lenticolare’ di cui furono dotati, per un tratto di tempo storico ben circoscritto, i pittori delle Fiandre, mentre invece alle ricamatrici essa appartiene da sempre, fin dalla notte dei tempi, fin da quando Adamo zappava e Berta filava.