Iliade, il libro di tutti

19 Gennaio 2025

La traduzione del monumentale trattato di divulgazione scientifica di Robert Lane Fox comincia, fin dalle sue soglie paratestuali, con una sorta di tradimento: Omero e l’Iliade, e non, come forse richiederebbe l’originale, Omero e la sua Iliade. Eppure, questa omissione sembra rispecchiare, inconsciamente, la volontà dell’autore: l’Iliade è il libro di tutti – lo dice lo stesso Fox, richiamandosi a Seneca, e parlando di un ‘Omero enigmatico’ all’inizio del volume, quando dispiega, con una chiarezza espositiva e un trasporto emotivo rari nella critica letteraria, chi erano, e sono ancora oggi, gli ascoltatori e i lettori del “più grande poema epico della letteratura mondiale”: “tutti”, scrive Fox, “non va preso troppo alla lettera: gran parte delle donne e dei poveri non conoscevano i poemi di Omero (…); per questo sarebbe meglio dire ‘tutte le persone agiate e istruite’” (p. 3). E per questo, infatti, Fox affronta ogni aspetto micro e macroscopico dell’Iliade con uno spirito pedagogico aperto alla pluralità e a un principio di accoglienza del lettore tale per cui tutti, dalla persona meno colta e più distante dalla cultura elitaria classica fino ai docenti incardinati nei settori scientifici di Filologia classica e Letteratura greca, si possano sentire partecipi del moto storico, estetico e compositivo dell’Iliade e possano comprendere appieno come le sue forme non siano solo un “espediente poetico” proprio di una determinata stagione della storia letteraria, “ma si basino su una visione complessiva della condizione umana” (p. 13).

Una piccola nota biografico-metodologica, prima di procedere. Oltre a essere uno dei più importanti esperti al mondo di giardinaggio – sono note, per esempio, le sue controverse posizioni nei confronti degli gnomi da giardino –, Fox è anche un ‘unitario’ nel mondo della filologia omerica: egli sostiene apertamente una visione unitaria, ritenendo che l’Iliade e l’Odissea siano opere coerenti e attribuibili a un unico autore, che egli identifica con Omero.

Ma torniamo al testo omerico preso in esame dall’autore, l’Iliade: tre parti, che tentano di rispondere a tre questioni omeriche (dove, come e quando: la geografia, lo stile, la storia dell’Iliade), un quarto capitolo – il più bello e appassionante, per i temi ma anche per la scrittura di Fox – dedicato alle caratteristiche degli eroi, e un ultimo saggio, nel senso letterale del termine (essayer, provare), un tentativo di mettere in comunicazione l’antico e il contemporaneo (appunto: I mondi paralleli) attraverso l’esame comparato, mai del tutto risoluto, tra i sistemi di valori omerici e la loro eredità culturale. Il tutto inscritto all’interno di un procedimento induttivo, che trova origine intorno a un determinato argomento (un verso, un libro, un eroe, un aspetto paesaggistico, una data, un valore etico) e che progressivamente si espande attraverso un commento sistematico (linguistico e prosodico, archivistico e storico, archeologico e critico) della lingua e del linguaggio di Omero, andando così a coprire, in maniera quasi totalizzante, ogni aspetto dell’opera di Omero – o quantomeno dell’Iliade.

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Il libro, come dicevo, ha una vesta divulgativa, anche se non manca di fare degli affondi scientifici – soprattutto nelle prime tre parti, quelle più tecniche e più affilate nei confronti dei colleghi di Fox (che l’autore tratta con grande rispetto e eleganza) – che hanno suscitato un certo clamore nel mondo della classicistica (per lo più anglo-americana, dato che, in fin dei conti, la maggior parte della letteratura secondaria citata e consultata dall’autore è inglese o americana, con qualche eccezione tedesca – assente, o quasi, la tradizione classica italiana). Ma il libro, come dicevo, parla a un pubblico molto ampio e variegato, e fa vibrare delle corde interiori che più che con l’inconscio (freudiano) hanno a che fare con degli universali – un po’ junghiani un po’ fantastici.

Provo a spiegarmi meglio, indossando i panni del lettore (di Fox e di Omero). Quale che sia la nostra educazione (tra estrazione sociale e formazione culturale), buona parte di noi che si è formata nella scuola italiana condivide una serie di universali concettuali che, un po’ come l’Iliade, ci fanno riconoscere come parte integrante e indistinta del tutto: il Tigri, l’Eufrate e la Mezzaluna fertile; la lineare C; l’esondazione del Nilo e il limo; i lari e i penati; i vassalli, i valvassori e i valvassini; la Guerra dei Trent’anni, i Tories e i Whigs; Giolitti Giano bifronte; quell’indefinita idea di ‘commercio’ e di degenerazione dei costumi che attraversa senza soluzione di continuità tutti i manuali di storia della letteratura italiana, latina, greca (et cetera); e, insieme a loro, Omero e la sua leggenda – era davvero cieco il cantore delle gesta di Achille? Era l’autore dell’Iliade e dell’Odissea? Oppure era solo una figura inventata (una maschera, una persona loquens), espressione (romantica) dello spirito greco? E cosa diceva, di Omero, il Wilamowitz?

A molte di queste domande, nel corso degli anni sono riuscito a dare alcune risposte, frequentando corsi universitari e dottorali (e sostenendo i rispettivi esami, con esiti altalenanti), scoprendo, mio malgrado, che il Wilamowitz in realtà aveva un nome completo (Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff) e che dietro al mito e alla letteratura antica, e soprattutto dietro a quell’idea profondamente romantica intorno alla quale si era forgiata la mia formazione classica, c’erano risposte filologiche molto nette (anche se poi vengono chiamate congetture), e particolarmente complesse da decifrare (tra apparati critici, edizioni e lingue straniere da imparare, barcamenandomi e balbettando espressioni desuete tra inglese, francese e tedesco).

In uno dei pochi ricordi che ho della mia infanzia, mio padre, nei weekend in cui era a casa, mi leggeva a letto (c’era anche mia sorella, mentre mia madre era in cucina) l’Iliade di Omero nella traduzione di Vincenzo Monti; è un bel ricordo (affettuoso, familiare, antico), di cui ho ripreso gli effettivi contorni leggendo le pagine di Fox negli intervalli concessimi tra un pranzo e una cena di Natale. Molti anni più tardi, sempre mio padre, mentre mi preparavo (di rientro, in macchina, dopo un convegno a Ravenna) a discutere la mia tesi di laurea magistrale (su Pavese e la ricezione dei classici), mi chiedeva perché parlassimo così difficile (la mia ex storica e io), quando il rapporto tra Achille e Patroclo era così semplice; e, un po’ piccato, io gli chiedevo perché invece lui usasse parole così semplici e familiari, per parlare di Achille e Patroclo.

Ecco, quando Fox inizia a parlare dell’Iliade, il lettore si trova catapultato in un tempo sospeso, dove a tratti si sente, e si vede, come un bambino che legge o sente per la prima volta le gesta degli eroi omerici, e allo stesso tempo si vede come un adulto che riprende in mano un libro dell’Iliade come se fosse ancora quel bambino – questo sguardo, sincero e mai mediato dai pregiudizi degli esami e delle abilitazioni, delle lezioni e della veste cattedratica, nei confronti della materia omerica nasce proprio dal modo in cui Fox espone le proprie argomentazioni: analitiche, descrittive e argomentative, basate sulla ragione storica, testuale, e quando serve sul buon senso e sulla logica (quando la filologia e la storia non offrono più strumenti utili alla comprensione di un mondo perduto, fatto di parole orali, performatività e trasmissione in-diretta); in una parola, semplici. E, per questo: genuine, sincere.

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Achille sta per uccidere Ettore, Pallade Atena tra loro ,Giovanni Maria Benzoni.

Facciamo un esempio, tra i molti possibili: “È probabile che la dieta a base di carne degli eroi non sia stata un’invenzione di Omero, ma facendo della carne il loro unico cibo, il poeta conferì al loro mondo un’aura epica. Un eroe vegano era semplicemente impensabile” (p. 208). Chi sono, cosa fanno e come si comportano gli eroi omerici?

La carne, in questo caso, permette a Fox di ragionare, a partire dallo studio di Moses Finley sul Mondo di Odisseo (1954), intorno ai rapporti tra realtà (storica) e finzione (poetica) dell’Iliade. Per Fox, la scelta di Omero è innanzitutto di tipo stilistico e etico, nella misura in cui l’unicità dei gesti più semplici (per esempio, l’alimentazione e la dieta) era una forma di distanziamento necessario tra gli eroi e i “mortali che vivono ora”, tesa a inquadrare i personaggi del mondo omerico in nuovo contesto sociale, distante e diverso da quello associabile alla dieta mediterranea greca dei comuni mortali. Nella cultura omerica, la carne rappresenta un elemento centrale che distingue gli eroi dagli uomini comuni, sottolineandone il loro status elevato e quasi divino: il consumo di carne, descritto in scene di banchetti abbondanti e ritualizzati, non è solo un atto di nutrizione, ma un simbolo di potere, ricchezza e appartenenza all’élite. Per Fox (e Omero), questa pratica non solo rafforza i legami sociali e gerarchici, ma enfatizza anche l’idea che la vita degli eroi sia eccezionale e distante da quella dei comuni mortali, il cui regime alimentare era probabilmente più modesto, basato su cereali, legumi e latticini. La carne, quindi, diventa un simbolo di eroismo, abbondanza e superiorità culturale – un medium socio-culturale che assume un tratto distintivo estetico e etico nel mondo di Omero.

Ma dei personaggi parleremo poco più avanti; spostiamoci, allora, sulla lingua, e in particolare sull’uso circolare del linguaggio nella dettatura orale. “In tutto il poema, Omero impiega frasi formulari e vocaboli in modo molto più flessibile di quanto pensasse [Milman] Parry […]. L’analisi del testo ha dimostrato che circa 2000 parole usate nell’Iliade ricorrono una sola volta” (p. 156). L’ipotesi più probabile, nota Fox, è che Omero provasse, come gli attori, i canti prima di performarli e che i processi di dettatura non fossero su richiesta, ma provenissero direttamente da Omero: “[egli] godeva di un grande prestigio e gli scribi si sforzavano di cogliere ogni parola che gli usciva dalle labbra. Lo veneravano” (p. 156). Omero non aveva bisogno né desiderava stabilire o fissare una versione definita della propria opera, dato che ogni versione, cioè ogni recitazione performante, era tanto valida quanto un’altra (da lui recitata). La successiva trascrizione sarebbe riconducibile, a detta di Fox, al desiderio di Omero di avere una legacy, per sé e per i suoi familiari (per gli homeridai, i figli di Omero, secondo il celebre verso di Pindaro). Ad ogni modo, quale che sia la ragione dietro alla restituzione testuale dell’Iliade, Fox avanza un’altra ipotesi: “Anche Omero imparò a comporre ascoltando e provando sin da piccolo, come un enfant prodige che inizia a suonare a tre o quattro anni. Anche per lui la poesia era un mestiere in cui esercitarsi ogni giorno. Alla fine, dettò a qualcuno la versione dell’Iliade che corrisponde in sostanza a quella che ci è pervenuta. Mi piace pensare a lui come all’Erroll Garner della poesia epica, un autore il cui capolavoro fu infine trascritto nel corso di una performance appositamente eseguita a velocità ridotta. Ancora oggi continuiamo a comprarne lo spartito” (p. 160).

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Priamo tiene in mano l'urna d'oro con le spoglie di Ettore, Giovanni Maria Benzoni.

Il mondo omerico, anche nelle sue ombre più oscure – ossia nei suoi nodi più difficili da sciogliere, per i quali è talvolta (spesso?) necessario fare un atto di fede di fronte all’esametro dattilico –, viene ricondotto alla sua materialità storico-sociale. A chi si rivolgeva l’Iliade? “Il modo in cui i Greci cenavano cambiò nel tempo. Mentre gli eroi omerici prendevano posto sulle sedie dallo schienale verticale e consumavano carne e vino durante lo stesso pasto, intorno all’800 a.C., ad Atene, e al 750 a.C., nel resto della Grecia, si sviluppò un nuovo stile conviviale, in cui i partecipanti iniziavano a bere vino solo dopo aver finito di mangiare. In seguito, verso il 630 a.C., le sedie furono sostituite da comodi letti, su cui si distendevano gli ospiti di queste riunioni dedicate al bere, o simposi” (p. 88). L’unità, la lunghezza e l’argomento del poema portano a escludere tutte le ambientazioni (e motivi a esse sottesi) possibili, tranne una: l’occorrenza religiosa – non sappiamo dove Omero nacque o morì, ma sappiamo che la sua fama era ampia e grande, e che il tema della sua opera avrebbe richiesto tempi e spazi generosi per una performance di qualunque genere – probabilmente in località importante, ma non centrali, e durante festività religiose, ma non dedicate a una determinata divinità, dato che l’Iliade “non onora un dio in particolare, né una certa città o la sua famiglia dominante” (p. 91).

Tre esempi, dunque: la vita sociale, il codice poetico, la funzione dell’arte. Fox non può né desidera dare risposte definitive ai quesiti che interrogano e compongono il libro, ma avanza argomentazioni basate sia sui recenti studi in ambito classicistico, sia in ambito archeologico. I costumi, le pratiche e per certi versi anche gli esperimenti letterari (sia in forma di continuità, che di innovazione) sono sopravvissuti attraverso il tempo, ma a parlare e a far parlare (anche a livello transmediale: pensiamo ai film, alle serie e ai videogiochi che riprendono o hanno a che fare con l’immaginario dell’Iliade e dell’Odissea) l’epopea omerica sono i suoi personaggi – il loro carattere, in senso aristotelico: ciò che sono e come si comportano. Ogni figura, da Achille a Priamo, diventa la sede per una riflessione transtorica del modo in cui l’immagine che il poeta e i suoi lettori hanno di sé e della propria società viene restituita. In particolare, nella rilettura di Fox un grande rilievo – accanto ai grandi eroi omerici – rivestono le figure femminili, come le donne dalle candide braccia (Criseide, Briseide, Elena), le madri regali (Ecuba, Elena e Andromaca), le dee amiche e nemiche (Era e Atena, Artemide e Afrodite), i cui ritratti “sono esempi inconfutabili dell’empatia e dell’intelligenza emotiva di Omero” (p. 418), tesi a delineare, per riflesso e per contrasto, il sistema di valori e di giustizia a cui tutti i personaggi omerici sono sottoposti.

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Ettore disteso sulla pira funeraria, Giovanni Maria Benzoni.

Anche quando il rinvio al contemporaneo non è esplicito (o esplicitato), Fox guarda agli eroi omerici come ai suoi contemporanei – e così li considera: diversi da noi, e dai loro predecessori, ma legati a loro e a noi dalle stesse identiche dinamiche: la vita, la morte, l’amicizia, la gloria, il rispetto, l’orgoglio, e a suo modo anche l’amore – o meglio, per usare due espressioni care a Fox, la pietà (pity) e il pathos: sebbene il poema tratti dell’ira di Achille, dell’ingerenza degli dèi e della cruda brutalità della battaglia, è anche profondamente incentrato sui sentimenti, mostrando come il peso del destino gravi indistintamente su tutti i personaggi dell’Iliade. Dal punto di vista di Fox, questo senso di pathos è reso ancora più toccante dal fatto che gran parte del poema si fonda su una profonda ironia drammatica, di cui talvolta ci dimentichiamo: i personaggi agiscono senza la consapevolezza di ciò che i lettori o ascoltatori già conoscono. Chi assisteva a una recitazione dell’Iliade o dell’Odissea conosceva già gli eventi principali – il concetto moderno di spoiler non esisteva nel mondo antico. Il materiale mitologico (nelle sue vesti epiche e tragiche) era un sapere condiviso, una memoria culturale collettiva che rendeva irrilevante l’elemento della sorpresa narrativa. Il pubblico antico non cercava l’ignoto nella trama, ma la sua rielaborazione (scenica, linguistica, performativa). Al contrario, i personaggi, come Achille e Patroclo, non avevano la stessa consapevolezza: essi agiscono nel presente, legati alla loro dimensione temporale, immaginando un futuro che noi conosciamo ma che per loro è solo una vaga possibilità (gli eroi sanno che la loro vita è breve e che sono destinati alla gloria e alla morte).

Secondo Fox, Omero costruisce una doppia realtà in cui dèi e mortali coesistono, sebbene i loro regni siano fondamentalmente distinti. Gli dèi, immortali e onnipotenti, vivono in un mondo libero dai vincoli del tempo, della morte e della sofferenza che dominano e tormentano l’esistenza umana. Questa sfera divina opera come uno specchio e un amplificatore delle lotte mortali, con i conflitti personali degli dèi che riflettono ed esaltano le emozioni e le ambizioni umane. Ad esempio, le dispute tra gli dèi spesso rispecchiano le contese tra i leader mortali, come la rivalità tra Achille e Agamennone, sottolineando l’universalità delle lotte di potere in entrambi i mondi. Tuttavia, mentre gli dèi agiscono senza conseguenze, i mortali sono vincolati dal destino, dalla mortalità e dagli effetti delle loro scelte. Questo confronto rafforza lo status eccezionale degli eroi omerici, i quali, sebbene mortali, sono più vicini al divino rispetto alle persone comuni grazie alla loro forza, carisma e destino. Eppure, questa vicinanza agli dèi non fa altro che sottolineare la loro tragica vulnerabilità: benché simili agli dèi, gli eroi sono vittime del tempo (e dunque della morte). L’analisi di Fox dimostra come questa interazione non solo arricchisca la tensione drammatica dei poemi, ma ne garantisca anche la risonanza eterna, poiché il suo pubblico è chiamato muoversi in un universo estetico in cui le vite umane sono plasmate e oscurate da forze che sfuggono al loro controllo. Per questo, credo, Fox parla con una certa insistenza (ed empatia) di mondi paralleli: i poemi omerici non sono specchi fedeli alla realtà, bensì possibilità narrative che non si limitano a evocare il passato, ma che ci accompagnano lungo il nostro cammino, come delle linee temporali (e per questo narrative) che potrebbero incontrarsi all’infinito in un punto improprio, come vuole la teoria dei limiti matematici, per ritrovarsi, inaspettatamente, speculari (o affini, simili, non così diversi, come la materia omerica e la cultura contemporanea sembrano, in realtà, suggerire). Un po’ come mio padre e io, quando parliamo (di nuovo, dopo tanti anni) di letteratura.

In copertina, Priamo riscatta il corpo di Ettore, Giovanni Maria Benzoni.

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