Un libro di Sara Oliva Boch / Diario dal labirinto

27 Dicembre 2021

Diario dal labirinto, di Sara Oliva Boch (AnimaMundi Edizioni, 2021) è la storia di un attraversamento.

Il labirinto evocato dal titolo è lo spazio da attraversare, il percorso da costruire dentro lo spaesamento. Superare un labirinto comporta fare i conti con l’imprevedibilità, il disorientamento, l’ambivalenza di un luogo che “ha dentro di sé la dimensione del doppio: da una parte vieta l’accesso, ostacola il percorso, dall’altra apre la porta verso altri accessi e altri percorsi”; un luogo che spaventa e insinua la tentazione alla fuga, ma non consente il passaggio finché non si impara a starci dentro, a conoscerlo e a conoscere se stessi, perché “nel labirinto ognuno è solo con la sua realtà interiore, vi incontra se stesso, un principio divino, uno specchio”.

Il labirinto è anche metafora della malattia, una condizione che impone di abitare uno spazio instabile, cercando di ricomporre il disequilibrio tra antinomie che convivono in uno stesso luogo, in uno stesso corpo, uno spazio finito che deve contenere il dentro e il fuori, la salute e la malattia, la vita e la morte.

 

Il diario è la registrazione del tentativo di uscirne, o meglio, dello sforzo di passarci attraverso.

Le riflessioni che raccoglie coprono circa un anno e mezzo, la durata del viaggio dentro la malattia oncologica, che inizia con una presa di coscienza e di autodeterminazione, l’impegno a non subire la malattia, ma lasciarsi attraversare mantenendo uno sguardo dall’alto, a sbrogliare con calma il groviglio di sentimenti innescati da una condizione percepita allo tempo stesso come ingiusta, non desiderata e inevitabile.

 

L’obiettivo stabilito dall’autrice fin dalle prime pagine è tenersi compagnia e “fare memoria e tesoro di tutti quei minuscoli istanti”, costruendo una narrazione capace di dare alle cose un ordine che le renda leggibili, che aiuti a disvelarne il senso, o, dove il senso manca, che lasci spazio all’accettazione. 

Le citazioni che corredano ogni pagina di diario fanno da àncora alle riflessioni dell’autrice, parole guida in cui sedimentano lezioni e conquiste e che aprono uno spiraglio sull’insieme di incontri e letture che accompagnano chi scrive e la indirizzano nella rilettura della propria esperienza. 

L’esercizio della meditazione e la pratica buddista costituiscono le fondamenta di un approccio alla vita, e alla porzione di vita accompagnata dalla malattia, che si impone di stare anche nella fatica, nei punti più inospitali e dolorosi, nella distanza scomoda tra le proprie attese e la realtà.

 

Ma è la pratica della scrittura lo strumento d’elezione capace di trasformare un’esperienza potenzialmente distruttiva in un’occasione di evoluzione e apprendimento; la scrittura richiede lentezza e silenzio, apre intercapedini tramite le quali il mondo interno può affiorare verso l’esterno: “ho sempre usato la scrittura come strumento capace di sostenermi nella traduzione della Vita da accadimento a esperienza [...] un luogo dove potersi rifugiare, dove mettere tutto ciò che è troppo – ingombrante, pesante, faticoso, sconvolgente”.

 

 

Scrivere è fare ordine dentro e fuori di sé, stare con consapevolezza dentro uno spartiacque, sin dalla prima pagina di diario, che poggia in bilico su un tratteggio sottile, tra il tempo di prima e quello di dopo, l’ultimo giorno con i capelli lunghi, lo spazio di una soglia, un congedo e un nuovo inizio.

E il libro è disseminato di queste pietre miliari che segnano passaggi, più che traguardi, le fasi di una trasformazione più grande: tagliare i capelli, comprare una parrucca, rasare la testa prima che i capelli comincino a cadere, la prima somministrazione della chemio, con le domande dell’infermiera che si sciolgono in lacrime, un compleanno diverso da tutti gli altri, una giornata al mare.

 

All’inizio del suo viaggio nel labirinto il medico consiglia all’autrice di concentrarsi sugli aspetti positivi, anche i più piccoli, “sui momenti di serenità, sulla bellezza che incontri e che ti viene a cercare”. Si tratta di cambiare modalità di sguardo, imparare a riconoscere nel buio un punto luminoso, rimanere a fissarlo finché questo si allarga e fa luce intorno. “A tutte le fatiche della vita si può rispondere, macroscopicamente, con un no o con un sì”, scrive Sara Oliva Boch, e l’accettazione passa da questo esercizio di trascendenza, dallo scovare uno spiraglio di luce, impegnarsi a riconoscere la bellezza e lasciarsi salvare.

Se la terapia smorza le energie e affatica il muoversi e il desiderare, forzando l’inazione e imponendo di rallentare regala anche il tempo per guardare meglio e più a fondo, e il diario tratteggia le fasi di un percorso di auto-osservazione reso più complesso e allo stesso tempo più efficace dalla progressiva perdita di ogni filtro e difesa.

 

Dalla perdita dei capelli ai cambiamenti che percorrono la propria pelle, imporsi di stare in quello che accade, senza cedere alla tentazione di rifiutarlo, significa non distogliere lo sguardo, ma spingerlo più vicino, soffermarsi su pieghe e dettagli, seguire con occhi compassionevoli e attenti il modo in cui il corpo cede e la propria immagine si fa più nuda e più vera: “non possedere capelli, ciglia, sopracciglia, peli sul corpo mi fa sentire esattamente come sono adesso: gracile, delicata, senza la possibilità di inventarmi qualcosa di diverso, nuda nella verità della mia condizione che richiede pudore e delicatezza. Questa nudità è un atteggiamento, un’azione. Un modo di stare – nel mondo, in me stessa”.

È un esercizio di introspezione e sincerità l’andare così vicino a vedersi davvero e abbracciare la propria verità, come un albero va verso l’inverno spogliandosi di tutto ciò che lo copre, per oltrepassare il tempo che lo separa dal rinascere ancora, è un invito ad accogliere tempo della vita vegetale: “la lentezza ma al tempo stesso la determinazione e la forza di un germoglio o di un seme che viene al mondo, un’andatura della vita che pare quasi immobile ma invece pulsa, cresce [...] mi sento il germoglio di una pianta gravemente colpita che cerca la sua seconda vita”.

 

La malattia rende più onesti, smaschera nascondimenti e costringe a vedere e a sentire, a riconoscere la misura della paura e del coraggio che è possibile contenere, della fatica che è possibile superare; obbliga soprattutto a considerare la morte come una cosa vicina, già parte della propria vita, mentre le cellule muoiono, le cellule buone insieme a quelle cattive e “nel corpo è in atto un processo di morte che si declinerà, poi, in una rinascita, ma intanto il primo passaggio è quello mortifero”.

E in questo passaggio stretto e scuro, accade anche di sentirsi invadere da un senso di gratitudine che si fa spazio (“quello che conta è poter dire ancora grazie, poter ancora amare, camminare, ridere, piangere, sognare, arrabbiarsi, leggere, parlare”) e pone le basi per l’apertura all’altro: “quando si condivide la forma minima della vita attraverso una malattia potenzialmente mortale ci si scopre capaci di costruire legami fatti di autentica, umana, profonda, compassione”, ci si riconosce come compagni che hanno superato la tempesta e ne sono usciti marchiati da una sconfinata bellezza.

 

Così il proposito iniziale di costruire un diario come memoria di un proprio viaggio intimo e personale diventa anche desiderio di “condividere la bussola che mi ha permesso di orientarmi nel labirinto della malattia e dell’esperienza di rinascita che ne è derivata”, rivendicando la scelta di farne guida e maestra di impermanenza, bellezza, compassione, improvvisazione e fiducia.

E, soprattutto, diguardare in faccia la possibilità di finire”, considerare quanto la morte sia parte imprescindibile della vita e come questo comporti una costante occasione di rinascere, “ché mi pare di capire, oggi, che la vita è tanto apicale quanto abissale, tanto luminosa quanto oscurata, tanto fragile quanto robusta; e avverto questa consapevolezza come una grazia del sentire, un’improvvisa ricompensa”.

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