Oltre i limiti del demenziale / Selfie con dirottatore

8 Aprile 2016

Qualche giorno fa, un amico mi ha fatto vedere l’immagine scattata sul volo MS181 della EgyptAir che ritrae il passeggero britannico Ben Innes accanto al dirottatore Seif Eildin Mustafa. Un oggetto frivolo e allo stesso tempo problematico, un impasto di mondanità e terrore come se ne incontrano tutti i giorni, dappertutto. Una di quelle immagini delle quali, a torto o a ragione, si finisce per parlare a lungo, come se nella loro stupidità recassero la traccia di qualcosa d’importante. Ma eravamo di corsa, in mezzo alla strada, e ci siamo salutati subito dopo, senza iniziare veramente a discuterne.

 

 

Arrivato a casa, ho cercato sul Web e ho saputo che il dirottamento si è concluso senza incidenti. Ho letto che l’aeroplano è atterrato a Cipro anziché ad Alessandria.

Ho trovato un’immagine in formato verticale che ritrae due uomini di fronte a una porta dell’aeroplano. Entrambi accennano o sforzano un sorriso. Sopra la camicia e la maglia della salute del dirottatore si riconosce la cintura esplosiva, in seguito rivelatasi finta. Malgrado tutto, in ragione di tutto, il passeggero ammicca, incosciente e consapevole del potenziale virale della sua condizione di vita a rischio. Come rivelerà più tardi, «Ho pensato che se la bomba fosse stata vera non avrei avuto nulla da perdere, e gli ho chiesto se potevo fare una foto con lui».

Se il sorriso stampato e la relativa vicinanza con il dirottatore esprimono un senso di normalità, sono le braccia tese e distese lungo i fianchi e i palmi aperti, aderenti al corpo, a rivelare il pericolo, la misura delle distanze, la prossemica specifica di questo selfie.

 

Come è stato notato subito, anche dai media mainstream, non si tratta a dire il vero di un selfie. La fotografia non è scattata da Innes, ma da una delle hostess dell’aeroplano. Un video realizzato all’interno del velivolo e pubblicato da The Sun restituisce le contingenze che hanno portato alla produzione dell’immagine in questione. Si vede il passeggero indirizzarsi verso la parte terminale del mezzo e rivolgersi gentilmente al dirottatore e alla hostess fuoricampo, fino a quando questi non accettano, con tono divertito e grave al contempo: «We are not joking!».
Si tratta presumibilmente di quella stessa hostess che poco dopo si sarebbe fatta immortalare insieme al dirottatore in una fotografia simile a quella di Innes. Se nessuna delle due immagini è strettamente identificabile come un selfie, è quantomeno possibile riconoscere una pratica di rappresentazione collettiva e reciproca sviluppatasi sull’aeroplano, in concomitanza dell’agente di rischio.

 

 

A chi guarda le immagini e le pratiche che prendono corpo nel campo dei cosiddetti “nuovi media” pensando alle vecchie teorie e alle vecchie pratiche della storia del cinema può capitare di fare pensieri strani, impertinenti. Accostamenti che, nel peggiore dei casi, non c’entrano niente e che nel migliore spingono a guardare da una prospettiva insolita, anacronistica, qualcosa di troppo vicino, troppo semplicemente liquidabile.

Osservando quell’immagine di Ben Innes e Seif Eildin Mustafa che il mio amico mi aveva mostrato sullo schermo del cellulare, ho pensato ad André Bazin.


Ho pensato all’assunto di base del celebre saggio del 1956, Montaggio proibito, che si trova in Che cosa è il cinema?: «Quando l’essenziale di un avvenimento dipende da una presenza simultanea di due o più fattori d’azione, il montaggio è proibito. Esso riprende i suoi diritti ogni volta che il senso dell’azione non dipende più dalla contiguità fisica, anche se essa è implicata» (Garzanti 1999, p. 72).
Ho pensato a quanto è difficile – oggi che ogni immagine è facile, gratuita e naturalmente giusta – condividere con gli studenti il saggio di Bazin e a come, per contro, il “selfie” del passeggero con dirottatore costituisse la più semplice schematizzazione possibile dell’idea baziniana di base e l' ennesima riprova della cogenza del suo pensiero, sul cinema e sull’immagine.

 

Non tanto e semplicemente un' esaltazione del piano sequenza a discapito del montaggio – come scritto in alcuni vecchi manuali – ma la constatazione teorica che in alcuni casi la singola inquadratura (la singola immagine) deve costituirsi come unità narrativa di spazio e luogo: “Quando l’essenziale di un avvenimento dipende da una presenza simultanea di due o più fattori d’azione”, quando l’incontro stesso, la prossimità tra due soggetti o tra due figure costituisce l’elemento semantico ed emozionale determinante, allora questi devono essere mostrati all’interno della stessa cornice, ben vicini.


Che cosa intende esibire del resto un selfie – e un “selfie” come questo – se non il potenziale specifico di una vicinanza?
Come è noto, nell’articolazione degli snodi teorici del suo saggio, Bazin cita diversi film. Così, descrivendo Nanook l’eschimese (1922) di Robert J. Flaherty, che racconta le condizioni di vita e di caccia presso il Circolo polare artico, Bazin mette in evidenza che «Sarebbe inconcepibile che la famosa scena della caccia alla foca di Nanook non ci mostri, nella stessa inquadratura, il cacciatore, il buco e la foca» (ibidem). Poco dopo, in conclusione dell’articolo, cita invece l’opera di Charlie Chaplin e le modalità specifiche che definiscono l’efficacia di una delle più celebri sequenze del suo cinema: «Chaplin, nel Circo, è effettivamente nella gabbia del leone ed entrambi sono chiusi insieme nella cornice dello schermo» (ivi, p. 74).

 

Certo, con questo accostamento si corre il rischio di trivializzare Bazin: la portata teorica di Montaggio proibito si spinge ben oltre i passaggi citati per introdurre quel problema di un’etica dello sguardo cinematografico che avrebbe profondamente ispirato la modernità cinematografica. Ma se tale accostamento con la più triviale delle immagini del mese non aggiunge di certo nulla alla grandezza del pensiero di Bazin, la rilettura di Montaggio proibito ha il merito di invitarci a riflettere sul valore della contingenza in quanto elemento scatenante, tratto semantico decisivo e potenza emozionale caratterizzante i selfie e tutte le pratiche di rappresentazione ad esso assimilabili. Ci invita a osservare lo spazio relazionale tra i soggetti presi all’interno dell’inquadratura: indagare la prossemica che caratterizza i singoli scatti, le posture individuali, l’intensità delle forze presenti in campo e la vettorialità delle azioni e dei gesti.

 

 

Gli esempi presi in considerazione da Bazin esprimono del resto la capacità del cinema di restituire il potenziale narrativo ed emozionale che si instaura a partire dall’incontro con l’animale in quanto altro dall’uomo: la pratica della caccia e dunque la possibilità aperta che l’uomo catturi l’animale o che quest’ultimo riesca a scappare; l’incontro occasionale con una belva feroce e dunque la possibilità di cadere vittima delle sue fauci o di mimetizzarsi, restarle indifferenti, o ancora di riuscire a fuggire.

 

A ben vedere, gli esempi cinematografici proposti in Montaggio proibito e il “selfie” con dirottatore raccontano una storia simile: vi è un agente di rischio – una belva – e vi è un uomo qualsiasi – un passeggero – che, consapevolmente o inconsapevolmente, assume il rischio di porsi accanto ad essa. Vi è una copresenza delle due figure – dei “due fattori d’azione” – all’interno dello stesso spazio-tempo delimitato dall’inquadratura a garantire che lo spettatore possa identificarsi con la situazione narrativa. Vi è infine l’aggressione da parte della belva oppure – come nel caso del “selfie” di Ben Innes – la sua cattura da parte dell’uomo.

 

 

Grazie all’accostamento impertinente con la teoria del maestro della critica cinematografica francese si è parlato del selfie come di un fenomeno tensivo e negoziale, tra l’affermazione della contingenza e la possibilità di un controllo, di una cattura.

 

Alla fine del ragionamento è dunque possibile tornare all’immagine di partenza ed osservare come lo scatto di Innes anticipi e prefiguri la cattura di Seif Eildin Mustafa da parte delle forze dell’ordine cipriote all’aeroporto di Larnaca. A ben vedere, con questa operazione – che si colloca ben oltre i limiti del demenziale – il passeggero Innes si impossessa della scena e sottrae quanto di più ambito e prezioso possegga un dirottatore: l’assoluta visibilità e temibilità del suo gesto. Innes lo relega in secondo piano. Chi è il “vip”? Chi è il protagonista della vicenda? Il ragazzone sulla destra dell’immagine, oppure l’uomo smagrito che indossa una “pancera esplosiva”?


Il dato decisivo è dunque che se negli esempi di Bazin la cattura avveniva mediante le tecniche e gli strumenti tradizionali della caccia e della pesca, mentre l’occhio cinematografico si limitava a testimoniare a distanza l’evolversi degli eventi, la pratica del “selfie” e del “selfie con dirottatore” assegnano all’occhio fotografico stesso una funzione di cattura dell’alterità e di contenimento del potenziale narrativo ed emozionale inquadrato. C’è insomma una normatività del selfie che pre-media e governa il potenziale prossemico di qualsiasi incontro.
Certo, tutto vero, ma non è il caso di generalizzare: non è certo il “selfie” di Innes ad aver sventato l’esplosione in alta quota e la tragedia. Come hanno raccontato i giornali, le ragioni del gesto di Seif Eildin Mustafa sembrano perlopiù attribuibili alla sua instabilità mentale e quella che sembrava una cintura esplosiva non era nient’altro che un legaccio fatto di custodie di telefoni cellulari e cotone idrofilo.


L’ottusità di Ben Innes unita all’efficacia del selfie non possono di certo costituire un modello plausibile di gestione delle emergenze: né sugli aeroplani né sulla terra ferma. Piuttosto, il gesto demenziale del passeggero inglese sembra esprimere un sogno ricorrente di questi anni agitati: che basti avere la faccia tosta e un telefono a portata di mano per mettere ordine, assegnare la giusta prospettiva, al proprio spazio prossemico. Giusto un click and share. Facile come be here now.

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