Collezione Maramotti Reggio Emilia / Papaioannou: le trasformazioni di Sisifo
Un uomo in completo nero percorre lo spazio lungo il suo perimetro sostenendo tra le braccia una pila irregolare di pietre. Nello sfilare lentamente di fronte a noi, mentre assistiamo ai primi minuti di Sisyphus/Trans/Form del regista, coreografo e performer greco Dimitris Papaioannou, sentiamo il respiro di questo primo Sisifo affannato dal peso, intento a raccogliere la forza necessaria alla tenuta dell’equilibrio, concentrato nel resistere a una caduta che è tanto probabile quanto necessaria affinché possa liberarsi proprio di quel fardello. Pochi istanti dopo, nello spazio ampio del secondo piano della Collezione Maramotti a Reggio Emilia, un altro uomo procede curvo, trasportando sulle proprie spalle uno spesso muro grigio che va, passo dopo passo, sgretolandosi. Il suo errare magnetico, che ha per effetto quello di orientare il movimento dei membri del pubblico nello spazio, è anticipato di qualche metro appena da Dimitris Papaioannou in persona anch’egli in completo nero così come gli altri performer di sesso maschile: Christos Strinopoulos, Drossos Skotis, Costas Chrysafidis. Tenendo tra le mani un microfono che amplifica i suoni prodotti dal movimento dei materiali presenti nello spazio, dai passi, dai respiri, dal muro che frammento dopo frammento si sfalda a terra, con un incedere sicuro Papaioannou sposta un carrello che trasporta una lampada, posiziona la luce affinché l’azione sia ben visibile, si allontana. Durante tutta la durata della performance, circa un’ora, la postura del suo sguardo e della sua presenza continua a mutare: rispetto a ciò che accade di fronte ai nostri occhi egli è maestro di cerimonia, collaboratore, garante, testimone.
L’illusione, uno degli elementi chiave attraverso cui l’artista greco conquista il pubblico nei suoi spettacoli per la scena teatrale, nello spazio espositivo diventa il segnale inquietante e allo stesso tempo freddamente giocoso di un’anomalia, qualcosa che pur continuando a mettere in luce l’elegante maestria immaginativa e tecnica che caratterizza il lavoro, allo stesso tempo ne espone spudoratamente il segreto, l’anima; alla stregua di un prestigiatore che, nel mostrarci il suo numero, non si preoccupa di nascondere il trucco. Ci troviamo, nostro malgrado, dapprima voyeur e poi conclamati testimoni di uno svelamento scenotecnico tanto spontaneo e sincero quanto sorprendente, che sovverte ciò a cui il creatore stesso di questa performance ci aveva precedentemente abituati nelle altre creazioni.
Le opere esposte al secondo piano dell’edificio della Collezione Maramotti, aperta dal 2007 e abituata a ospitare creazioni site-specific di danza dal 2009, sono coperte da leggeri teli di plastica lattiginosa e, non evocando nessun desiderio o possibilità di vera interazione contribuiscono a focalizzare l’attenzione su quanto accade nel movimento dei corpi, separando l’agire stesso dei performer non tanto dall’architettura del luogo ma dalla sua funzione principale. In questo modo, la proposta di Papaioannou dimostra di fare proprio un principio di negazione, che ha come esito il fatto che il rapporto tra le opere esposte, che appena intravediamo, e i corpi dei performer, ben illuminati invece da luce calda, non sia un dialogo o un rispecchiamento, ma una sorta di muta compresenza dove, al massimo, delle opere è consentito indovinare una forma. Il silenzio nel quale la performance si svolge mette ulteriormente l’accento sui materiali maneggiati dagli artisti, sulla loro pelle, sui loro costumi.
Nella parte centrale della performance, l’azione si svolge in relazione al muro che i performer portano a turno sulle proprie spalle avanzando; in realtà, si tratta di un blocco di gommapiuma rettangolare ricoperto di gesso e dotato di alcuni tagli centrali da parte a parte che consentono ai performer e poi anche alle due performer – Ioanna Paraskevopoulou e Pavlina Andriopoulou – di attraversarlo, sparendo completamente o solo parzialmente dietro di esso o giocando, come è nella poetica di Papaioannou, con l’apparizione di assembramenti di corpi che compongono immagini insolite, mitologiche e mostruose: uomini e donne con un numero anomalo di arti, forme spezzate, allungate, deviate, metamorfiche o addirittura impossibili che fanno dell’alternanza dei chiaroscuri della luce e delle diverse densità dei materiali utilizzati uno strumento comparabile alla distorsione prospettica nei disegni di Escher. È in questo genere di visioni, infatti, che proviamo quell’eccitazione – che ritroviamo anche nei più recenti spettacoli teatrali di Papaioannou tra cui The Great Tamer del 2017 e Since She creato l’anno successivo per il Tanztheater Wuppertal Pina Bausch – data dal riuscire a “vedere” qualcosa che altera la regolare esperienza percettiva innovando la realtà con nuove possibilità e impossibilità formali. Il gioco magico della visione è un’instancabile articolazione tra pieni e vuoti, tra materiali leggeri e pesanti, tra rigidità e leggerezza, tra la carne dei muscoli e le ossa dello scheletro, tra materialità e spirito.
Nel presentare il suo primo lavoro site-specific, Dimitris Papaioannou non nasconde come questo sia per lui un esperimento. Nell’incontro con il pubblico l’artista ha espresso i suoi dubbi in merito alla presenza di performance negli spazi espositivi: «Sono molto scettico quando la danza entra nel museo contemporaneo ed essa ha luogo di fronte alle opere. Non sono sicuro dove questo inizi a essere un dialogo e dove, invece, sia una decorazione» e il suo ragionamento sembra, infine, racchiudersi nella domanda: «Che cosa c’è di male nel teatro?». Nel teatro non vi è nulla di male, senza dubbio, ma è indubbio come tra le dinamiche estetiche, partecipative, curatoriali e organizzative proprie degli spazi espositivi contemporanei e le corrispondenti dinamiche delle arti dal vivo esista ormai un assodato sincretismo che ci permette oggi di attraversare questi diversi ambienti e contesti con una liquidità tale da non farci comprendere se siamo visitatori, spettatori o collaboratori partecipanti, quasi co-autori, di una performance. Questo non toglie che, come Albert Camus nel suo saggio su Sisifo, anche Papaioannou possa interrogarsi profondamente sul senso del suo “esserci” in un determinato ambiente, specialmente quando questo è diverso dalla scena, suo spazio d’elezione.
Tuttavia, con il suo dichiarato riferimento al mito di Sisifo e alla riflessione che questo trasmette sul senso e sull’assurdità dell’esistenza, Papaioannou sembra volerci dire, senza polemica, come lo spazio espositivo sia per lui uno spazio dove dar voce e corpo al dubbio svelandone l’anatomia dell’agire, giocando a carte scoperte proprio laddove l’operare artistico è non solo convenzionalmente messo “in mostra”, ma anche preservato dall’usura del tempo. Sisyphus/Trans/Form è la dimostrazione della connessione per così dire “fatale” tra le azioni e i loro effetti, ovvero quel punto in cui è possibile osservare, specialmente nell’organicità dei corpi danzanti, come la responsabilità si fondi nella libertà del volere nonostante tutto; come Sisifo che nel mito si trova a dover risollevare il masso ogni volta da capo. Egli non solo vuole, ma può sostenere il suo destino. E non solo può, ma pure, a quanto pare, vuole.
Così Dimitris Papaioannou alla Collezione Maramotti ha presentato la sua prima performance site-specific, dialogando con una realtà desiderosa di avere al proprio interno delle performance di danza e che già può annoverare una storia di programmazione performativa di alto livello (Trisha Brown Dance Company, 2009; Shen Wei Dance Arts, 2011; Wayne McGregor | Random Dance, 2013; Hofesh Shechter/Shechter Junior, 2015; Saburo Teshigawara_KARAS,2017) costruita insieme a Max Mara e alla Fondazione I Teatri. Come affermato dalla coordinatrice della collezione Sara Piccinini: «Reggio Emilia è una città dove la danza occupa un posto importante, essendo anche la sede storica di Aterballetto. Max Mara, anche prima della nascita della Collezione Maramotti, ha sempre supportato l’arte. C’è un interesse a creare dialoghi tra la danza e la nostra collezione, per attivare nuove visioni. Per il pubblico della danza, invece, può essere interessante confrontarsi con scenari diversi e con l’architettura, che ha un carattere specifico. Desideriamo lasciare la massima libertà ai coreografi. Circa un anno prima fanno un sopralluogo per confermare il loro interesse a lavorare qui. In quel momento noi diamo loro tutte le informazioni sulla collezione, se lo desiderano, e sugli spazi. A volte il coreografo ci anticipa qualche idea. Sapevamo che Papaioannou aveva deciso di utilizzare il secondo piano e dei materiali piuttosto ingombranti. Ci ha chiesto di coprire le opere con un materiale con cui è abituato a lavorare oltre a essere un materiale protettivo per le opere esposte. I danzatori sono sempre consapevoli del proprio corpo, per noi invece è più difficile tutelare le opere dal movimento giustamente imprevedibile e aleatorio del pubblico che si muove per seguire la performance. Da quando abbiamo iniziato a fare queste esperienze, quando vedo le performance mi rendo conto che quello cui sto assistendo è unico e irripetibile. L’unicità della danza è un aspetto molto forte e si contrappone all’arte visiva e alla sua possibilità di essere conservata stabilmente nel tempo».
Con chiarezza, la performance sembra addensarsi intorno a riflessioni sull’esperienza artistica come luogo di una tensione passionale, di un’agonia, ma anche sul senso dell’esistenza, sull’assurdo e sul mistero dell’agire, sulla responsabilità dell’artista, sulle prassi del teatro come «arte pura» e sulla danza come arte dell’azione che, come quella di Sisifo, è desiderosa di futuro e per questo si rivolta al senso sciogliendosi dalla costrizione della finalità.
Fotografie di Julian Mommert