Radici e fioriture politiche. Singspiele di Maguy Marin
“Per il lavoro di ricerca attraverso il corpo e lo spazio, che di volta in volta è andato a costruire un atlante di scoperte dove il senso dell’arte ha rivelato la complessità dell’uomo contemporaneo, mettendo in relazione i sentieri dell’umano con gli spazi necessari della ricerca coreografica. Il corpo della danza e il senso dell’apertura al mondo, al pari di uno scavo continuo attraverso gli elementi primari quali la luce, il tempo, la materia e il suono. Dunque un corpo politico nel senso di una continua e rinnovata presenza attraverso il corpo, di una perlustrazione incessante dove le cose si riversano l’una nell’altra”. Queste le parole con cui, nel 2016, alla Biennale Danza diretta da Virgilio Sieni veniva attribuito il Leone d’Oro alla carriera a Maguy Marin. Ricerca, corpo, spazio, complessità, mondo, materia, politica, e presenza sono alcune delle parole chiave che meglio racchiudono i suoi quasi cinquant’anni di carriera. Ultimo “leone” della direzione di Sieni, Maguy Marin è l’artista cui Reggio Parma Festival dedica, nel corso di tutto il 2023, un ampio focus intitolato La passione dei possibili con numerosi eventi che, iniziati a maggio, continueranno fino a metà dicembre, quando verrà presentato lo spettacolo Umwelt al Teatro Regio di Parma, il film-documentario di David Mambouch UMWELT, de l’autre côté des miroirs e le coreografie Duo d’Eden e Grosse Fugue al Teatro Ariosto di Reggio Emilia, portati in scena dalla MM Contemporary Dance Company di Michele Merola.
Il programma-omaggio a Maguy Marin del festival, patrocinato dall’Ambasciata di Francia in Italia, nasce dalla sinergia delle istituzioni culturali dei territori di Parma e Reggio Emilia e coinvolge i Comuni di Parma e Reggio Emilia, la Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, Fondazione Teatro Due e Fondazione Teatro Regio di Parma. Oltre a presentare in prima nazionale la sua ultima creazione, Deux mille vingt trois, e alcuni dei suoi spettacoli più importanti, l’intero programma ritrae il percorso di Maguy Marin, danzatrice formata alla scuola Mudra di Maurice Béjart e, pochi anni dopo, tra le prime a vincere il famoso concorso di coreografia di Bagnolet, nel 1978. Il suo nome figura, insieme a quello di Dominique Bagouet, tra i più significativi esponenti della cosiddetta “Nouvelle Danse” francese, una corrente composita di coreografe e coreografi che ha animato la scena contemporanea in particolare tra il 1980 e il 2000, a partire dagli anni Settanta. Molte sono le linee comuni agli artisti che vengono riconosciuti facenti parte di questo gruppo: una formazione iniziale in danza classica lasciata, spesso, grazie all’incontro con altre discipline artistiche e una vocazione per un’idea più ampia ed eterogenea dell’arte della scena. Alcuni sono diventati direttori e direttrici dei centri coreografici nazionali creati in Francia proprio all’inizio degli anni Ottanta, ma al di là delle caratteristiche stilistiche individuali e delle cariche istituzionali che hanno ricoperto nel corso del tempo, ci sono questioni più fondanti e più intrinseche alle loro diverse poetiche che riguardano l’organizzazione del lavoro, la gestione dell’autorialità a fronte di interpreti non più “esecutori” ma co-creatori degli spettacoli, i rapporti con le comunità di riferimento e con le istituzioni. Ciò che ha reso in un certo senso “speciale” ed emblematica questa generazione di artisti è il fatto di aver dovuto concretamente negoziare delle posizioni allo stesso tempo artistiche e politiche adeguatamente coerenti e assimilabili dalle istituzioni centrali francesi, posizioni nate dalla tensione tra i valori egalitari emersi intorno al Sessantotto e la gestione del potere che lo Stato, di fatto, assegnava ai singoli artisti, direttori e direttrici. Tutto questo è avvenuto, nell’eccezionalità di quei decenni, nella doppia prospettiva della valorizzazione inedita dell’arte coreografica contemporanea, da un lato, e della decentralizzazione territoriale, dall’altro. In questo senso, sono interessanti da osservare, dell’arco temporale di massima espressione della Nouvelle Danse, molti aspetti sociologici della danza come, per esempio, gli avvicendamenti del rapporto tra la dimensione collettiva (spesso la compagnia era pensata, infatti, come un ensemble dedito a una ricerca comune) e quella individuale (poiché proprio in questi anni è emersa con decisione la “singolarità” dei danzatori e delle danzatrici contemporanei in contrapposizione alla pura “disciplina” omogeneizzante della tradizione della danza classica).
Il percorso di Maguy Marin nasce proprio in questi anni in cui la danza è stata, ancora più inevitabilmente, politica. Nel suo caso si riconosce, inoltre, il proposito chiaro di un pensiero che non si distoglie mai dalla concretezza del reale, cui la coreografa affida, in un certo senso, il potere di stimolarla a pensare e a creare. Le sue opere, che spesso sconfinano tra danza e teatro, nascono da gestazioni ogni volta diverse e stratificate, in cui letture, studi, esperienze personali e “di compagnia”, oltre alla ricerca coreografica in sala prove, si fondono. Il mondo, ascoltando Maguy Marin nell’incontro-conversazione con il filosofo Olivier Neveux che si è tenuto al Teatro Due lo scorso 25 novembre, appare sia come un oggetto da comprendere a fondo attraverso lo studio sia come una fonte di ispirazione continua, che permette di mettere a fuoco ciò di cui è necessario, concretamente, parlare. L’artista non si sottrae alla responsabilità di prendere posizione, iniettando nel suo lavoro una postura da attivista libera da qualsiasi gabbia estetica. La sua postura d’artista, senza ammantarsi di alcun misticismo, è un incrocio tra quella della studiosa e quella del medium, che canalizza le istanze del contesto in cui si trova. Ascoltando Maguy Marin si ha l’impressione che, pur avendo volato alto, i suoi piedi non si sono mai staccati da terra. Lo spettacolo May B, creato nel 1981, riceve un riconoscimento planetario e le apre la strada per arrivare alla direzione del centro coreografico di Créteil nel 1984. A seguire, nel 1998, il trasferimento nel nuovo centro coreografico di Rilleux-la-Pape, nella complessa banlieue di Lione, apre una nuova stagione di ricerca e infine si arriva al presente, in cui le sue produzioni iniziano, a partire dal 2017, a prendere in alcuni casi come titolo gli anni stessi in cui sono state create. È questo il caso sia di Deux mille dix-sept sia dell’ultima produzione in cui la coreografa affronta, abbandonando qualsiasi istanza coreografica, il tema del capitalismo contemporaneo. Nei suoi spettacoli, testo, parola e corpo sono strumenti che coesistono e partecipano alla trasmissione di un messaggio che non si pone come insegnamento ma come condivisione di una sensibilità. Il suo lavoro è stimolo all’adozione di una postura, di una prospettiva sulla contemporaneità. La sua padronanza del dispositivo teatrale è tale per cui ogni movimento corporeo, ogni suono e ogni parola sono iscritti dentro un quadro drammaturgico-ritmico che contiene, sostiene e presenta il lavoro creativo.
In questo senso, avere la possibilità di rivedere in scena Singspiele, creato nel 2014, permette di adottare una prospettiva sul decennio appena trascorso, un decennio in cui ogni aspetto della vita sociale è stato toccato dalla predominanza dell’immagine, in particolare attraverso le tecnologie e i social network. Tuttavia, nello spettacolo, creato da Maguy Marin per e con David Mambouch, che ne ha curato anche i suoni, non vi è alcun riferimento diretto a questa dimensione della contemporaneità, ma la questione dell’immagine e del riconoscimento è osservata attraverso una prospettiva analogica, tanto essenziale quanto potente. Singspiele è andato in scena al Teatro Due di Parma che, nell’ambito del focus Maguy Marin di Reggio Parma Festival, non solo ha ospitato spettacoli, tra cui Nocturnes, ma ha anche riconfermato la propria vocazione alla valorizzazione della memoria delle arti sceniche e della trasmissione ospitando una mostra dei materiali d’archivio di Maguy Marin, Le travail à l’épreuve, un incontro-conversazione tra la coreografa e Olivier Neveux e una formazione di due settimane per giovani artisti dal titolo Può sempre servire, tenuta da Maguy Marin con il danzatore Ulises Alvarez.
Singspiele incarna una riflessione sul volto radicata nella lettura di Emmanuel Lèvinas che, in Totalità e infinito, designa il viso come porta di accesso, nuda, dell’alterità. Oggetto della ricerca e della riflessione in questo spettacolo sono i volti intesi come soglie, porte accoglienti e pre-culturali dell’umanità di sconosciuti e famosi, anonimi o riconoscibili, uomini e donne, giovani e vecchi, che attraversano quotidianamente e si offrono allo sguardo di ognuno. In scena, David Mambouch si muove su una pedana rettangolare stretta, delimitata nella parte posteriore da un muro sul quale sono appesi, in corrispondenza di semplici postazioni con appendiabiti, simili a tre “camerini”, una serie di capi d’abbigliamento eterogeneamente assortiti. David Mambouch si muove con grande precisione da destra verso sinistra, lentamente e progressivamente, su tutta la linea orizzontale della scenografia tenendo tra i denti un pannello-maschera delle dimensioni di un A4 dal quale, uno alla volta, staccherà uno dei 60 fogli che ritraggono altrettanti volti. Su ciascun foglio, in bianco e nero, è riprodotta la fotografia di un viso che, per qualche minuto, ricompone l’insieme di questo corpo che, altrimenti, si muoverebbe sulla scena “senza testa”. Ogni volta che si compone una nuova associazione corpo-volto, il movimento dell’artista in scena cambia, informato dal connubio tra gli abiti che via via indossa e ciò che comunica il viso che sta “indossando” in quel momento. E così rivive ogni volta un nuovo ritmo, una texture espressiva, per così dire, che racconta una possibile “alterità” umana. L’azione accompagna il pubblico in questa collezione di identità immortalate che, nel loro silenzio, evocano storie, confini e possibilità. Nella sua danza cieca, con la vista completamente ostruita dalla maschera-pannello, Mambouch organizza il movimento con esattezza, sapendo evidentemente con certezza dove le sue mani incontreranno i capi d’abbigliamento appesi, le scarpe, il bicchiere d’acqua, la bottiglia, e allo stesso modo dove i suoi piedi e il suo corpo si trovano rispetto allo spazio, ristretto ma comunque aperto, della performance. Tra una sessione e l’altra, ritmata da una pausa ogni venti volti incarnati dal performer, la maschera per un breve momento si abbassa, dando spazio a un tempo di riposo, in cui il performer può bere, liberare lo sguardo che va incontro a quello del pubblico, umilmente, pronto a indossare una nuova serie di identità. Singspiele è una performance complessa perché, oltre alla complessità tecnica dell’azione, c’è un’implicazione profonda, e politica, sulla questione del volto e sull’identità dell’artista in scena, che concede di prestare il suo corpo non alla messa in luce della propria interpretazione, ma a una serie di processi di incarnazione in cui la sua identità è sempre messa da parte. Qui, l’interprete si presta interamente al servizio di qualcosa di diverso da sé e torna in filigrana il pensiero di Lèvinas che ha riconosciuto all’ontologia occidentale, dai Greci in poi, per così dire, una “egologia” che ha indebolito la possibilità dell’alterità favorendo, in sintesi, l’idea di un’universalità dell’essere. Quando le luci si spengono, rimane il dubbio vertiginoso di non riuscire interamente ad abbracciare la profondità del lavoro di Maguy Marin, come se ci fosse sempre, ancora e ancora, qualcosa da esplorare. È inesauribile, Maguy Marin, così la sua danza, il teatro, la parola, il testo, il suo pensiero e il mondo che, nel corso della sua carriera, ha minuziosamente costruito.
In copertina, Singspiele, di Maguy Marin, ph. Andrea Morgillo.