Un dialogo su Transverse Orientation / Dimitris Papaioannou: tra tecnica e magia
Un’esperienza teatrale impressionante sotto ogni aspetto. Sul finire del 2021 il coreografo greco Dimitris Papaioannou ha firmato una nuova creazione, Transverse Orientation, uno spettacolo allo stesso tempo complesso ed essenziale che corrisponde a un’ora e quarantacinque minuti di poetico magnetismo. Dopo Napoli, Reggio Emilia e Torino, questa produzione, che presenta una lunga lista di co-produttori e organizzazioni di supporto alla produzione italiani e stranieri, è stata presentata dal 28 al 30 gennaio al Teatro Argentina, palcoscenico storico del Teatro di Roma – Teatro Nazionale, e come anteprima del Festival Equilibrio della Fondazione Musica per Roma, che nel 2022 rinasce rinnovato dalla direzione artistica di Emanuele Masi.
Nato da un percorso creativo che, come moltissimi altri, è stato interrotto dalle limitazioni dovute alla pandemia, Transverse Orientation presenta al pubblico una collezione continua di azioni che ipnotizzano lo sguardo. La nota maestria di Dimitris Papaioannou nel generare invenzioni sceniche raggiunge, in questa nuova proposta, una dimensione meno estroversa e forse per questo ancora più compiuta. La grandiosità dell’intreccio visivo dello spettacolo, fondato come è sua abitudine sul contrasto originario del bianco e del nero, trova un suo accomodamento maturo, un passo che concede ai diversi quadri in scena anche ritmi interni più pacati, meno sostenuti rispetto a quelli che caratterizzano altri suoi lavori precedenti come The Great Tamer (2017).
Il susseguirsi delle diverse scene è una festa che non finisce, c’è il corpo, dans tous ses états e in tutte le sue forme, e la dimensione concreta della realtà che diventa, materia dopo materia e oggetto dopo oggetto, la presenza ‘altra’ che dal mondo circostante va verso l’essere umano. Il dialogo tra questi due poli, che si potrebbe definire tra i due estremi della carne e della materia, è un dialogo che non si esaurisce e anzi stimola nell’uno e nell’altro soluzioni visive, sonore, coreografiche e di senso sempre nuove in quanto sempre rinnovabili. Sul piano tematico c’è, anche qui, un mondo di possibilità che si apre senza mai richiudersi su sé stesso. Così, la mitologia si fa azione concreta e il suo passaggio sembra creare lo spazio per una dimensione altra, anche più leggera, ironica e sorniona. Tutto questo è confezionato con due strati protettivi che insieme formano la superficie più esterna che lo sguardo del pubblico incontra: una sensibilità estremamente fine dei corpi è avvolta dalla più sottile e liscia verniciatura finale. La scena si riscopre così perfettamente sacra, liturgica, un luogo dove nulla è casuale e nel quale ogni singolo elemento è oggetto di un pensiero sensibile e lucido. Il bianco contiene in sé e protegge il nero, il nero conserva e illumina il bianco.
Ho incontrato Dimitris Papaioannou la mattina successiva alla première romana. È stata l’occasione per ritrovare, dalla mia precedente intervista con lui, la chiarezza del suo pensiero e la semplicità con cui riesce, a parole, a trasferire il senso e il suo punto di vista sul suo lavoro, ma non solo.
Avendo avuto l’opportunità di seguire l’evoluzione del suo lavoro nel corso del tempo, mi sembra di poter considerare che esso presenta due parole chiave importanti: ‘magia’ e ‘tecnica’, due possibili estremi entro i quali si muove la sua arte.
La sorpresa e l’illusione sono elementi che mi interessano molto perché rappresentano l’acrobazia della percezione e della dissezione che siamo in grado di operare. Quando le raggiungiamo si apre una certa porta della nostra sensibilità che riconduce all’infanzia. Questo non significa che uno spettacolo pieno di effetti sia necessariamente buono, ma nel modo in cui desidero raccontare una storia mi piace utilizzare questo tipo di realtà che inganna. Tuttavia, ciò che dico attraverso i miei spettacoli è altro.
Quando entra in gioco il pensiero del pubblico nel suo processo creativo?
Lavoro per me stesso, come spettatore, e per un paio di amici molto severi nei quali ho fiducia e che mi incutono timore. Una produzione è una serie di scelte. Quando faccio una scelta mi chiedo come la percepirei se fossi seduto tra il pubblico. Cerco di essere molto esigente con me stesso, e mi sforzo di creare qualcosa che sia il più possibile chiaro. Quando incontro il pubblico, alla prima dello spettacolo, inizia una nuova fase in cui il lavoro prende forma di fronte alla reazione degli spettatori. Quando vedo lo spettacolo con il pubblico ci possono essere dei momenti in cui mi sento in imbarazzo. Il giorno dopo torno in teatro e lavoro su quei momenti, ci rilavoro. Rifinisco e rilavoro i miei spettacoli continuamente, a volte aggiungo qualcosa, a volte tolgo. La cosa importante per me è osservare come mi sento in presenza del pubblico. Cerco di provare piacere e non imbarazzo.
Il processo di creazione di Transverse Orientation è stato interrotto dalla pandemia. In che modo questa circostanza ha influito su questo spettacolo?
Ho avuto più tempo per pensare e, poiché l’interruzione è stata molto lunga, nel frattempo ho accettato la proposta di creare un altro lavoro, Ink, in cui sono in scena con uno dei performer di Transverse Orientation. In questo modo ho esaurito il mio desiderio di essere sul palcoscenico io stesso e di esprimermi. Quando sono tornato in sala prove per il nuovo spettacolo mi sono tolto dal cast. Così la creazione ha perso il suo narratore e ha potuto fluttuare in maniera più libera.
C’è spazio per il testo nella sua idea di teatro?
Sì, semplicemente non so lavorare sul testo. Ho lavorato a lungo con un regista greco molto importante del passato in qualità di responsabile dei movimenti di scena degli attori. In Grecia abbiamo una grande tradizione di teatro di parola, ma non è il mio campo. Se fossi in grado di farlo integrerei la parola nei miei lavori.
Come crede che le nuove generazioni vivranno il teatro dopo la pandemia?
Non ho mai pensato che raccogliersi per vivere un’esperienza sociale comune, come è l’arte, possa essere qualcosa di superato o cancellato. Fa parte della nostra società, le persone ne hanno bisogno. Non credo che le tecnologie o il Metaverso potranno cancellare tutto questo. Mi sento parte di una generazione giurassica, dunque credo di fare esperienza delle cose a modo mio. Uno degli aspetti che più mi lusinga è vedere spettatori e spettatrici sempre più giovani che vengono a vedere i miei spettacoli.
Entrando nel merito della coreografia di Transverse Orientation, ho percepito chiaramente come il rapporto con la luce fosse costantemente vivo e vivido. Mi chiedevo come avete lavorato fisicamente per raggiungere questo stato della presenza scenica così cosciente della luce, in dialogo con essa.
Non mi sono concentrato su questo specifico elemento, credo sia un effetto secondario del lavoro. Il gruppo con cui lavoro è talentuoso, i performer presentano tutti grazia naturale, tecnica, sensibilità e una grande etica del lavoro. Ora siamo all’incirca all’ottantesima replica, abbiamo lavorato e rilavorato moltissimo, così tanto che forse a un certo punto scompariremo dentro al lavoro stesso!
La scena finale dello spettacolo, in cui le assi del palcoscenico vengono sollevate dai performer in scena e da sotto appare uno specchio d’acqua, fa pensare alla crisi climatica e allo stato di emergenza ambientale nel quale viviamo.
Ci abbiamo pensato, mentre creavamo lo spettacolo. Abbiamo immaginato che questa scena sarebbe stata letta in diversi modi, come lo scioglimento dei ghiacci, come le rovine della civiltà… C’è tutto questo, ma non voglio limitarmi a un solo significato. Come un diamante ha tante facce, anche qui ci sono tanti elementi da prendere in considerazione.
“L’orientamento trasversale” in natura definisce il modo in cui si orientano gli insetti volanti che tengono la luna come punto di riferimento per potersi spostare in linea retta. Come siete arrivati a questo titolo?
Stavo cercando un titolo e non era facile… Tutti i titoli dei miei spettacoli sono stati scelti dal mio costume designer, Aggelos Mendis, un artista che ammiro molto e che penso sia geniale. È il padrino di tutti i miei spettacoli. Quando mi ha suggerito questo titolo ho iniziato a guardare allo spettacolo attraverso la lente di queste parole, di questo concetto, e mi è sembrato appropriato.
Le fotografie sono di Julian Mommert.