Festival Equilibrio, la danza e i corpi degli altri
Scrivere di danza significa, di fatto, occuparsi di corpi. Innanzitutto, serve assistere con assiduità alla loro presenza, alle molteplici forme attraverso cui la vitalità umana, nei corpi e nei loro spazi, si manifesta e appare. Nella danza, si considera l’agire della figura come opera d’arte. Da questa prospettiva è possibile osservare i corpi, raccontarli, studiarne i movimenti anche alla luce del percorso storico nel quale si iscrivono, della memoria che evocano. Corpi in movimento, ritmici. Corpi simili e dissimili. Iconici. Diversi. Corpi tesi nello sforzo, nella resistenza, nello slancio. Corpi abbandonati, immobili come sculture. Eppure, è doloroso e difficile oggi apprestarsi a questo esercizio, parlare di corpi che danzano al sicuro, in teatro e in scena, protetti nello spazio privilegiato dell’azione performativa e della rappresentazione.
A invadere lo sguardo, e il discorso, vi sono altri corpi. Altri, che per alcuni sono i corpi degli altri, gli estranei. Corpi di cui non parlare, e possibilmente da non vedere. Corpi che premono per entrare nella stessa prospettiva di un testo che parla di danza, di altre danze. Corpi in pericolo e corpi in salvo si fronteggiano da una parte all’altra del mio discorso. Intrattenimento culturale e salvezza. Corpi da guardare, quelli del teatro, corpi che fanno voltare lo sguardo da un’altra parte, quelli riversi tra le onde, sulla spiaggia, allineati nelle bare, in una palestra, dopo il naufragio.
Ecco un’altra assonanza che fa tremare le mani: il cordoglio ha luogo proprio in una palestra, uno spazio che da luogo di formazione, di prove, di esercizio del corpo, si presta a luogo di raccolta. Come parlare ancora di danza, di corpi, dopo l’ennesima tragedia? Di quali corpi è possibile e giusto, ancora, parlare? A poche ore dal naufragio, su “la Repubblica”, Paolo di Paolo ha scritto un articolo il cui titolo giustamente fa riferimento a noi, spettatori “persi nell’apatia all’ennesima puntata dell’inaccettabile”.
E da qui si deve partire, dalla pungente consapevolezza che ogni riga sarà di fatto fuori luogo, frutto di un privilegio ormai più che ingombrante. Uno spazio enorme sembra separare il mio sguardo di spettatrice dalla realtà, mentre penso alla danza, agli spettacoli. I corpi assolvono, involontari, un ruolo di straziante denominatore comune. Gli spettacoli e la danza in scena, da qui, catalizzano pensieri che partono dal corpo e lentamente vi fanno ritorno dopo aver attraversato uno strato di realtà ancora una volta francamente insopportabile.
In un saggio di Byung-Chul Han dal titolo Cultura come patria, il filosofo sudcoreano riflette sul tema dello straniero a partire dalle Lezioni sulla filosofia della storia di Hegel, nelle quali proprio l’arrivo degli stranieri corrisponde alla scintilla che ha permesso la nascita della cultura greca. Anche la cultura delle arti coreografiche, arti corporee e spirituali, testimonia, guardandola nel suo rizomatico insieme, della possibilità che proprio l’Estraneo ne sia stata e ne sia ancora oggi, in fondo, la componente costitutiva e propulsiva. Un evolvere nel tempo che si nutre della diversità. Il problema, se così lo si può definire, è che una volta consolidata sul piano spirituale, l’eterogeneità viene espulsa, buttata via. Una volta assorbita e fatta propria la differenza, quello che accade con una cultura che in qualche modo pensa di bastare a sé stessa, è l’affacciarsi della possibilità di una condizione di rigor mortis. La fine.
Sembra venirci in soccorso, di fronte a questa impasse corporea e del pensiero che caratterizza la nostra cultura europea, lo spettacolo Ink A Play for Two del coreografo greco Dimitris Papaioannou presentato da Teatro di Roma – Teatro Nazionale e Fondazione Musica per Roma – Festival Equilibrio. In scena al Teatro Argentina in una seconda versione che approfondisce quella del 2020, troviamo lo stesso coreografo insieme a un giovane performer, Šuka Horn. La scena è invasa dall’acqua.Molti degli elementi che fanno parte del vocabolario registico di Papaioannou si presentano nel corso dello spettacolo: oltre all’acqua, le trasparenze dei materiali utilizzati, le illusioni, oggetti di scena manovrati con minuziosa esattezza e una gestione del movimento del corpo che mette in dialogo autenticità e scrittura del movimento inserendoli in un continuum plastico e visivo.
Un corpo giovane e un corpo maturo, due vasi comunicanti che si spingono vicendevolmente ad attraversare qualcosa di indicibile in una sequenza di immagini complesse e dalle numerose letture. Il lavoro evoca e attraversa un’enciclopedia di archetipi e riferimenti colti, dall’arte di Hokusai al cinema di Kubrick passando per Bosch, Rubens e Beuys, per citarne solo alcuni. L’elemento che racchiude tutti gli altri, in un abbraccio quasi uterino, è l’acqua, tantissima, che accompagna i performer durante l’intero spettacolo: elemento primordiale o strumento di relazione, la dimensione fluida è il ponte che collega e divide tutti i possibili mondi. Complice un dispositivo scenico poetico e potente, il pubblico attraversa senza alcun pericolo una marea di immagini indelebili, segni forti dell’incarnazione di un approccio mediterraneo all’acqua, all’altro da sé, alle profondità del nero e alle possibilità della luce che formano una sorta di iperspazio culturale coreografico che, a differenza della realtà, può sfidare anche la violenza senza per questo implodere su sé stesso.
Guidati dalla musica dal vivo di Daniele Roccato, i corpi dei danzatori di Virgilio Sieni in Le tue labbra – Sul Cantico portano in scena una raccolta di movimenti dettagliati, denudati di ogni forma di orpello estetico. La danza crea la condizione affinché con l’Altro si generi una relazione profonda, viscerale. È un duetto, una danza d’insieme notturna, interiore, che sollecita l’ascolto e, a valle del presente, ci parla della necessità di ricominciare a riconoscerci l’un l’Altro. Il tema biblico di questo spettacolo, anch’esso nel programma del Festival Equilibrio e del suo “Focus Sieni” realizzato in collaborazione con Orbita | Spellbound Centro Nazionale di Produzione della Danza, richiama il discorso più ampio sull’alterità che sembra interessare profondamente molte delle creazioni contemporanee in danza.
A seguire, in questa selezione tratta dal programma del Festival Equilibrio di Roma, tre produzioni di nazionalità francese che hanno presentato linguaggi, posture e tematiche molto diverse tra loro. Tra queste, il coreografo Angelin Preljocaj e la sua compagnia hanno portato in scena una serata caratterizzata da accostamenti inaspettati. Deleuze/Hendrix è un possibile ritratto dell’epoca di Woodstock che segna il tempo e marca la differenza con l’attuale. La coreografia, caratterizzata da un’attitudine anni Settanta, si muove alternandosi su musiche di Jimi Hendrix e sulle registrazioni audio di un corso che il filosofo Gilles Deleuze tenne nel 1981 all’Université de Vincennes. L’alternarsi di due sonorità così diverse, tra discorso universitario e chitarra elettrica, produce nei corpi e nella scrittura coreografica l’emergere di diverse intensità espressive, quasi che il corpo, col suo movimento e il suo immaginario, fosse l’elemento di congiunzione deputato a far dialogare l’alto e il basso, lo spirituale e il materiale, l’interiorità e l’esteriorità.
Il coreografo Olivier Dubois ha presentato con la sua compagnia una nuova versione di Tragédie, produzione del 2012 qui riproposta come “new edit”. La struttura dell’azione consiste, prima che il movimento si disfi in una danza liberatoria finale, in ossessive camminate perpendicolari alla platea che vedono diciotto danzatori nudi, uomini e donne, entrare e uscire in scena da una tenda fluttuante posta sul fondale. La musica elettronica costella le camminate e determina un ritmo che, molto presto, diventa anche interiore, oltre che drammaturgico. Il tempo dello spettacolo si rivela, volendo, una meditazione sul tempo, sulla presunta normalità del gesto quotidiano, ma non scalfisce un’omogeneità – corporea, espressiva, culturale – che, oggi, ci fa leggere questo spettacolo come appartenente a un tempo precedente a tanti discorsi sul corpo e sui corpi che hanno animato l’ultimo decennio.
Come se dentro Tragédie si potessero vedere decine di altri spettacoli visti in questo periodo, Dubois ci riporta spediti davanti all’annosa domanda dell’urgenza. Se è vero tutto quello che accade nella nostra realtà quotidiana, che cosa può la danza? Che cosa può, forse, sollecitare? Senza necessariamente auspicare una cultura della coreografia totalmente orientata dai temi sociopolitici, è comunque necessario provare a dare agli spettatori e alle spettatrici la possibilità di non trovare, a teatro, un senso di conferma e di continuità con l’esterno che, a ben guardare, potrebbe quasi risultare claustrofobico. È davvero questo l’unico mondo possibile?
Infine, a chiudere questa rosa di compagnie francesi, il Ballet de l’Opéra de Lyon ha presentato The Collection, una riedizione dello spettacolo FOLK-S che Alessandro Sciarroni ha creato per il corpo di ballo lionese. A differenza della performance originaria del 2012 – che diede inizio alla trilogia del coreografo italiano sul tema del tempo composta da Untitled del 2013 e Aurora del 2015 e insisteva maggiormente sulla propria dimensione durational sia sul piano della resistenza fisica che su quello dell’estensione temporale – qui il vocabolario dell’antica danza popolare bavarese Schuhplatter si affina e trova una nuova definizione, per certi aspetti più inquadrata e coreografica, ma anche più trasparente.
La Schuhplatter dei danzatori del Ballet de l’Opéra de Lyon è misurata, ma non per questo si evita che dalla pelle possa apparire una dimensione espressiva che sa spaziare dal commovente al comico, passando attraverso il tragico. L’esercizio sul tempo si fonde, alla luce dell’oggi, con un esercizio sul senso e sulla forza della presenza dell’altro che, tra le pieghe della ripetizione dei movimenti, si fa supporto, condanna e confronto.
Un’ultima breve nota, a Festival Equilibrio concluso, riguarda la città di Roma e la situazione dei suoi spazi culturali dedicati, in particolare, alle arti performative. È una nota dolente, purtroppo. Si avvicenda da troppo tempo una situazione di apparente stallo che si spera possa presto trovare una nuova, chiara definizione. È urgente che si possano avere delle risposte. Nel frattempo, una lettera è stata sottoscritta da centinaia di persone – con l’auspicio e la richiesta che Roma torni ad essere centro capace di accogliere la diversità, la ricerca artistica e la presenza vitale dei corpi.
L’ultima fotografia ritrae un momento di Ink, di Dimitris Papaioannou, foto Julian Mommert.