Berlinale 2018 / A volte (i traumi) ritornano

23 Febbraio 2018

È da qualche tempo a questa parte che ricorre sempre più spesso nel dibattito pubblico il termine di “trauma”. Eppure è raro che a una parola così gravida di conseguenze venga dato tutto il peso concettuale che meriterebbe. Quello che infatti non viene mai abbastanza sottolineato è che il trauma non è solo un’esperienza scioccante e violenta i cui segni permangono in modo indelebile nell’esperienza del soggetto, ma riguarda anche, e forse ancora di più, il modo in cui questi stessi segni si iscrivono, con degli esiti spesso paradossali e tutt’altro che prevedibili.   

 

Gira una storia ad esempio, davvero agghiacciante, riguardo agli eventi di Parigi del 13 novembre 2015 su una giovane donna sopravvissuta al massacro del Bataclan. Madre dalla condotta di vita priva di eccessi e di estrazione sociale medio-alta, questa donna aveva iniziato dopo pochi giorni dall’evento traumatico a presentare una serie di sintomi assai singolari. Continuava a ritornare più volte e di nascosto sul luogo dell’attacco terroristico visitando da sola a tarda notte i locali attorno al Bataclan con delle serate colme di eccessi (alcol, droghe, esperienze sessuali con sconosciuti), a cui seguivano puntualmente attacchi di senso di colpa. Il trauma cioè si era iscritto nella forma di una coazione a ripetere di eccesso di godimento pulsionale.   

 

 

Lungi dal relativizzare la portata del trauma, questo evento ne mostra semmai il surplus di radicalità e gravità, perché ci fa vedere come il suo processo di risoggettivazione sia in realtà sempre singolare e presenti un’opacità tutt’altro che liquidabile con l’esperienza della violenza fisica. Viene in mente a riguardo la geniale interpretazione che diede Slavoj Žižek di uno di traumi più celebri della storia recente nel libro Benvenuti nel deserto del reale all’indomani dell’attentato alle Twin Towers. Secondo il filosofo sloveno ciò che era davvero sconvolgente di 9/11 non era tanto il numero di morti o la scala devastante di un attacco violento che veniva scatenato da un “fuori” verso il suolo americano, ma il grado di familiarità di quell’immagine. La distruzione delle torri gemelle era infatti già stata “immaginata” dal cinema hollywoodiano in diversi film catastrofici negli anni precedenti: era cioè un evento che era già stato “pensato” e inconsciamente “desiderato” più volte e che era già presente all’“interno” dell’immaginario americano. Il vero aspetto devastante insomma non era il fatto di venire da “fuori” (da una civiltà “incompatibile” con quella occidentale) ma era l’effetto di ritorno del proprio incubo nel reale. E vedere compiersi nel reale quello che già si era immaginato inconsciamente è la più efficace definizione di quello che si è solito chiamare “incubo”. 

 

Per questi motivi è interessante notare come nonostante l’enorme impatto simbolico che hanno avuto i diversi attentati terroristici avvenuti in Europa negli ultimi anni, il cinema si sia sempre mosso in modo molto circospetto sulla possibilità di mettere in scena questi eventi. Tutti abbiamo pensato a come si deve essere svolta la sparatoria del Bataclan, il pullman lanciato sulla folla a Nizza, l’attentato suprematista bianco in Virginia, la sparatoria di Sandy Hook… e tuttavia il loro re-enactment di finzione non può che provocare una sensazione di paura e quasi d’oscenità. Perché nel rimetterlo in scena rischiamo non tanto di essere incapaci di dargli una rappresentazione fedele, quanto di dare corpo ai nostri fantasmi inconsci, di dire qualcosa di noi stessi. Di dare cioè concretezza a uno degli incubi sotterranei più diffusi dell’immaginario occidentale contemporaneo. 

 

 

È per questo che è così interessante discutere di Utøya 22. juli di Erik Poppe, il film appena presentato alla Berlinale, che ha provato a rimettere in scena il massacro compiuto dal militante di estrema destra Anders Breivik il 22 luglio 2011 nell’isola di Utøya e nel centro di Oslo in Norvegia. Gli eventi sono noti, appena due ore dopo lo scoppio di un’autobomba nel quartiere dei palazzi del governo norvegese dove morirono otto persone e 209 rimasero ferite, un uomo in abiti militari aprì il fuoco su un gruppo di giovani che si erano riuniti per il summer camp dell’AUF (Arbeidernes Ungdomsfylking), il movimento giovanile affiliato al Partito Laburista Norvegese, sull’isola di Utøya, nel Tyrifjorden. Morirono 69 persone e ne furono ferite 110, di cui 55 in maniera grave. Fu l’atto più violento mai avvenuto in Norvegia dalla fine della seconda guerra mondiale.

 

Come ci possiamo immaginare un evento del genere? Cosa devono avere provato i ragazzi che campeggiavano a Utøya e che da un momento all’altro si sono trovati assediati su una piccola isola da un uomo armato fino ai denti che cercava unicamente di ammazzare il maggior numero possibile di persone? La risposta del regista Erik Poppe è molto chiara: il modo in cui ci immaginiamo un trauma di questo tipo è quello di ridurlo a un’esperienza, nella sua dimensione quasi fisica. Utøya 22. juli ci mostra infatti un lungo piano sequenza che dura il tempo esatto che ha impiegato Breivik a sparare all’impazzata a chiunque si muovesse sull’isola: 72 minuti. 

 

Il film decide di metterci in mezzo all’azione: seguiamo una ragazza, Kaja, lungo tutto il tempo dell’attentato. La macchina da presa le sta appiccicata, corre con lei, si mette sdraiata a terra quando Kaja tenta di ripararsi dai colpi dei fucili, e poi ancora scappa, si nasconde, si fa prendere dal panico, si gira a destra e a sinistra per vedere da dove possa venire il pericolo. L’esperienza filmica è di una rara efficacia eppure che c’è qualcosa che inevitabilmente sembra sfuggire del nocciolo traumatico di quell’evento. E ce lo dice il regista stesso dato che fa iniziare il film da un’inquadratura con sguardo in macchina della protagonista che guardando il pubblico dice “voi non potete capire”. Subito dopo ci si rende conto che in realtà Kaja stava parlando con i suoi genitori tramite gli auricolari del telefono, e tuttavia l’effetto di “buco della finzione” rimane. Ma forse è vero che qualcosa di quell’evento non può che rimanere fuori campo? Forse è vero che non possiamo dire niente dell’attentato di Utøya che non sia semplicemente una sensazione di paura? È davvero l’unico sguardo possibile quello di un’esperienza immersiva di panico? 

 

Molti si ricorderanno della scelta che fece Gus Van Sant in Elephant, dove il massacro di Columbine veniva sì visto attraverso dei lunghi piani sequenza, ma dove soprattutto a colpire non era tanto la sensazione di panico, di terrore, di frenesia quanto quella placida e ininterrotta di un mondo dove era scomparsa la punteggiatura significante, dove tutto poteva diventare il contrario di tutto (la stessa scena passava da un punto di vista all’altro senza stacchi di montaggio) e dove era impossibile occupare un punto di vista di verità. Gus Van Sant insomma decideva di “mettere in forma” cinematografica l’esperienza di un attentato terroristico deprivato di senso, mentre l’idea di Utøya 22. juli è quella di assumere un punto di vista interno caratterizzato dall’impossibile simbolizzazione: quello della vittima nel momento in cui viene presa dal panico. 

 

Il problema forse sta proprio nella volontà di voler guardare l’evento traumatico dal punto di vista della sua realtà, senza realizzare che ciò che c’è di veramente perturbante di un evento non è l’esperienza in sé, ma il suo processo di simbolizzazione e di mediazione inconscia. Anche se ogni volta – soprattutto quando si tratta di azioni militari del fascismo islamico – la via d’uscita più comoda è sempre quella di ridurle all’intrusività di un estraneo o di una civiltà presuntamente altra (come se nel capitalismo fosse davvero possibile un altro), quello di cui questi eventi parlano è della nostra identità soggettiva. Che è poi l’unico estraneo di cui c’è davvero da avere paura. 

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