Akropolis: testimonianze ricerca azioni / Il grado zero del movimento?

29 Novembre 2018

Dall’8 al 18 novembre 2018 si è svolta a Genova la nona edizione del festival Testimonianze ricerca azioni di Teatro Akropolis, che ha dato inizio a tre stimolanti progetti tematici che si svolgeranno nel triennio 2018-2020: danza Butō, circo contemporaneo, danze tradizionali e popolari del Sud Italia. Chi scrive ha avuto modo di assistere a parte dei lavori inscritti nel primo dei tre percorsi progettuali, ossia Clorofilla di Alessandra Cristiani, Vie de Ladyboy Ivan Ilitch di Masaki Iwana e Enduring Freedom di Imre Thormann. C’è stata poi l’occasione di presenziare ai tre spettacoli di giovane danza d’autore selezionati alla vetrina Anticorpi XL (Chenapan di Maxime & Francesco, Non ricordo di Simone Zambelli e Kokoro di Luna Cenere), nonché alle due prime assolute di Campo. Alphabet: progetto di scrittura per una danza possibile del Gruppo Nanou e di Safe Piece di Valentina Campora.

 

 

Parlare nel dettaglio di questi lavori è un’impresa rischiosa e, forse, del tutto inutile. La ragione non è tanto il fatto che sarebbe in sé impossibile raccontare che cosa è successo e quali fossero gli obiettivi di ciascun artista. Nel caso della Cristiani, di Iwana e di Thormann, sarebbe anzi lecito e fecondo studiare la poetica della danza Butō che li accomuna, individuando al contempo le loro differenze in fatto di orientamento e di stile, che possono anche divergere radicalmente. Ciò costituisce un po’ l’analogo di chi studia – in ambito di storia della filosofia – il Platonismo: una corrente dottrinale in cui si può individuare la matrice comune del pensiero di Platone, ma al cui interno accade che i vari aderenti si distinguano tra loro per alcune fondamentali scelte di campo, o per la loro differente interpretazione del magistero platonico.

 

Quanto ai lavori degli altri artisti sopra nominati, si potrebbero spendere molte parole per descrivere i loro scopi poetici. Così, per annotare solo alcune sintetiche e approssimative osservazioni, Campo del Gruppo Nanou si propone di costruire una grammatica o un sillabario della danza, esplorando attraverso uno scavo di parole come “territorio” e “relazione” le possibilità ancora da scoprire di quest’arte. Chenapan è una performance di una coppia di due artisti (Francesco Colaleo, Maxime Freixas) che studiano la dimensione ludica del danzare e le sue inesauribili risorse creative, mettendo in scena due monelli che giocano a passi di danza sulla scena, usando anche oggetti di scena che mutano continuamente la loro natura – un bastone di legno diventa, col gesto di giocare, anche una nacchera, una spada, un ponte, e via dicendo. Non ricordo di Zambelli lavora sul concetto del ri-cordare, ossia di ritrovare nella memoria del cuore esperienze che si credevano perdute e che riaffiorano per il tramite del movimento. Kokoro crea una composizione coreografica di un corpo nudo e al buio che vuole rappresentare, con movimenti minimi e quasi impercettibili, i moti altrettanto invisibili dell’interiorità. Infine, Safe Piece mette in scena una danza che Campora costruisce sul momento, cioè senza averla preparata in partenza, entrando in relazione immediata sulla scena con la musica suonata all’improvviso di Andy Moor e con i movimenti imprevedibili dei suoi figli (Milo di 1 anno, Elio di 5), determinando così una performance al tempo stesso esteticamente rigorosa e felicemente anarchica.

 

 

La vera motivazione che preclude di approfondire troppo nel dettaglio questi lavori è semmai di natura concettuale. Tutti i lavori di questi artisti selezionati da Akropolis sono accomunati da un obiettivo paradossale: l’ambizione a non esprimere nulla, o a creare il vuoto e il silenzio attraverso il movimento danzato/giocato. Per usare delle parole forse meno connotate e più semplici, ma proprio per questo poco precise, il loro scopo comune non è tanto quello di veicolare delle idee definite e meno che mai delle tesi, bensì destare delle impressioni nello spettatore. A loro volta, tale impressionismo non intende significare qualcosa: vuole evocare qualcosa di rarefatto, come la solitudine dell’io interiore, un desiderio inconfessato per qualcosa di irraggiungibile, un abbandono a un gioco divertente e senza domande, che le espressioni e le movenze troppo nette o ordinarie non riescono a creare. Ciò è almeno il punto che viene esplicitamente teorizzato dagli artisti Butō, per esempio da Masaki Iwana con lo scritto The Intensity of Nothingness, in cui il movimento è descritto come il paradossale mezzo per raggiungere l’immobilità e l’espressione come la via regia per il non-senso, in cui vengono meno alcuni distinzioni canoniche come sacro e profano, alto e basso, maschile e femminile. (Per inciso, il suo Vie de Ladyboy Ivan Ilitch costituisce, in parte, la concretizzazione scenica di questo principio). Ma il discorso potrebbe anche essere applicato agli obiettivi apparentemente diversi degli altri artisti. L’atto del Gruppo Nanou di tematizzare le parole della danza – ossia di un’arte che è per sua essenza muta – non è meno paradossale del Butō definito da Iwana, perché aspira a dire un indicibile. Non ricordo e Kokoro esplorano le relazioni dell’intimità, dell’interiorità e del sentimento, ossia esperienze che sono per loro essenza ineffabili, vengono spesso dimenticate e non passano del tutto attraverso le parole. Per quel che riguarda il gioco di Chenapan e Safe Piece, esso non ha infine altra ambizione che il giocare stesso: non vuole significare né comunicare né produrre altro da sé.

 

Un tale proposito comune e paradossale è tuttavia destinato allo scacco. Per poter dire o pensare il nulla e il vuoto, anche il movimento dovrebbe essere cavo e un niente. È evidente, però, che questo è semplicemente contraddittorio sul piano teorico e irrealizzabile a livello pratico. Persino il danzatore che cerca di non comunicare idee e tesi sta comunicando involontariamente qualche idea o tesi: prima di tutto, la sua ambizione alla non-comunicazione, o la sua insoddisfazione verso il modo ordinario di comunicare. E il movimento che rasenta l’immobilità, il silenzio, il vuoto è pur sempre un moto con un suo peso, una sua durata, un suo suono e una sua collocazione spaziale, sia pure molto piccoli. In altri termini, l’espressione e i movimenti di questi danzatori distruggono in partenza l’oggetto che si sono proposti di indagare. Il loro atto artistico ha riempito di suoni e movimenti l’ambiente prima libero insonoro o immobile. Danzare compromette necessariamente il silenzio, muoversi rompe per forza l’immobilità, persino il gioco non può fare a meno di produrre degli effetti diversi da sé, come il piacere di chi guarda attori, danzatori, bambini che giocano, o una temporanea distrazione dalle attività “serie” (lavorare, guadagnare, pianificare, ecc.) della vita.

 

 

Proprio a causa di questo scacco inevitabile, il discorso critico o filosofico non può andare oltre la constatazione del fallimento del danzatore, che comunque non va interpretato in senso deteriore. C’è infatti una grande vitalità nei lavori di tutti gli artisti nominati, che giustifica il loro atto incosciente e contraddittorio. Se ad esempio il discorso critico-filosofico cercasse di approfondire troppo la dimensione del gioco di Chenapan e di Safe Piece, lo inscriverebbe in una logica troppo seria, dunque non parlerebbe più della qualità ludica. O ancora, se cercasse di spiegare come gli artisti Butō provano a esprimere il nulla e a muoversi nell’immobilità, non farebbe a sua volta che incorrere a sua volta in una contraddizione: tenterebbe di spiegare a parole il silenzio o il vuoto o il nulla attraverso il peso e la materia del pensiero. Se già gli artisti falliscono pur gloriosamente nel proprio intento, il critico o il filosofo che studia il loro lavoro fallisce nel comprendere la bellezza del loro gesto fallimentare. Il suo sarebbe un fallimento nel fallimento: la radice cubica dell’errore.

Tale constatazione apre dunque la possibilità di un percorso alternativo. Si potrebbe porre, infatti, a partire dalle premesse poste, la domanda che segue. Che cosa c’è di così fascinoso nei concetti di vuoto, di silenzio, di nulla che induce tutti questi artisti a intraprendere un percorso votato allo scacco e al fallimento? Nessuna persona sana di mente intraprende, del resto, un’impresa che sa essere del tutto impossibile. A meno di non concludere che gli artisti sono dei pazzi e degli incoscienti, ci deve essere una plausibile ragione di questa apparente bizzarria. Le povere considerazioni che seguiranno provano a dare una pur insufficiente risposta.

 

Una prima plausibile soluzione alla domanda viene in realtà data dagli stessi direttori artistici di Teatro Akropolis (Clemente Tafuri e David Beronio). Un altro comune denominatore che essi individuano nei lavori di danza che hanno selezionato è «il rapporto diretto con l’espressione primordiale degli uomini». Come infatti il primitivo eseguiva i gesti «apparentemente inutili eppure necessari, vitali, sani, belli» di rappresentare con le pitture nelle caverne la loro caccia e di cantare le loro vittorie sulla natura, così l’artista di oggi cerca con i suoi lavori di raggiungere questa vitalità, questa salute, questa bellezza con attività forse più elaborate, ma spiritualmente analoghe a quelle antiche. La loro proposta è, in termini più astratti e generali, che è naturale per l’essere umano danzare, perché in questo gesto ricava la propria soddisfazione, o addirittura la propria felicità. Applicando questo principio all’espressione paradossale del vuoto, del silenzio e del nulla, possiamo supporre che il danzatore tenta di far ciò (fallendo e incorrendo in un ginepraio di contraddizioni) per il semplice fatto che l’impresa lo rende felice.

Mi pare che tale proposta sia altamente condivisibile. La premessa implicita del loro discorso è, infatti, che tutti noi – danzatori inclusi – vogliamo essere felici: cosa che verrebbe ammessa persino da un bambino o da un demente. La danza sarebbe in tal senso un metodo di ricerca della felicità.

 

 

Nello stesso tempo, però, penso che si possano sollevare anche due difficoltà. La prima è che il loro «comune denominatore» è talmente appunto “comune” da poter includere ogni cosa e il loro contrario. Volendo, anche uno spettacolo non-artistico e di puro intrattenimento può essere ricompreso nella logica del bisogno naturale o “primitivo” di espressione. Anche al gesto del cabarettista potrebbe essere sotteso, infatti, l’impulso salutare, vitale e bello che accompagna l’umanità sin dalle sue origini. In questo senso, l’arte perde la sua specificità e non viene più distinta da forme di espressione non-artistiche. La seconda difficoltà consiste, in realtà, in un’omissione. Beronio e Tafuri potrebbero chiedersi: che cos’è questa vitalità, salute, bellezza che è procurata dalla danza? Per estensione, se l’attività coreografica ambisce alla felicità, in che cosa consiste quest’ultima? Non c’è forse problema più urgente, dibattuto, inquietante e irrisolto di questo, perlomeno per noi esseri mortali, ignoranti e infelici. Dopo tutto, se fossimo dèi indissolubili, sapienti e beati, forse non proveremmo interesse verso la danza. Invece di esprimere il silenzio, il vuoto e il nulla, resteremmo silenziosi e immobili e inattivi, perché non avremmo una perfezione da inseguire e che ci manca.

 

Queste obiezioni non hanno, per inciso, alcun intento denigratorio o polemico. Sono anzi un segno di stima da parte di chi scrive e che, per molti aspetti, condivide la ricerca di Akropolis. Forse l’unica ragione sensata per dedicarsi alla critica è quello di accendere dibattiti e sollevare questioni sulla ricerca artistica in corso. Lo stesso critico dovrebbe essere più contento di ricevere, a seguito delle sue formulazioni, più dubbi che applausi, più domande che conferme. Non c’è condizione più povera dello scoprire che le proprie ricche idee sono nel giusto, perché a quel punto la ricerca si è arrestata e non c’è più ragione di continuarla insieme.

Tornando dunque alla questione di cui sopra, possiamo riformularla nel modo che segue. Che tipo di soddisfazione ricava il danzatore che cerca di esprimere il vuoto, il silenzio, il nulla, diffondendolo peraltro sugli spettatori convenuti? E come si distingue, ammesso che se ne distingua, da altre forme di espressione di tipo non-artistico? Per tentare di rispondere, vorrei provare a fare un’apparente digressione, il cui senso spero risulti chiaro più oltre.

 

 

Nel capitolo Esiste una scrittura poetica? di Il grado zero della scrittura di Roland Barthes, il semiologo tenta di descrivere la specificità della parola poetica, distinguendola dalle forme convenzionali o non-poetiche del discorso socializzato. La sua proposta è che, mentre quest’ultimo si muove sempre in un orizzonte di senso già dato e instaura dei rapporti già noti tra i vari significanti/significati, la poesia si apre di contro all’ignoto e a nessi non ancora esplorati e previsti: «la parola poetica non può mai essere falsa perché è totale; brilla di una libertà infinita e si appresta a irraggiare verso mille incerti e possibili rapporti». Poco più avanti, Barthes aggiunge che il linguaggio viene così «ricondotto a una sorta di livello zero, pregno insieme di tutte le specificazioni passate e future. (…) Ogni parola poetica è così un oggetto inatteso, un vaso di Pandora da cui s’involano tutte le virtualità del linguaggio; essa è perciò prodotta e consumata con particolare curiosità, per una specie di sacra golosità. (…) Istituisce un discorso pieno di zone buie e pieno di luci, pieno di assenze e di segni inesauribilmente significativi, senza previsione né permanenza di intenzione». Nel capitolo finale di Il grado zero della scrittura (L’utopia del linguaggio), Barthes arriverà persino a proporre che la parola poetica così definita ha effetti rivoluzionari. La poesia cerca di rompere la quiete del linguaggio convenzionale e socializzato perché avida «di una felicità delle parole; e così si spinge verso un linguaggio sognato la cui freschezza, per una specie di ideale anticipazione, potrebbe rappresentare la perfezione di un nuovo mondo adamitico dove il linguaggio non fosse più alienato».

 

Ora, se sostituiamo “parola” con “gesto”, “linguaggio” con “moto”, “poesia” con “danza”, penso che il discorso di Barthes si possa benissimo attagliare al discorso del teatro Butō e a tutti gli altri amici artisti che hanno dato il loro contributo nel festival di Teatro Akropolis. Traducendo in termini positivi il discorso negativo di prima, potremmo supporre che i danzatori che cercano il vuoto, il silenzio, il nulla non aspirano genericamente a generare un movimento, ma un movimento poetico. Essi forse ambiscono a un analogo del grado o livello zero della scrittura del poeta: un grado o livello zero del movimento. I danzatori in questione ricercano il silenzio, il vuoto, il nulla nel senso che vogliono farsi «libertà infinita», che si apre a nessi e rapporti imprevedibili. Ogni loro gesto coreografico e poetico è poi il tentativo di esplorare tutte le virtualità del movimento, che nella dimensione ordinaria o quotidiana si limita alla ripetizione bruta di poche azioni divenute automatiche e meccaniche (camminare, calciare, correre, ecc.). Infine, questa loro idea di danza può forse avere la stessa funzione rivoluzionaria della poesia secondo Barthes, che stavolta però ambisce a una «felicità del movimento».

 

Simile al poeta, il danzatore del vuoto, del silenzio, del nulla sogna l’utopia di un muoversi del corpo non più alienato, in altre parole di un corpo che si è riappropriato di sé stesso e delle sue infinite possibilità creatrici.

Forse è dunque questa la felicità aperta dal danzatore: la riappropriazione di sé stessi e, in termini conoscitivi, l’abbandono dei movimenti già collaudati e l’apertura verso l’ignoto, o verso l’utopia del movimento puro e perfetto. L’atto di portare le proprie facoltà espressive verso il silenzio, il vuoto e il nulla rende insomma felici perché dota di una libertà più alta rispetto a quella concessa dalle attività ordinarie, o anche da quelle che cercano il potere, la ricchezza e il dominio del mondo: questa piccola palla che non smette mai di girare e che va incontro a un inesorabile disfacimento, anche per nostra incuria.

Vacua e superflua in sé o per un dio sapiente, la danza è invece essenziale e necessaria per noi. Quanto meno, lo è nella misura in cui non vogliamo solo sembrare felici e liberi, ma esserlo davvero. La danza è la poesia del movimento che cerca una felicità ancora a venire.

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