Un diario del tempo in rete / La vita sociale dei media

12 Gennaio 2019

In questi primi giorni dell’anno, gli unici, insieme a quelli centrali d’agosto, in cui la vita scorre un po’ più lenta e ricevi meno email del solito, mi sono accorto di aver speso più tempo del solito a consumare media di varia natura e ho provato a tenere un diario quotidiano del tempo speso con i media e in che modo ho speso questo tempo. È un esercizio per le vacanze che avevo assegnato ai miei studenti del corso in Big data, media digitali e società che tengo all’università di Siena, un esercizio che ho preso in prestito (se non quasi integralmente riprodotto) dalla ricercatrice americana della Aarhus University Annette Markham, che ha pubblicato un articolo scientifico su questo metodo: Critical pedagogy as data literacy.   

 

L’idea è quella di rivolgere lo sguardo su di sé in maniera critica, prendendo coscienza, cioè portando in primo piano, delle pratiche quotidiane legate al consumo dei media e di quanto queste pratiche producano flussi di dati che non controlliamo.

Ma via via che compilavo questo diario, mi sono reso conto di qualcos’altro, che non aveva a che fare con la politica dei dati, bensì con il nostro rapporto quotidiano, intimo e fertile, con i media e quanto questo rapporto fosse strettamente intrecciato alle persone che fanno parte della nostra vita.

Presi nel flusso delle attività quotidiane, non facciamo caso alla quantità di tempo che spendiamo a consumare “media” né alla qualità o all’utilità di questi contenuti. 

Bene, per alcuni giorni ho provato a misurare non solo la quantità di tempo dedicata ai media nella mia vita, ma anche la qualità di questo tempo, cioè cosa ne avevo tratto, cosa aveva prodotto in me questo consumo.

 

Ne è venuta fuori una brevissima e superficiale, auto-etnografia, di cui questo breve diario è solo l’inizio.

Ho scoperto di aver passato, in media, 1 ora e 35 minuti al giorno davanti allo schermo dello smartphone, a fare varie cose, ma soprattutto a leggere articoli di giornali online, scambiarmi messaggi, in media, in 8 chat differenti su WhatsApp, un paio di messaggi su Messenger, un paio di tweet, venti minuti a scorrere foto su Instagram e altrettanti per i post su Facebook. 

A questo tempo speso davanti a un piccolissimo schermo, si sono aggiunti vari minuti di ascolto della radio, al mattino, durante colazione, e alla sera, mentre cucinavo. Ascoltavo il giornale radio di Radio Popolare e la musica di BBC 6 o Fip, il canale musicale della radio pubblica francese.

Ma la maggior parte del tempo l’ho speso a lavorare davanti allo schermo del computer, e lì, tra una pausa e l’altra dal lavoro, ho letto altri articoli, visto altri video e il tempo giornaliero di consumo di media è salito a circa tre ore e mezza (che è più o meno il tempo che ogni giorno, mediamente, viene dedicato dagli italiani alla sola visione della televisione). A queste tre ore e mezza aggiungiamo il tempo, circa un’ora al giorno, che ho dedicato alla lettura del libro Un’odissea, di Daniel Mendelsohn, e del fumetto Il cammino della Cumbia, di Davide Toffolo. Fanno in tutto quattro ore e mezza della mia giornata, su circa quindici ore da sveglio. Quasi un terzo della mia giornata se n’è andato nell’utilizzo di tecnologie che hanno mediato la relazione tra me e diversi aspetti del mondo reale e di finzione.

Ma non vi sto raccontando questo per provocare in voi un senso di indignazione, o per farmi compatire. Poverino, come è solitaria la sua vita (a dire il vero mi viene in mente mia nonna, quando d’estate, a 9 anni, rimanevo chiuso in casa a leggere I ragazzi della via Pal mentre lei mi urlava dietro: “Ma esci fuori, c’è il sole. Che stai a fa chiuso in casa?”).

 

Queste quattro ore e mezza non sono ore buttate al vento, o rubate alla vita sociale. A pensarci bene, in queste quattro ore e mezza, ho imparato una quantità enorme di cose. Se riflettessimo su cosa abbiamo imparato, anche dalla visione di contenuti più trash su You Tube, dal nostro consumo quotidiano di media, ci accorgeremmo di quanto essi sono importanti, di quanto diano forma alla nostra conoscenza sul mondo e di quanto – e questa è la cosa più importante e rivelatoria – ci tornino utili per la nostra vita sociale.

Quando ieri sera, prima di andare a letto, ho finito di compilare la lista delle cose viste/lette/ascoltate durante il giorno, mi sono meravigliato della quantità di cose che avevo imparato e che non sapevo, soltanto quindici ore prima. Ma la cosa più importante, è che la maggior parte di questi contenuti mediali, mi sono arrivati addosso tramite le persone con cui interagisco ogni giorno. È la rete sociale in cui siamo immersi, a spingerci verso determinati contenuti mediali. 

 

Opera di KangHee Kim.


La giornata è iniziata in bagno con la visione di un documentario di 12 minuti su You Tube, che un mio amico mi aveva consigliato menzionandomi in un tweet:  A radio station for nostalgic cowboys, la storia di un deejay solitario che trasmette musica country in uno sperduto paesino del Texas, pubblicata da The Atlantic.  A pranzo ho finito di vedere, insieme a mia moglie, un documentario sull’artista cinese Cai Guo Qiang, che un’amica comune ci aveva consigliato la notte di Capodanno: Sky Ladder. L’arte di Cai Guo Qiang mi ha spinto a cercare su You Tube altri video su di lui. A quel punto, mentre tornavo a lavoro dopo pranzo, ho ricevuto la newsletter di Internazionale, e sono finito a leggere un reportage bellissimo sul film che Antonioni aveva girato in Cina nel 1972: Sulle tracce di Michelangelo Antonioni in Cina di Junko Terao. Visto che ero sul sito di Internazionale, ho finito per leggere un altro paio di articoli (Baghdad si libera dei muri, di Zuhair Al Jezairy e Il viaggio illustrato di Emiliano Ponzi) e ho scoperto che la mappa della metropolitana di New York era stata disegnata dal 1972 dal designer italiano Massimo Vignelli; poco dopo per lavoro ho pescato dalla newsletter del South China Morning Post un articolo su Tencent, una delle corporation mediali più importanti del mondo. Su Twitter un’amica aveva rilanciato il video di Ocasio Cortez che balla adolescente sulle note di Lisztomania dei Phoenix e a sera, quando mia moglie è tornata, la prima cosa che mi ha detto è stata: “Hai visto il video di Ocasio Cortez?” e ci siamo messi a parlare di quello. La nostra relazione durante la cena è stata avviata da un video su Ocasio Cortez, è proseguita cucinando e commentando le notizie che giungevano dalla radio, e poi, mentre mangiavamo, mia moglie ha trovato un post su Facebook di un’amica che parlava di un programma radiofonico, abbiamo seguito il suo link e ci siamo ritrovati ad ascoltare in podcast, una dopo l’altra, le quattro puntate della serie New York orizzontale, di Francesca Berardi, trasmessa su Tre Soldi da Rai Radio Tre, che raccontava la storia di queer, dropout e sottoproletari americani che per sopravvivere raccolgono lattine tra i rifiuti di New York. 

 

Alla fine di quel giorno ne sapevo un po’ di più su una serie di aspetti del mondo contemporaneo e tutto questo grazie a una complessa rete di interazioni tra oggetti fisici (libri, fumetti), oggetti digitali (tweet, post, video, podcast) e umani (gli amici che postavano link o suggerivano cose). I media hanno una loro vita sociale, alimentano relazioni, discussioni, litigi e innamoramenti. Sono come un tessuto connettivo, un lubrificante, della vita sociale. Ogni giorno ci nutriamo avidamente, senza averne troppa coscienza, di un complesso cocktail di media, che coinvolge giornali, app, libri, schermi, radio, telefoni e persone, tante persone. 

Se cominciamo a vederli in questo modo, i media non sono altro che oggetti situati dentro il flusso delle nostre interazioni sociali, embedded, incastrati lì, a mediare continuamente i nostri rapporti sociali, il nostro essere socievoli. Nella vita satura di media che conduciamo ogni giorno, siamo così abituati ad essi che non ci accorgiamo della loro presenza. Siamo come quei pesci evocati da Foster Wallace nel suo famoso discorso “Questa è l’acqua” pronunciato agli studenti del Canyon College nel 2005: i media per noi sono come l’acqua per i pesci, non abbiamo coscienza della loro presenza. Eppure vi siamo immersi. È dalla complessa rete di familiari, amici, conoscenti, sconosciuti e media, che impariamo a navigare il mondo, a stare in società. 

 

Quello che leggiamo/guardiamo/ascoltiamo quando usiamo questi media è importante per la nostra vita tanto quanto quello che ingeriamo sotto forma di cibo. Ma una ricca dieta mediale, come una dieta alimentare, non è semplicemente il frutto di una prescrizione di un medico. È invece il frutto delle reti sociali in cui siamo immersi. Alcuni studiosi americani hanno dimostrato che le famose filter bubble dei social media fossero reali soprattutto per coloro che hanno reti sociali molto ristrette numericamente e omogenee socialmente. Questo significa che quello che mangiamo, dal punto di vista mediatico, dipende dalla nostra classe sociale d’appartenenza, dal tipo di istruzione della nostra famiglia, dalla cultura dei nostri amici e conoscenti. 

 

C’è un digital divide molto più sommerso e sottostimato rispetto al digital divide più discusso, ed è quel divario nel consumo dei media che deriva dalle varie forme di diseguaglianza sociale. 

Una società sempre più diseguale nella distribuzione della ricchezza come quella italiana, dove la mobilità sociale (e quindi la possibilità di muoversi tra le culture di diversi gruppi sociali) è ridotta, è anche una società con reti sociali limitate e omogenee per i più poveri, non solo di capitale economico, ma anche di capitale sociale. Il capitale culturale e mediale è proporzionale al nostro capitale sociale: più la nostra rete sarà piena di amici provenienti da diversi contesti, più conoscenze, più scoperte culturali, più musica, più informazione acquisiremo sul mondo. Allo stesso modo, quello che assumiamo dai media, ci tornerà utile per la nostra vita sociale: gli “oggetti” mediali (un video su You Tube, un articolo online…) hanno una vita sociale, li utilizziamo soprattutto per socializzare ciò che sappiamo e ciò che ci appassiona.

Combattere le diseguaglianze sociali e il classismo significa anche permettere alle persone di nutrirsi meglio e di più attraverso i media, accelerare la propria conoscenza e allargare ancora la propria rete sociale. 

 

P.S. prima della pubblicazione di questo articolo, abbiamo avuto uno scambio su questi temi con la redazione di doppiozero, che sosteneva che questa mediatizzazione della vita quotidiana va a scapito della profondità del pensiero; è un altro tipo di pensiero, utile ma appunto diverso. Prosegue uno dei redattori, nei commenti: “Non credo che chi impiega tanto tempo come fai tu con i media possa arrivare a scrivere un saggio come accadeva a Adorno o a Heidegger. Non per mancanza di sapere ma per eccesso. Discorso lungo lo so, ma leggendo il libro di Maryanne Wolfe, Lettore, vieni a casa, mi sono convinto che qualcosa del passato, che ci era mentalmente possibile, non lo sarà più nel futuro”.

 

Vorrei prendere ancora due minuti al lettore arrivato fin qui per chiarire che non sono né un difensore, né un critico di questa mediatizzazione, cerco solo di comprenderne l’impatto sulla vita sociale, sia in termini positivi che negativi. Concordo con il redattore, di sicuro questo stile di vita va a discapito della concentrazione e di sicuro questa mediatizzazione della vita quotidiana ci fa “perdere tempo” e diminuisce la capacità di dedicare attenzione prolungata a qualcosa. Ne vedo gli effetti su di me, che ci sono cresciuto dentro. Ma queste “distrazioni” rappresentano solo l’ultimo anello di una lunga serie di “distrazioni” (se così vogliamo considerarle) facilitate dai media. Le ore dedicate ai media non sono aumentate esponenzialmente, è l’oggetto mediale a cui si dedica attenzione ad esser cambiato: meno televisione, meno giornali, più internet, più app, meno libri fisici, meno cinema, più piattaforme audiovisive. Chi invece fa un lavoro intellettuale, da sempre, combatte con le distrazioni e cerca di trovare del tempo per isolarsi e dedicarsi a una sola cosa, per un tempo prolungato. È ancora possibile. Ciò che provo a sostenere in questo articolo è che queste "distrazioni" possono essere anche molto fruttuose per la conoscenza, e che la loro capacità di essere fruttuose dipende molto dall'ambiente sociale e culturale in cui si cresce: per qualcuno sono un acceleratore di stimoli e conoscenze, per qualcuno sono solo svago.

L'articolo non vuole essere una difesa dei media, ma una spinta a riflettere sull'impatto, potentissimo, che la nostra esperienza quotidiana coi media ha sulle nostre vite in termini di: 1) conoscenze acquisite e 2) potenziale di socialità che ruota attorno a questi oggetti.

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