Fanny & Alexander. Una conversazione su Discorso grigio

16 Luglio 2012

Michele Dantini: Subito sulla cosa. Discorso alla nazione mi colpisce per il cambio di archivio e di repertorio. Niente più testi letterari paradigmatici ma una differente testualità: quella del discorso politico. È un mutamento di interessi drastico e sospinto (posso immaginare) da un’esigenza in qualche modo impellente. Confrontarsi con la lingua al suo livello miserabile, di estrema servitù o distorsione: dove l’enunciazione non ha più intimità con alcunché di integro né di vivente, ma produce opacità, ottundimento, tedio attraverso l’inesorabile ripetizione. È sviamento, Maschera. Ricordo la conferenza stampa di Silvio B. a Cannes, nei primi giorni del novembre 2011. Eravamo vicini al collasso finanziario, ma l’uomo affermava: l’Italia è ricca, le sale dei ristoranti sono piene, così come i voli aerei. Forse abbiamo conosciuto da vicino, particolarmente in Italia, quello che Conrad definiva l’“orrore”. Ricorderemo un’intera epoca come retta da incuria, avidità, vanagloria. Per contro, adesso che quell’epoca possiamo augurarci si sia allontanata, nasce un desiderio feroce: di impedirne il ritorno, di produrre anamnesi, di esplorare le condizioni di aderenza della lingua, lo smalto della lingua, il genio della lingua intesa proprio come “comune”: forse il primo, l’originario... E in modo preliminare: di conoscere una volta per sempre e trafiggere la Maschera. Nasce così l’esplorazione Fanny & Alexander del discorso politico, l’“etnografia” del discorso politico?

 

Chiara Lagani: È vero, questo lavoro ci ha posto questioni del tutto nuove. È la prima volta, infatti, che affrontiamo in maniera così diretta un tema legato a quella che comunemente viene chiamata “attualità”; ed è la prima volta anche che partiamo non da un nucleo archetipico, che per lo più affonda i suoi tentacoli in un mito o in un’opera letteraria come tu dici, ma da un nodo che prima ancora che politico (anche se la politica è il suo ambito) definirei culturale, linguistico. Il testo di Alla nazione (il radiodramma) prima, di Discorso alla nazione poi e infine di Discorso grigio (questa è la stratigrafia del progetto) è interamente basato su materiali tratti da interventi pubblici di politici, e nella gran parte dei casi si tratta di interventi televisivi, perfino di fuori onda, oppure di discorsi ufficiali sempre diffusi attraverso i media, cosa che ormai avviene massicciamente. Si tratta di una materia, come dici, spesso opaca, a volte brutale, greve, spesso volutamente giocata in una sorta di spazio intermedio tra la retorica ufficiale e l’apostrofe familiare. La cosa più impressionante però è il senso di vuoto evocato dal reiterarsi di formule, stilemi, frasari che si appoggiano l’uno sull’altro e scatenano spesso un senso di sconcertante apnea, quasi tossica in chi ascolta, che a poco a poco spinge addirittura alla necessaria distrazione da quella grana ottusa di tedio, come giustamente la definisci. Quando abbiamo iniziato a comporre il testo anche per noi quest’operazione costituiva una vera e propria scommessa. L’idea era quella di fare attraversare un attore, Marco Cavalcoli appunto, da mille voci tratte dal mondo della politica contemporanea che entrando nel suo corpo potessero esserne fatte fuoriuscire una dopo l’altra. Volevamo comporre cioè un testo a partire da frammenti di discorsi reali, non tanto a costruire un blob però, ma un vero e proprio discorso, immaginario ma coerente. Immaginario perché questo discorso, per quanto composto da frammenti reali, non è mai stato pronunciato nella realtà, coerente proprio perché doveva assolutamente avere la struttura di un discorso compiuto, in tutte le sue parti. E non era scontato riuscirci. Ma sorprendentemente la composizione è stata più semplice del previsto. Non tanto nel procedimento: ore e ore di ascolto di materiali anche intossicanti, a volte dolorosi perché l’accumulo di tutte le atrocità che ci siamo fatti dire negli ultimi vent’anni è davvero opprimente. Piuttosto nel risultato: le frasi dei politici dell’era berlusconiana per intenderci si agglomeravano tra loro a dispetto del colore e del differente orientamento di contenuto come un puzzle che componeva a poco a poco una sorta di figura arcana e misteriosa, forse proprio quella che tu definisci la Maschera. La Maschera, oltre che essere una sorta di convitato di pietra onnipresente sullo sfondo perenne su cui si componeva la traccia del discorso, a suo modo, come una sorta di testa di Medusa congelava gli spettatori in un inquietate speciale rispecchiamento. Come a dire che al di là della patinatura retorica, minimo comun denominatore di un linguaggio zeppo di ricorrenze e cliché (il politichese), il dato culturale profondo, l’abisso linguistico in cui questo flusso di parole grigie ci sprofonda è ormai parte di noi, ci ha intrisi a tal punto che in una forma subdola, midollare ha messo radici profonde in una parte importante del nostro immaginario. E in questo senso forse ci è ancora possibile produrre un’anamnesi, ma è davvero possibile affermare o anche solo sperare di essere veramente e totalmente fuori da quell’epoca? È possibile davvero ripulirsi senza riconoscere che tutto questo fa ormai parte di noi?

Non so nemmeno se potrei definire questo lavoro un cambiamento drastico di orientamento o interesse per Fanny & Alexander: questo discorso fa parte di un progetto dedicato al rapporto tra individuo e comunità declinato attraverso certe forme di discorso pubblico. L’idea originaria, il primo germe, risale a un momento speciale della lavorazione di T.E.L. il nostro spettacolo dedicato a Thomas Edward Lawrence (2011) che finiva anch’esso con un discorso politico (utopico e disperato) e forse ancor prima, come desiderio quasi inconsapevole, ai tempi di Him (2007), parte del progetto Oz. In Him sempre Cavalcoli era attraversato e “parlato” dalla colonna sonora del film di Fleming, e il suo onnicomprensivo voraginoso doppiaggio aveva il volto ambiguo e terribile dell’opera di Cattelan, l’Hitler inginocchiato. A ben guardare, credo, nel percorso di un artista le cose, anche le più lontane sono collegate, per vie dirette o invisibili, perché le opere sono sempre solo punte di un iceberg consistente, sprofondato nei recessi di una vita intera di ossessioni e di pensiero in continua evoluzione.

 

 

MD: Forse potremmo persino giungere a affermare che Discorso alla nazione è una tragedia, sia pure in senso molto particolare, del tutto al di fuori della tradizione del dramma psicologico. È la tragedia della lingua: spinge il pubblico dapprima a provare orrore, poi a rammemorare nei pressi di una purificazione dei processi linguistici e tout court esperienziali. Il momento in cui l’attore in scena, il Presidente, concede finalmente al silenzio non equivale forse a una catarsi? Dall’affabulazione schizoide sospinta da coazione al dominio al silenzio. Marco è molto bravo a “tenere” il silenzio: per lungo tempo. Silenzio. Anche il corpo, nella circostanza, accenna a comporsi in movimenti controllati, non più agiti dalla scissione. L’”azione” intesa in senso tradizionale non c’è proprio: ma una vicissitudine formidabile si installa dentro la parola. È questa, almeno mi pare, la prospettiva drammaturgica recente...

 

CL: Questa domanda mi offre l’occasione per riflettere sullo spazio particolare che nello spettacolo la tessitura linguistica del discorso crea. È molto bello che tu definisca tragedia, sia pure in senso particolare, quest’opera. Penso che, soprattutto nella forma finale, che tu non hai ancora visto, Discorso grigio, sia proprio così. O meglio: è quasi una tragedia, perché sfiora la catarsi, senza realizzarla davvero forse. Certo è che il linguaggio disegna lo spazio del dramma, e anche lo spazio della narrazione. Nell’ultima versione del lavoro c’è tutta una parte in cui compaiono nuovi personaggi (il fantasma di Grillo ad esempio) che pongono nuovi problemi retorici, ed è proprio nella (de)generazione di altri colori linguistici che la narrazione si inscrive, come effetto di secondo livello. E la narrazione ha a che fare col presente, con quello che capita via via ogni giorno, con quell’attuale che ci fa percepire come già passata ogni cosa prima che sia avvenuta. È come dire che la storia dello spettacolo (aggrappata alla Storia) si può sviluppare solo attraverso dentro un recinto preciso, quello del discorso, e che la degenerazione di un determinato tipo di linguaggio è come il respiro mutevole di un animale vivente (e forse moribondo) la cui evoluzione e metamorfosi riflette in qualche modo, raccontandola, quella degli eventi degli ultimi vent’anni (e anche prima) del nostro paese.

L’articolazione fondamentale delle situazioni retoriche dello spettacolo si distingue in situazioni di palcoscenico e situazioni di retroscena. Lo spettacolo inizia in un backstage: l’attore/politico prova il suo discorso. Il palcoscenico è la situazione in cui la gestione delle espressioni è massima, mentre il retroscena è il luogo in cui invece si può, teoricamente, allentare il controllo. La situazione di palcoscenico è, per intenderci, il comizio, l’intervista televisiva o l’intervento oratorio in un congresso, insomma quando il politico è in presenza del pubblico o sotto le telecamere e quindi al cospetto del pubblico (nell’immaginazione il pubblico di una piazza, o televisivo, nella realtà noi spettatori); la situazione di retroscena è ben esemplificata dal politico che, dietro le quinte e nascosto al pubblico è in attesa che arrivi il momento dell’inizio della trasmissione televisiva o del comizio, e si lascia andare a prove, gesti di riscaldamento, di auto incitamento, magari a gaffes o allusioni inopportune riferite a chi condivide con lui quell’attesa. Nello spettacolo la situazione di base che alterna momenti di retroscena a momenti di esposizione pubblica, che sono vere e proprie mandorle-emblema di momenti da palcoscenico, viene complicata da due fattori: il primo è l’essere attraversato da parte di uno stesso individuo, l’attore che fa la parte del futuro presidente della nazione, da tante voci, gesti e affermazioni di personaggi politici presenti e passati ben riconoscibili, in un crescendo sempre più fuori controllo; il secondo è che il momento di retroscena, che nel vuoto di uno spazio teatrale spoglio e scarno (in scena vi sono solo microfoni e aste microfoniche) può assumere anche la caratteristica di uno spazio interiore e psichico, si confonde irrimediabilmente con lo spazio del palcoscenico, perché il contratto base è viziato alla sua origine dalla presenza di un pubblico di spettatori (noi che guardiamo) che non può mai essere eluso. Nella seconda parte dello spettacolo, l’avvento di Grillo e della sua retorica istrionica violano apertamente e traumaticamente la distinzione tra palcoscenico e retroscena, o tra pubblico e privato, funzionale alla rappresentazione dei ruoli e delle identità larvali, ma pur sempre riconoscibili, della sfera politica evocata. Tant’è che il personaggio/incarnazione/Grillo è incompatibile con le molte figure incarnate contemporaneamente da Cavalcoli prima, disegna un exploit più solitario o al massimo si alterna in duetto con la voce di Monti, ad un certo punto. Questa specie di nuova via comunicativa (per certi versi e in altro modo già anche praticata da Berlusconi in verità) crea uno spazio intermedio in cui è assolutamente impossibile distinguere la retorica dalla persuasione, la finzione dalla realtà, il vero e il falso. È forse per questo che il lavoro termina con un’immagine molto forte, tratta proprio da uno show di Grillo, tutta dedicata al mondo virtuale di second life, su cui si innesta, trasfigurata in una sorta di setting da “vita dopo la morte”, la memoria storica, coi suoi fantasmi, quelli vicini e quelli lontani. È a questo punto che il discorso si sfalda e diventa puro gorgo, fino a sprofondare nel silenzio finale. Ma è il silenzio che è forse la chiave di tutto. Perché è una sorta di fuoriuscita dalla Maschera, di ritorno all’umano. E di apostrofe dell’attore al pubblico in un rapporto diretto che sospende tutti i livelli e gli spazi retorici costruiti fin qui: per la prima volta, inequivocabilmente, ci si rivolge alla comunità raccolta nel teatro a condividere quel gesto teatrale e lo si fa senza parole, con un lungo sguardo imbarazzante ma pieno di questioni che ricostruiscono uno spazio finalmente concreto, l’hic et nunc che si insedia nelle pieghe del mistero della scena, e da cui forse possiamo ripartire per pronunciare di nuovo quella parola in via di estinzione, comunità.

 

 

MD: Una domanda giornalistica piana. Ho riconosciuto frammenti di discorso di Silvio B., Tremonti, Sacconi, Bossi, Bersani, Casini, Di Pietro, Monti. Manca sicuramente qualcuno...

 

CL: Ci sono anche Vendola, Bertinotti, Castelli, La Russa, la Bindi, la Bonino…

 

MD: L’archivio da cui Discorso alla nazione attinge è la cronaca politica. Lo sciocchezzaio dei talk show televisivi. I discorsi governativi e parlamentari. L’attore si spinge talvolta sino all’imitazione satirica e burlesca, ad esempio con cambi della voce (la raucedine di Bossi) e l’adozione di tic o vezzi linguistici caratterizzanti (è il caso di Tremonti, riconoscibilissimo). Sotto questo profilo lo spettacolo lambisce la satira televisiva: Maurizio Crozza, Corrado e Sabrina Guzzanti, etc. Ma il carattere profondo del testo non è comico né implicato definitivamente con l’attualità, al contrario. Definirei Discorso alla nazione uno spettacolo civile solo a patto di considerarlo prima (come dire?) metafisico...

 

È molto importante per noi che non si precipiti nel puro livello dell’imitazione ma che, appunto come dici, si arrivi solo a lambirla. Anche nei momenti più espliciti, quelli in cui si chiede al pubblico di giocare al gioco della riconoscibilità, l’attore realizza sempre una sorta di morphing delle voci, perché l’idea chiave è proprio quella di un personaggio/Maschera che assume camaleonticamente e inavvertitamente i tratti di Berlusconi e degli altri politici, ma mai per arrivare a una forma di parodia bensì ad una sorta di anamorfosi continua e mostruosa che riflette un fatto psichico collettivo profondo. È proprio se si riesce a toccare questa natura, sì, davvero metafisica, perché né di archetipo, né di figura ma di pura essenza del personaggio di Discorso grigio che lo spettacolo si compie e può esser definito, come dici, “civile”. Civile nel senso di riferito a un pubblico non più solo di spettatori, ma di cittadini. L’epilogo dello spettacolo, il vero e unico discorso (incompiuto) che qui è pronunciato in fondo, è proprio pronunciato da Cavalcoli a voce nuda, e cioè priva di possessioni camaleontiche, la sua voce che si rivolge ai cittadini e alle cittadine che ha di fronte, e quel testo, quel brevissimo testo che pronuncia è significativamente il solo frammento di testo letterario del lavoro, tratto da un “Discorso inaugurale” immaginato e scritto per Paese Sera da Gianni Rodari nel 1960.

 

MD: Che cosa sarà il Discorso grigio? Perché grigio?

 

CL: Grigio è il colore della mescolanza perfetta di ciò che è bianco e ciò che è nero. È la differenza indifferenziata. Se il Discorso fosse un soffio, una temperatura, una bestia o un sentimento sarebbe grigio, appunto, ché, come recita il dizionario delle etimologie, è “scuro con alcuna mescolanza di bianco. Per lo più si dice di pelo o di penne”…

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