Gabriele Basilico

4 Gennaio 2016

Due anni dalla morte di Gabriele mi sembrano ancora troppo pochi per potere parlare del fotografo in una prospettiva storica. Ci manca ancora troppo l’uomo, prevale il sentimento dell’assenza. O per meglio dire ci manca la sua presenza. Inoltre, io non sono un critico: faccio il fotografo. Un fotografo che parla delle immagini di un altro fotografo inevitabilmente verifica le proprie ed è a partire dalla propria pratica che si confronta con quelle dell’altro. Se poi l’altro fotografo è, è stato, anche un amico, con le fotografie dell’amico si confronta e si specchia, si scontra anche, cerca di comprendere se stesso e l’altro in ciò che li unisce e in ciò che li separa. Se ne difende mentre se ne lascia influenzare. Ma quando l’amico non c’è più la faccenda si fa più difficile e complicata. 

 

In apparenza è difficile pensare a due fotografi più diversi di me e Gabriele. Tuttavia molte volte abbiamo riconosciuto nella diversità dei temi trattati, degli approcci stilistici, una profonda comunanza etica e culturale nella maniera di concepire la fotografia. Il documento, la testimonianza, la traccia, sola base, per un fotografo che crede nel proprio strumento, nel proprio linguaggio, sulla quale costruire visione, fantasia, emozione. Ha ragione Carlo Bertelli a negare la facile rispondenza tra la metafisica dechirichiana degli spazi immobili e l'apparente silenzio delle fotografie di Basilico. Luogo comune critico. Molto fisiche sono le fotografie di Gabriele e per nulla silenziose, a me pare. Raramente, per dire, si vedono persone nelle sue fotografie. E le mie ne traboccano. Ma le sue immagini, tutt’altro che vuote, io le sento anzi brulicanti di vita, dalla presenza implicita, ma fortissima degli uomini che quei luoghi li hanno costruiti, immaginati, vissuti, abitate dall'assordante tumulto, anche, del cuore di chi guarda. E soprattutto, cosa che accade soltanto con i grandi autori, guardando queste fotografie non è tanto sui luoghi mostrati, o non soltanto, che si accende la fantasia, ma su Gabriele Basilico stesso che questi luoghi ha raccontato, sognato, composto. Entriamo, certo, attraverso queste immagini, negli spazi, nei luoghi, dei quali lo sguardo del fotografo, inventandola, ci fa scoprire con stupore la bellezza di ciò che credevamo di conoscere, come ha finemente notato Aldo Rossi. Ma attraverso questo sguardo abbiamo la sensazione singolare e persino un po' impudica di entrare nelle pieghe segrete della coscienza inquieta, e che si rivela di potenza visionaria, di Gabriele Basilico. 

 

Le foto di Gabriele che soprattutto amo provocano emozioni fatte di intelligenza e di sensibilità, di sensuale intelligenza. Ricordo la sua sorpresa, ma una sorpresa che mi sembrò gli piacesse, per questo mio parlare di sensualità a proposito di immagini nelle quali tutti vedevano algido sguardo surreale. La conquista del suo sguardo, in Gabriele, è stato il punto di arrivo di un viaggio personale, intellettuale, stilistico ed emotivo lungo e complesso. E non lineare. Lui stesso, infatti, si dichiarava molto contraddittoriamente implicato, alla fine degli anni '70, con un dibattito architettonico e urbanistico che ha sempre più coinvolto la fotografia nel giudizio sul già fatto. 

Un cammino evolutivo nelle fotografie di Basilico nel quale, secondo me, si può individuare una svolta netta a partire dal 1986, anno in cui pubblica Italia & France. E poi Bord de mer, Immagini di Porti. Era evidente, nelle immagini di quel libro italo-francese, uno scatto, evoluzione, maturazione, non so, ma certo molto felice, rispetto, per esempio, a Ritratti di fabbriche del 1983 o a Immagini del '900, del 1985. Fino a quel momento c'era in quelle fotografie, di pur notevolissima qualità, una luce totalmente diversa, zenitale, cruda, tutta tesa a rivelare l'oggetto architettonico. Lucida intelligenza degli oggetti attraverso immagini di lucida intelligenza. Ammirevoli, ma un po', come dire, emozionalmente mute, almeno per me. A partire dall’esperienza fondamentale della missione della Datar, che io, peraltro, penso che Gabriele abbia vissuto in controtendenza con lo spirito asfittico di quel progetto, la luce che bagna gli oggetti sui quali si posa lo sguardo del fotografo non ha più alcuna neutralità descrittiva, accarezza corpi vivi della memoria, della nostalgia, del desiderio, vibra di una emozione che oserei definire erotica. 

 

Beninteso, ho detto che secondo me è stato un viaggio lungo e non lineare. Contraddittorio anche. Un viaggio che io trovo ben rintracciabile attraverso i suoi progetti e i suoi libri. Io credo molto ai libri, e non soltanto a quelli dei fotografi, come a mappe dove sono marcate le pietre miliari del viaggio, con tutte le esitazioni, fermate, ritorni indietro, ripartenze, che ogni viaggio umano, intellettuale, estetico implica. Trovo che sia difficile, per esempio, attribuire  un’unità di sguardo fotografico a Italy, sezioni del paesaggio italiano, Berlino, Mosca verticale, e, per dire, l’emozionatissima e potente Beirut. Una volta, nel contesto di un dialogo su un suo lavoro/libro su Palermo, gli chiesi se pensava che erano davvero necessari dieci scatti sul quartiere ripetitivo, omologato, ossessivo di viale Lazio. Come ben sai, mi rispose, sono sempre stato attratto dalle immagini ripetitive e ossessive. I fotografi tedeschi Bernd e Hilla Becker hanno rappresentato per me un modello estetico ed etico, ancora oggi trovo incredibile il loro sforzo titanico di archiviare tutte le tipologie architettoniche sino all’esaurimento. 

 

Esaurimento? Ecco, io penso che ci siano stati i progetti, e i libri, dell’architetto fotografo Basilico, molto contraddittoriamente implicato, appunto, alla fine degli anni 70, con un dibattito architettonico e urbanistico che ha sempre più coinvolto la fotografia nel giudizio sul già fatto, e il Gabriele Basilico per il quale lo sguardo sul mondo era diventato più avventuroso, libero da tutte le pastoie concettuali ed era dettato soltanto dalla sua necessità espressiva di fotografo, di uomo fotografo. In verità, io capisco benissimo, e rispetto, le ossessioni, e apprezzo moltissimo quelle di Gabriele. Non ci sono fotografi, o scrittori, che non sono abitati da ossessioni. In fondo quello che chiedo a un fotografo è di farmi da filtro rispetto a quello che ho guardato ma non ho visto. Grazie a Basilico ho scoperto un modo speciale di guardare le fabbriche, i porti, le città. Anche la mia percezione di Berlino oggi risente inevitabilmente delle sue fotografie, anche di quelle fredde che non amo, della sua Berlino. Grazie a questo filtro posso avere una relazione più ricca con l’autore e con le cose che lui fotografa. Con la vita. E di conseguenza interrogarmi sulla mia peculiarità di fotografo, ammesso che ne abbia una. E moltissimo mi interessa quello che i fotografi dicono del proprio lavoro. Gabriele ne parlava e scriveva benissimo. 

 

Ho la sensazione che i fotografi comprendano meglio e più in profondità il proprio lavoro e quello di un altro fotografo di quanto non riescano a fare i critici d’arte, o peggio ancora i critici di fotografia, se ce ne sono. Anche le loro incomprensioni e i loro odi sono utili e rivelatori. Semmai trovo più spesso illuminanti, e spiazzanti, a proposito di fotografia, le opinioni degli scrittori.  

Ho seguito e guardo il lavoro di Gabriele come una sorta di diario sentimentale e intellettuale e trovo che non sia stato dato sufficiente risalto all’emotività che lo guida alla scoperta del fatto urbano, alla sua dimensione letteraria, come se fosse la lettura di un libro di pietra, come Victor Hugo definiva la città, come al profumo singolarmente mediterraneo delle sue immagini. 

La verità della fotografia è che racconta la cosa, non il suo significato simbolico o metaforico o concettuale: l’imbecille, non l’imbecillità. Nel lavoro di Gabriele si sente la necessità visiva dell’oggetto: esiste il luogo concreto non lo spazio astratto. Mi stupisce, e mi irrita, l’uso di aggettivi come “metafisico“, “astratto”, per la fotografia di Basilico. Mi sembra un’assurdità. Non stiamo parlando di pittura, ma di fotografia.  È davanti a un preciso oggetto, paesaggio, luce che lui piantava il suo treppiede e si ricopriva del telo nero per indagare nel vetro smerigliato il perché quella cosa, quel fatto, gli avevano imposto di fermarsi proprio lì, in quel punto esatto, come fosse l’unico dove si potesse tentare di restituirne il senso e l’emozione. 

 

A un certo punto l’architetto intellettuale ha lasciato spazio e libertà al concerto di emozioni che il fotografo Basilico voleva, doveva esprimere. È come se Basilico nello spostarsi dalla fotografia più propriamente architettonica e urbanistica a quella di paesaggio avesse avuto come una rivelazione anche di un profondo, fortemente evocativo paesaggio interiore. E che questo paesaggio, paesaggio del mondo e paesaggio di sé, lo abbia fotografato con un abbandono, una felicità, una sensualità, che mi sembra appunto la parola chiave, quasi da confessione autobiografica. Fino a ottenere risultati che rivaleggiano con lo sguardo innocente, né sentimentale né intellettualistico, di alcuni pionieri della primissima fotografia di paesaggio dell'800. Come se avesse ritrovato lo sguardo innocente, di semplice potenza, lo sguardo bambino del tempo in cui anche la fotografia era bambina. 

 

Componente fondamentale della vicenda di Basilico è che il suo è stato un articolato percorso professionale. Basilico è stato infatti un formidabile professionista. La quasi totalità delle sue fotografie le ha fatte su commissione. Un professionista la cui padronanza tecnica ed espressiva è andata crescendo sempre di più sino a fargli conquistare stima e apprezzamento sempre maggiori. Il che, nell’esercitare un mestiere significa anche conquista di sempre più ampi margini di libertà, sempre maggiore affrancamento dalle esigenze delle varie committenze, non necessariamente confacenti e coerenti con le sue sempre più ampie ambizioni espressive. La retorica dell’artista recita romanticamente che la committenza ne limita la libertà. Che può anche essere vero, qualche volta, ma per un fotografo come Gabriele, e forse per qualunque fotografo, è anche il moltiplicarsi delle opportunità, il quadro preciso dentro il quale poterla esercitare la libertà. E ti fa rimanere con i piedi per terra, costantemente connesso, con quelle forze sociali, economiche, istituzionali, culturali che continuano a cambiare, a costruire, magari anche a stravolgere il paesaggio urbano e umano dentro il quale ci muoviamo. Forze importanti, buone e cattive, a volte abitate da sogni, altre volte opportunisticamente e magari cinicamente mosse soprattutto da ambizioni speculative o di rapina, ma comunque reali, vive. Politicamente e culturalmente concrete. 

 

A un certo punto il suo prestigio e la sua rinomanza internazionale hanno fatto sì che ci si rivolgesse più al Gabriele artista che al professionista. Ma questo non lo ha mai fatto allontanare dalla disciplina del mestiere. Nessun solipsismo, nessuna fuga verso autocompiaciuti soggettivismi. È vero, diceva, la committenza non è sempre illuminata. Ma spesso sono io stesso a fare da freno a me stesso. Vedo dei paesaggi, dei particolari, che avrei voglia di fotografare, ma non posso, non li sento in sintonia con la storia che da anni tento di raccontare. È come se facessero parte di un altro progetto che non mi è possibile affrontare. Concreto, onesto, e instancabile Gabriele. È questo che gli ha permesso nei decenni di costruire quel formidabile, monumentale affresco visivo del paesaggio urbano italiano, europeo, mondiale che rende così preziose le fotografie di Basilico, e che sempre di più ne affermerà nel tempo l’indispensabilità. 

 

Questa disordinata riflessione sulla fotografia di Basilico nasce per l’occasione della importante mostra che è in atto all’Unicredit Pavillon di Milano. 150 immagini sotto il titolo saviniano, magnifico, Ascolto il tuo cuore città. La mostra è bella: non ho mai visto una mostra brutta di Basilico. Ma io non sono molto a mio agio con le mostre. Credo di cavarmela meglio con i libri. Il titolo è quello che Alberto Savinio aveva trovato per un suo zibaldone capolavoro su Milano.  

E già il suo pathos mi sembra rispecchi bene il mio punto di vista, fin qui semplificato, sull’opera di Gabriele Basilico. Ma per chiudere, e in maniera di exemplum, proprio di un recente libro vorrei parlare, BasilicoMilano, da poco pubblicato da Contrasto. Libro bellissimo, a me pare, che purtroppo Gabriele non ha visto ma che implicitamente, e io credo anche concretamente, ha concepito e costruito per decenni. 

 

Milano è stata per Gabriele, ininterrottamente, il basso continuo, si può dire, di tutta la sua storia di fotografo. È stata la sua città amatissima, ma è anche stato il terreno che ha accompagnato tutta la sua evoluzione professionale ed espressiva. Giovanna Calvenzi ha detto che quando fotografava in altre città del mondo sempre c’era nel suo sguardo la filigrana della sua esplorazione visiva di Milano. E quando tornava da lontano, le esperienze, le scoperte visive che aveva fatto, in un modo o in un altro si riversavano nei nuovi capitoli della continua esplorazione della sua città. 

 

Anche qui, tuttavia, praticamente tutte le fotografie che lui ha fatto a Milano e su Milano, a parte quelle sulle periferie, che furono un suo progetto personale, sono nate da varie occasioni di committenze. Ebbene, il ricco e complesso libro, con fotografie che vanno dagli anni settanta a praticamente fino all’ultimo periodo della sua vita, oltre a un formidabile monumento omaggio alla sua città, costituisce un esempio e uno strumento perfetti per seguire e decifrare i modi di procedere e il progressivo svilupparsi e arricchirsi di Basilico fotografo. Sfogliando il libro uno ha l’impressione di conoscerle tutte o quasi tutte le immagini. Ed è così. Nel libro si ritrovano fotografie che avevamo già visto in altri libri e in mostre e cataloghi nei quali sono state stampare e mostrate. Eppure è impressionante la compattezza e la necessità estetica, intellettuale e culturale della sequenza, il suo prendere senso nel punto di arrivo di un libro. Nonostante siano nate in un lavoro più che quarantennale da occasioni professionali le più svariate, o forse proprio per questo, penso che nella loro forma di libro le fotografie che lo compongono costituiscano un formidabile, unitario ritratto dell’evoluzione della città e nello stesso tempo una coerente rappresentazione della natura più profonda e costante di BasilicoMilano. Ma è anche un commovente autoritratto di Gabriele Basilico che nella città, nella sua città, non ha mai smesso di specchiarsi raccontandola. Davvero nel corpus di queste immagini, per amore, Gabriele non ha mai deviato dall’incanto lucido e appassionato del suo sguardo bambino. 

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