Milano chiude Spazio Forma
Con una conferenza stampa del suo presidente, Roberto Koch, è arrivata la peggiore delle notizie, forse da sempre, per la cultura fotografica milanese e italiana: la chiusura di Spazio Forma.
La peggiore notizia perché la vicenda di questo luogo, che giustamente è stato definito Casa della fotografia italiana, è stata di gran lunga la più straordinariamente positiva, anche questa da sempre, per questo importante linguaggio della modernità.
In soli nove anni, attraverso una straordinaria attività di mostre, comunicazione, incontri, iniziative didattiche, e basta per averne conferma visitare la mostra ricapitolativa che è stata allestita, Spazio Forma è diventato un formidabile, direi imprescindibile punto di riferimento per la fotografia non solo in Italia, ma sul piano internazionale, con scambi sempre più ricchi e fruttuosi con le più importanti istituzioni museali pubbliche e private dell'Europa e de mondo.
Koch ha detto che le attività della Fondazione Forma non si fermeranno e anzi si arricchiranno di nuove e importanti iniziative sul territorio archivistico e conservativo e di promozione del lavoro di alcuni dei grandi fotografi di questo Paese, a cominciare da quello monumentale di Gianni Berengo Gardin con il quale è stato già firmato un accordo. Altre iniziative sono state preannunciate, molto interessanti, a testimonianza dell'energia del gruppo di persone che hanno animato la vita e i successi di questa iniziativa. Ma tutto questo non ha medicato lo shock della chiusura di quel meraviglioso spazio di riferimento.
Me ne sento umiliato e offeso. Siciliano non pentito, vivo a Milano da quasi mezzo secolo. Considero Milano la mia città e ripeto sempre che mi sento milanese come Stendhal, che questa sua patria d'elezione volle fosse iscritta sullla lapide della sua tomba. Non credo, sempre meno credo, alle indignazioni e alle raccolte di firme.
So benissimo che, come immortalmente ci ha insegnato Cipolla, sono molto più pericolosi gli imbecilli dei mascalzoni. I mascalzoni fanno danni per difendere i propri interessi, e con loro si può sempre usare il linguaggio, pur sempre razionale, dell'interesse. Gli stupidi, invece, con le loro azioni e con le loro inerzie fanno danni sia agli altri che a se stessi. E sono inattingibili dalla ragione.
Negli anni non c'è stato assessore alla cultura di Milano o sindaco, anche di quelli che avrebbero dovuto riaprire i cuori e le menti alle speranze, che non abbiano lamentato l'assenza d'iniziative private per la cultura della città, che si è sempre pretesa capitale, morale? e culturale del Paese.
Ecco un'iniziativa nata dai privati, che realizza grandi successi e viene lasciata morire nell'indifferenza generalizzata. Capisco che i tempi sono duri e che di soldi in giro ce ne sono assai pochi. Ma quelli che servirebbero a Spazio Forma per sopravvivere sono ben poca cosa per rapporto a sprechi assurdi e finanziamenti inamovibili anche per altre istituzioni, pubbliche, anche in questo settore, anche nel nostro stesso territorio, della cui esistenza, nonostante siano lì da anni, nessuno si è praticamente mai accorto.
Il magnifico edificio di Spazio Forma, nella piazza Tito Lucrezio Caro, è di proprietà della Atm. Dieci anni fa, quando è stato fatto l'accordo con Forma, era un enorme palazzo fatiscente, inutilizzato e inagibile. E' stato restaurato da Forma e dall'Atm, che l'ha concesso in affitto. Un grosso investimento che tuttavia negli anni si è fortemente rivalutato anche grazie alla prestigiosa attività che vi si è svolta.
La Fondazione ha chiesto di avere l'uso dell'immobile in comodato. Lo ha chiesto all'Atm, lo ha chiesto in Comune. Non c'è stata nessuna risposta. Forse sarebbe bastato questo a fare sopravvivere l'istituzione. Spazio Forma è costretta ad andar via. L'Atm si ritrova con un immobile fortemente rivalutato. Per farci cosa?
Conosco abbastanza Roberto Koch per dubitare che abbia bussato a tutte le porte, imprenditoriali, comunali, finanziarie, della città e non solo. Nessun riscontro. Forse c'è davvero di che rammaricarsi e indignarsi. E va bene: rammarichiamoci e indigniamoci
L'articolo è apparso il 20 ottobre nella Domenica de Il Sole 24 Ore