Speciale
Il dolore vissuto
Si può non essere interessati e preda di compassione di fronte all'oceano di dolore nel quale affoga il tempo che viviamo e nel quale da sempre affoga la coscienza degli uomini che in mezzo al dolore hanno vissuto e vivono?
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Io sono fotografo. O almeno, lo faccio da cinquant'anni. Nel tempo e con la vecchiaia ho visto crescermi dentro la necessità di esprimere in quello che faccio, anche con parole, dentro una letteratura ibrida di immagini e parole, ma anche di sole parole o di immagini senza parole, il mio rapporto di complicata relazione con la realtà e con me stesso. Ci ho costruito delle cose: libri, mostre, testi. Contraddittoriamente e caoticamente. In un paio di mostre, per esempio, c'erano capitoli che si intitolavano: La geometria e la compassione. Nei confronti del dolore, certo. Ma è compassione anche il tessuto attraverso il quale, con empatia e passione, costruiamo, almeno individualmente, i nostri piccoli giardini di felicità. Altrimenti non si potrebbe vivere.
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Scrive Longanesi nel 1949 in prefazione al libro di immagini Il mondo cambia: “Dal 1900 ad oggi, in cinquant’anni di illusioni, di scoperte scientifiche, di guerre e di sciagure, la nostra vita è stata seguita ora per ora da un nuovo Plutarco, imparziale e freddo: l’obiettivo fotografico… Giorno per giorno, durante cinquanta anni, la fotografia ha preso un posto indispensabile nella nostra vita quotidiana, e gran parte della nostra cultura, o meglio delle nostre cognizioni, è frutto della fotografia, la quale ha finito per dominarci: non è il piacere di essere ritratti quel che ci guida, ma il vedere il mondo, le cose del mondo, sorprese e fissate: le quali cose, poi, si dividono in due campi, in quello dell’erotico e in quello del macabro. Le primitive intenzioni artistiche della fotografia hanno ceduto il posto al gusto del documentario, e di tutti i fatti da ritrarre quello che l’obiettivo ha scelto è il delitto. Il cadavere è il suo tema preferito; il morto ammazzato è la sua vera natura morta. Il bello fotografico ha trovato il suo regno nella morte violenta. Ed anche noi abbiamo finito per abituarci a vedere cadaveri, ad ammirarne le tragiche posizioni, a scoprirne con curiosità morbosa le smorfie e i ghigni. E questo continuo osservar cadaveri ci ha reso non insensibili all’idea della morte, ma ci ha abituati a meno rispettare la vita altrui”.
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Molti “fotografi di guerra”, definizione orrenda che i migliori rifiutano, affermano che continuano a tornare nei teatri della guerra, delle sciagure e della morte per odio di tutto questo. Per farle cessare, le guerre. Dicono. Qualche volta, rara volta, magari è vero. In realtà, è più spesso vero che l’adrenalina che suscitano quegli spettacoli di violenza diventa, per loro e per noi, una droga, una pornografia senza la quale non si sa più ritrovare gusto e interesse per la vita di tutti i giorni.
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Non ci può essere compassione per il dolore e l’ingiustizia senza un sentimento intenso della felicità. La compassione è un sentimento, per chi lo prova, per il quale, se c’è dolore, non solo il tuo, ma quello di ogni uomo e donna e bambino, non puoi essere felice.
Ma anche nel più cupo dolore si scopre l’ansia di cercare la felicità.
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Questa bambina che gioca felice l’ho fotografata a Ho Chi Minh Ville, la ex Saigon del Vietnam del sud. Era in un istituto, tra il ricovero e la prigione, dove venivano raccolti i bambini di strada senza tetto e senza famiglia. Come cani randagi, affamati.
Ma datele due pezzi di legno e la ricerca della felicità ricomincia.
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Una ragazza di Kami, un villaggio, un accampamento di minatori sulle Ande boliviane, alla quale chiesi che cosa desiderasse dalla vita, mi rispose che sperava di trovare un uomo che non la picchiasse troppo.
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Nella contemporanea grande sostituzione della realtà con le immagini anche la compassione è diventata una faccenda mediatica. Il dolore sotto i nostri occhi o una catastrofe gigantesca, ma lontana, trasformati in immagini, e subito arriva l’assoluzione, senza nemmeno bisogno di confessione. Due euro via SMS, come due avemaria e paternostro, e la coscienza è lavata fino alla prossima sciagura. Purché non siano troppo vicine nel tempo. È stato statisticamente notato che in questo caso i versamenti diminuiscono nettamente.
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Più grande è l’illusione, più numerose le vittime. Le grandi religioni e le grandi ideologie ne fanno milioni. L’indifferenza pure.
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Si scambia spesso la disperazione con la “melancolia”, la depressione. Ma la depressione è una malattia, la disperazione è pensiero in atto. Si può essere disperati e allegrissimi. Forse si può essere allegri solo se disperati. La depressione non contiene la compassione; la disperazione sì.
E anche l’allegria.
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Non credo (non credo più) che una fotografia – un libro, una musica, un dipinto… – possano migliorare il mondo. Al massimo possono dare un’accalmia al dolore di qualche uomo o donna. Continuo tuttavia a credere che quelli cattivi, fotografie, libri, musiche, dipinti… lo peggiorano.
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Un pugno di riso. Un'espressione diventata metaforica che ho ritrovato, drammaticamente concreta, a Makallè, in Etiopia, dove si concentravano, in un campo fuori dal centro abitato, i fuggiaschi da una delle ricorrenti siccità che devastano quel paese. In quel campo morivano cinquanta persone al giorno. Per paradossale iperbole visiva – lì accanto c’era stato un macello a cielo aperto – si ammucchiavano migliaia di ossa e crani bianchi di animali che sembravano un monito minaccioso per i vivi che dopo marce di settimane erano riusciti, stremati, ad arrivare in quel luogo di possibile salvezza..
Dal campo, specialmente la notte, saliva un suono spaventoso, come se quelle migliaia di persone fossero diventate un solo corpo dal quale esalava straziante un unico lamento.
Anche lì piccole mani nere aperte per pochi grammi di grano, per un salvifico pugno di bianca farina.
Le persone arrivavano a migliaia. A un certo punto, in una tenda della Croce Rossa, mi ritrovai a fotografare dei gesti incomprensibili. C’era una fila di bambini che sembravano usciti da Auschwitz. Gli infermieri li pesavano e misuravano. Mentre fotografavo mi domandai a che cosa potesse servire un’operazione del genere mentre la gente moriva come le mosche. Chiesi perché. Mi spiegarono che in questo modo selezionavano quelli che avevano bisogno di un intervento urgente, tralasciando gli altri per i quali era troppo tardi. Mi sembrò una cosa troppo terribile e inaccettabile, per quanto razionale.
Ebbi una specie di collasso psicologico: non riuscivo più a fare le foto. Troppo dolore; che senso ha fare foto in una situazione del genere? mi chiedevo. Andai a trovare un medico italiano che avevo incontrato e gli dissi che non volevo più fotografare, che mi trovasse qualcosa di utile da fare.
Era un uomo intelligente; mi rispose che aveva altro di cui occuparsi che delle crisi di un fotografo e che non gli facessi perdere tempo. Erano le dieci del mattino, stavo male. Ero bloccato. Volevo tornarmene indietro. Verso le sei e mezza, sempre arrovellandomi su torno o non torno, come faccio a fotografare..., mi sono accorto che i miei pensieri stavano prendendo altre direzioni. Solo dopo un bel po’ mi resi conto che cominciavo a sentire fame e a domandarmi che cosa e dove potessi mangiare.
Più la fame aumentava e meno ero oppresso dal fatto che lì intorno vedevo la morte fare strage, mi laceravo sempre meno sul significato di fotografare, mentre invece sempre di più pensavo che, semplicemente, avevo fame. Lentamente riemersi, cominciai a riflettere sul fatto che il mio corpo esisteva, esisteva la mia necessità fisica, più impellente e pervasiva di ogni blocco psicologico e morale. Che potevo fuggire dal dolore degli altri, non dalla mia fame, non dal mio corpo.
Fai il fotografo? Non è questo che volevi fare? Fallo bene allora. Cerca di mettere nelle tue foto la tua angoscia e la tua pietà. Non pretendere di cambiare il mondo con la tua fragilità. Non fuggire.
Tornai a fare il mio mestiere.
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La prassi della natura è il massacro. La storia il suo strumento.
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Libano, 1976
Quali e quante ragioni non sono stati e non sono capaci di trovare gli uomini per infliggere dolore? Dio, la razza, il diverso colore di un idolo, la diversa interpretazione del capoverso in una scrittura.
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A Beirut nel corso di una delle crisi e dei massacri che hanno insanguinato la città. Questa volta tra cristiani e palestinesi. Nel cortile dell’ospedale, questa donna aspettava di potere avvicinare il marito, forse morente, che stavano medicando. Nei teatri delle guerre come delle catastrofi mi è sempre sembrato che quello che meglio raccontava i fatti fossero le facce, le espressioni degli uomini, delle donne, che quei fatti, quelle cose che vengono chiamati Storia, li subiscono e basta. Senza capire, forse col sentimento che la sola cosa che stanno vivendo e che si ripete è la loro sconfitta.
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Sopravvissuti alla strage di Marzabotto.
Condannati a non dimenticare. Condannati a provare l’ingiusto rimorso di essere sopravvissuti.
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Il mio mestiere di reporter mi ha fatto incrociare molte volte la fame in luoghi diseredati del mondo, specialmente in occasione di eccezionali o endemiche catastrofi naturali.
Nel Bangla Desh, dove un terribile tsunami, che, si disse allora con approssimazione, aveva fatto oltre settecentomila morti.
A Nohakhali, su un terrapieno dove l'onda devastante si era infranta due volte, in andata e ritorno, portando via tutto, persone, bestie, raccolti, migliaia di uomini e donne e vecchi e bambini scavavano nel fango per cercare di recuperare quel pochissimo riso che vi era rimasto imprigionato. Quel disperato lavoro poteva fare la differenza tra la fame e la morte.
Mi imbarcai su un barcone che andava ad Hatiya, piccola isoletta del delta del Gange che di quella catastrofe era stata epicentro, con pochi sacchi di aiuti, farina e granturco soprattutto. Ci aspettava una folla di affamati ai quali veniva letteralmente versato, nelle mani aperte a coppa, un pugno di riso, una razione di farina. Agli uomini chiedevano di firmare con la loro impronta digitale, su assurdi registri, la ricevuta per questo misero aiuto. Ho ascoltato storie che sembravano favole nere. Come quella di quell'uomo che mi raccontò che il giorno prima dell'onda aveva visto i cani arrampicarsi sulle alte palme. Si spaventò e si arrampicò anche lui con il suo bambino su una palma. Arrivò l'ondata immane, piegò la palma e a un certo punto il bambino gli sfuggì dalle braccia, poi anche lui, assieme alla palma, fu strappato via dalla violenza dell'urto. Perse i sensi. Si svegliò, non sapeva dire quanto tempo dopo, miracolosamente vivo. Non riconosceva nulla del paesaggio devastato che lo circondava. Soltanto dopo scoprì che si trovava a quattordici chilometri dalla sua casa.
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Sempre nel Bangla Desh, a Dacca. Mi sposto con un riksciò.
Percorrendo una stradina vedo sul marciapiedi un uomo che cammina barcollando. A un certo punto stramazza. Ferma, grido, Ferma! Quell’uomo…
Non è niente, mi dice l’uomo del riksciò. Ha fame.
“Non è niente, ha fame.”
Scendo e siccome sono un fotografo indurito, intanto faccio una fotografia, poi lo tiriamo su. Lo porto in un posto dove possa mangiare qualcosa. Gli lascio un po’ di soldi.
Quando mi capita di pensare o dire: ho fame, ogni tanto ripenso a quell’uomo di Dacca e constato quanto diverso possa essere il significato delle parole.
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Ma non ci sono solo le grandi, plateali catastrofi lontane, ci sono anche quelle vicinissime, che non vediamo, dalle quali distogliamo lo sguardo.
Un basso napoletano microscopico. Una donna anziana, sola. Il braccio allungato verso lo specchio dell’armadio, che tentava di allargare l’altare della miseria, sembra indicare un gesto di conforto, come se volesse prendere per mano se stessa per sentirsi meno sola. La solitudine e l’indigenza. Intorno a noi.
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Brindisi, 1991. I primi sbarchi di albanesi. Ci sono andato perché avevo fatto un reportage semiclandestino in Albania mentre Enver Hoxha ancora regnava su quel paese dove l’utopia era stata trasformata in incubo. Avevo con facilità profetizzato che se in quel campo di concentramento si fosse aperta una crepa il paese si sarebbe svuotato come una pentola rotta.
Pioveva, faceva freddo. Furono portati grandi teli di plastica per dare un primo minimo riparo a quei disperati. Avvolti nella plastica, come i cibi nei supermercati che si precipitavano ad esplorare, la loro miseria si mostrava ancora più drammatica. Vidi molte persone quella mattina uscire con borse piene di cibo per portarle agli albanesi che bivaccavano nella banchina. Bastarono un paio di giorni; cominciarono i primi furtarelli, le macchine dai vetri rotti per dormirci dentro, le facce inquietanti di quegli uomini e donne dagli occhi duri, famelici, per fare cambiare atteggiamento.
Via, via, fateli sgombrare, rinchiudeteli, difendeteci.
Reazione forse persino comprensibile. La compassione è un venticello fragile, viene subito disperso se la sofferenza degli altri si avvicina troppo e rischia di trasformarsi in paura per noi.
Da infiniti segni, mi pare, si può dedurre che molti collanti sociali, buoni o cattivi, dentro i quali era importante e implicito il senso di comunità, si stanno sgretolando progressivamente. Senza questi contesti fa fatica a sopravvivere il sentimento stesso della compassione. Forse oggi le sole, fragili e mutevoli, idee di comunità che si sperimentano sono quelle dei social network. Per il resto si moltiplicano le recinzioni, di classe, di gruppo, di razza, e i rifiuti aggressivi.
Il solo collante comunitario che rimane sembra essere quello della paura.