Se un leone potesse parlare, noi non potremmo capirlo / Ghrahr! A colloquio col leone
Ghrahr!
Un giovane sbarbato, capelli neri pettinati all’indietro, camicia nei pantaloni e maglione sulle spalle, un libro nella mano sinistra, comincia a declamare una poesia. Ad ascoltarlo ci sono giusto tre anime, quantomeno singolari, trattandosi dei tre leoni dello zoo di San Francisco. E’ il 1966. Reading Poetry to Lions, uno dei dieci episodi della serie televisiva USA: Poetry di Richard O. Moore, è dedicata al poeta beat americano Michael McClure, o Pat McLear come è chiamato in Big Sur di Jack Kerouac, che lo include anche ne I Vagabondi del Dharma e in Angeli della desolazione.
Rinchiusi in gabbie minuscole, i tre ignari leoni ascoltano la poesia Tantra 49, una delle 99 che compone il libro di McClure Ghost Tantras (1966, ripubblicato da City Lights nel 2013). La copertina, realizzata dall’artista californiano Wallace Berman, raffigura il poeta nelle vesti di un poco benevolo lupo mannaro. Berman realizzerà anche la copertina di un altro libro dell’amico McClure, Rebel Lions (1991), dove i «leoni ribelli» del titolo suonano in inglese come il plurale di «ribellione». In questo caso Berman sceglie uno dei suoi collage Verifax, con la foto di un leone.
Se l’artista Bruce Conner aveva realizzato una prima registrazione audio della poesia, con un sottofondo di suoni felini che, terminata la lettura, restavano i soli protagonisti, Reading Poetry to Lions è più ambiguo. Qui uno dei leoni non sembra apprezzare il poeta che, in un tentativo mimetico, spalanca la bocca, alza il tono della voce e comincia a ruggire. Il leone apre le fauci, s’inarca sulle zampe posteriori, balza in avanti con impeto. Solo la graticola sembra permettere il protrarsi di questa straziante successione di versi leonini. Con il procedere della lettura, tuttavia, si ha l’impressione che l’uomo e l’animale tessano una fragorosa trama comune, a volte in un canto e controcanto, altre volte all’unisono.
McClure non intende ammaestrare il leone o renderlo sensibile alla parola poetica. Ghost Tantras raccoglie una serie di esperimenti di quello che chiamava «beast language», una riproduzione – orale quanto grafica – del linguaggio animale. Un tentativo che rimanda alla poesia sonora di Kurt Schwitters o allo zaum, la poesia trans-razionale del futurismo russo (Alexei Kruchenykh e Velimir Chlebnikov). Un ponte tra Zurigo e San Francisco, tra dada e beat, complice Howl di Allen Ginsberg, letto per la prima volta alla Six Gallery Reading nel 1955 cui McClure partecipa.
Guardando per la prima volta il filmato di McClure, senza conoscere il testo della poesia, ero rimasto colpito dal poeta che, quando non fa altro che emettere suoni gutturali e laringei, non stacca gli occhi dal libro. Come se stesse seguendo una partitura, dove ogni ruggito ha la sua intonazione e durata. E’ esattamente quanto accade, perché gli ultimi otto versi di Tantra 49 sono una serie impressionante di 41 frasi che vale la pena di riportare per intero:
Grahhr! Grahhhr! Grahhhrrr! Ghrahhr. Grahhrrr.
Grahhrr-grahhhhrr! Grahhr. Gahrahhrr. Ghrahhhrrrr.
Ghrarrrr. Ghrahhr! Ghrarrrrr. Ghrarrrr. Ghrahhhrr.
Ghrahhrr. Ghrahr. Grahhr. Grahharrr. Grahhrr.
Grahhhhr. Grahhhr. Gahar. Ghrahhr. Grahhr. Grahhr.
Ghrahhr. Grahhhr. Grahhr. Gratharrr! Grahhrr.
Ghrahrr. Ghraaaaaaahrr. Grhar. Ghhrarrr! Grahhhrr.
Ghrahrr. Gharr! Ghrahhhhr. Grahhrr. Ghraherrr.
Steven Fama ci ha risparmiato la fatica di analizzarle una ad una: vi sono 6 Grahhr, 5 Ghrahhr, 4 Grahhrr, 3 Grahhhr, 2 Ghrarrrr, 2 Ghrahrr e 26 variazioni uniche. Una parola sospesa nel bianco e al centro della pagina, priva di ogni ancoraggio ai margini, di un’ordinata disposizione in un paragrafo giustificato. Se si legge ancora da sinistra a destra e dall’alto in basso, la potenza visiva del linguaggio è tale da formare un disegno, in cui i tratti sono costituiti da molteplici combinazioni di quattro lettere (A, G, H, R) e dal punto d’esclamazione.
Roar
Nel 1955 LIFE pubblicò un servizio su un petroliere texano cresciuto in un circo che, due anni prima, aveva acquistato un cucciolo di leone dallo zoo di Dallas. Blondie, questo il suo nome, diventò presto un «Living Room Lion», come suggeriva il titolo dell’articolo, un membro della famiglia che circolava liberamente in casa, si lavava nella vasca da bagno, portava sul dorso i bambini del quartiere, pacioso come un agnello.
Un’esperienza che deve aver fatto sogghignare Noel Marshall (produttore de L’esorcista), l’attrice Tippi Hedren e sua figlia, Melanie Griffith. Durante gli anni settanta si trasferirono in un ranch fuori Los Angeles, raccogliendo animali nati in cattività, abbandonati o maltrattati, provenienti da circhi, zoo o proprietari privati. Presto si ritrovarono con 71 leoni, 20 tigri, 10 puma, 9 pantere nere, 4 leopardi, 2 giaguari, senza dimenticare il «liger» Patrick, un ibrido nato da papà leone e mamma tigre. Il Simba più fido di quest’esotica arca di Noé si era così acclimatato all’ecosistema umano-animale da dividere il letto con l’allora tredicenne Melanie Griffith – roba da far impallidire San Girolamo. La poco premurosa mamma Tippi Hedren se ne pentì solo in seguito, fondando tra l’altro lo Shambala Wildlife Preserve, una riserva non-profit in difesa degli animali della savana.
Durante l’estate 1978, quando il conto degli animali non umani salì a 150, realizzarono finalmente un film (Roar, 1981), con una storia quasi vera: una famiglia si trova in casa circondata dai leoni, una versione felina de Gli Uccelli, in cui tra l’altro aveva recitato Tippi Hedren. Costato una fortuna, il film fu un flop; uscito solo in Europa, è stato distribuito negli Stati Uniti solo lo scorso anno, e non ha ancora raggiunto lo stato di cult movie che merita. Considerato come il film più pericoloso della storia del cinema, nei titoli di testa si legge: «Nessun animale è stato maltrattato durante la realizzazione di questo film, 70 membri del cast e della troupe lo sono stati». Chi collaborava al film era avvertito: prima o poi avrebbe suscitato l’attenzione famelica dei felidi. Infatti in questo film-documentario, girato con quattro e a volte otto telecamere per scena, non ci sono effetti speciali: quando un leone balza su un attore – per abbracciarlo o per morderlo – si tratta di un evento reale, di un’improvvisazione leonina. La scenografia del film si costruì così giorno dopo giorno, dettata dal comportamento imprevedibile della colonia animale. In barba ai vincoli budgetari di produzione, i leoni oziavano quando tutto era pronto per il ciac, e agivano repentini quando nessuno era attrezzato per registrare la performance. La colpa era però degli attori umani che, per girare il film, fingevano di essere spaventati dai leoni con cui convivevano in santa pace da un decennio. «Ma che diavolo gli ha preso a questi qui?» dovevano chiedersi increduli i leoni.
Se potesse parlare
«Se un leone potesse parlare, noi non potremmo capirlo»: difficile dire esattamente cosa intendesse Wittgenstein in questo passo apparentemente semplice delle Ricerche filosofiche; i leoni sono dotati di favella almeno dai tempi delle favole di Esopo. E che siano compresi (come precisa il poeta e addestratore di cani e cavalli americano Vicki Hearne in Animal Happiness) lo testimoniano quei dieci anni sotto lo stesso tetto degli attori di Roar.
Esistono diverse interpretazioni del passo delle Ricerche filosofiche, ognuna vuole spiegare cosa intendesse veramente Wittgenstein. Come se, in fondo, il leone e il filosofo viennese fossero legati dallo stesso destino: parlare senza essere capiti. Un’esperienza comune anche a chi non professa la filosofia di mestiere. Senza scomodare i leoni, Wittgenstein scrive anche che un uomo può essere un completo enigma per un altro uomo. Ghrahr! diventa allora un grido che viene dalla nostra interiorità, un’interiorità silenziosa che, quando si esprime, resta imperscrutabile per gli altri. Più ottimista lo slancio poetico di McClure che, nella quarta di copertina di Ghost Tantras, così incita i suoi lettori: «non ti preoccupare dei dettagli, lascia che le singole pronunce e vibrazioni si succedano, non cercare significati nascosti. Leggile a voce alta». Rivolte al leone, il fido leone risponderà – Ghrahr!