Gladwell, Davide e Golia
Davanti a tante pessime notizie che si leggono ogni giorno, sui quotidiani, nel web, o si ascoltano alla radio e in tv, vale la pena di procurarsi e leggere l’ultimo libro di Malcom Gladwel, Davide e Golia (tr. it. di D. Cormelati, Mondadori). Per chi ancora non lo conoscesse, bisogna dire che Gladwell è uno dei collaboratori di prestigio del “New Yorker”, autore di un libro davvero interessante, Punto critico (Rizzoli), uscito anni fa, e di altri stimolanti saggi. Giornalista di formazione scientifica, coltiva il gusto di dissolvere i luoghi comuni; si diverte a ribaltare le certezze diffuse anche tra i colti. Ora il sottotitolo del suo ultimo libro è: Perché i piccoli sono più forti dei grandi.
Per illustrare questo concetto è ripartito dal famoso duello tra il gigante filisteo, Golia, e il giovane pastore israelita, Davide. Una storia che conosciamo tutti, dove un ragazzino fromboliere abbatte e decapita il guerriero armato di tutto punto e di dimensioni fuori dalla norma, tremila anni fa nella valle di Elah. Puntiglioso com’è, Gladwell spiega, sulla scorta di studi medici, che Golia soffriva di acromegalia, un tumore benigno che fa diventare molto alti ma abbassa la capacità visiva, ragione per cui il gigante non vide bene chi gli stava di fronte: voleva che gli andasse vicino. Ma quello da lontano lanciò il sasso mortale.
Ciò che interessa Gladwell è tirare fuori dall’episodio biblico idee valide ancor oggi. Fa due riflessioni. Primo: buona parte di ciò cui diamo valore nel mondo attuale, deriva da conflitti ad armi impari, “perché l’atto di confrontarsi con situazioni estremamente difficili produce grandezza e bellezza”. Secondo: spesso non leggiamo correttamente questi conflitti; i giganti non sono mai come noi ce li figuriamo, e la loro forza sovente è causa di grande debolezza. Ci vuole una guida, Gladwell stesso. Ci presenta così nove casi paradigmatici, da un allenatore di basket che inventa una strategia vincente per la squadra della figlia (in modo simile a come fece Lawrence d’Arabia) a un pastore protestante che si oppone ai nazisti in un villaggio francese di montagna, passando per una brava studentessa americana di scienze che fallisce nella carriera di universitaria in una delle migliori università, poiché non applica la mossa del cavallo, riuscita invece agli impressionisti francesi, fino ad arrivare al caso di Wyatt Walker, il ministro di culto battista dello staff di Martin Luther King che inventò la strategia vincente nelle lotte antirazziali degli anni Sessanta (tema di grande attualità con i disordini, le rivolte e i conflitti in corso).
Malcom Gladwell
Ognuno di questi casi esaminati dall’autore, per quanto non tutti della stessa evidenza narrativa e argomentativa (il libro di Gladwell sconta infatti una certa discontinuità nelle esemplificazioni), varrebbe la pena di essere raccontato e commentato. Forse quelli che lo meritano di più – scelta personale – sono quelli di Vivek Ranadivé e di Caroline Sacks, per via della loro esemplarità, ma anche per la loro applicabilità alla vita di tutti i giorni. Ranadivé è un immigrato indiano di carattere tenace, figlio di un pilota di aereo; gli è riuscito d’entrare al mitico MIT e poi di lavorare nell’industria informatica. Presa in mano da assoluto ignorante la squadra di basket della figlia, composta di schiappe, si è inventato una strategia basata sul marcamento stretto delle giocatrici avversarie. Fatta la rimessa, è usuale nel basket lasciare avanzare gli avversari e stringersi in difesa sotto il proprio canestro. Le ragazze di Ranadivé compivano invece un’azione continua di pressing. In questo modo disorientavano le avversarie e andavano più facilmente a canestro. Fatte le dovute proporzioni Gladwell paragona la strategia delle giocatrici di basket a quella applicata da Lawrence nell’assalto di Aquaba, la città dove sconfisse l’esercito turco con i suoi beduini. Morale: se c’è “un ordine di vantaggi che ha a che fare con le risorse materiali, ce n’è un altro la cui particolarità è l’assenza di risorse materiali”. Basta intravederlo e applicarlo, tenendo conto che “le strategie degli svantaggiati sono faticose” (le cestiste correvano a perdifiato per tutto il campo).
Caroline Sacks è invece una ragazza americana molto versata nelle scienze e brava a scuola. Una volta arrivata all’università sceglie una delle migliori possibili, la Brown University, scartando una piccola università nel Maryland. Risultato: si è trovata a essere un Pesce piccolo in Grande Stagno. Brava in mezzo a bravissimi, ha abbandonato gli studi scorata, perché non ce la faceva a tenere il passo dei colleghi superdotati. Gladwell suggerisce che la strategia giusta per Caroline sarebbe stata quella di essere un Pesce Grosso in un Piccolo Stagno, iscriversi in un’università meno prestigiosa, cosa che avrebbe favorito la sua carriera di scienziata. Per suffragare la sua tesi è andato a verificare le statistiche degli abbandoni universitari e quelle delle pubblicazioni dei laureati, seguendo le università di provenienza e la continuità nella produzione. Risultato: “i migliori studenti usciti da scuole mediocri erano quasi sempre una soluzione più interessante rispetto ai bravi studenti usciti dalle scuole più rinomate”. Caroline Sacks ha sperimentato quella che i sociologi chiamano la “privazione relativa”.
Il suo scopritore, Samuel Stouffer, l’ha individuata durante la Seconda guerra mondiale esaminando un numero altissimo di persone. Le nostre impressioni, sosteneva, non prendono forma da un approccio globale, da un contesto il più ampio possibile, bensì da una visione locale, dal paragonarci alle persone che “sono nella nostra stessa barca”. Risultato: il senso di privazione di cui soffriamo è sempre relativo. Caroline ne ha fatto le spese e, seppur molto dotata, depressa ha abbandonato gli studi. Un esempio su scala più vasta? I paesi con il tasso di suicidio più alto sono quelli in cui i cittadini dichiarano di essere più felici: Svizzera, Danimarca, Islanda, Olanda, Canada. Mentre gli abitanti di Grecia, Italia, Portogallo e Spagna, che si descrivono come poco felici, non hanno la stessa propensione.
Se sei depresso in un paese in cui tutti si sentono infelici, scrive Gladwell, non ti senti poi così male. Ma essere depressi in un paese cui tutti hanno il sorriso stampato in faccia, che effetto fa? Naturalmente Davide contro Golia è più raffinato e complesso di come lo sto qui riassumendo, tanto è vero che espone, seppur in nota, autorevoli tesi opposte alla sua. Gli espressionisti, i celebrati pittori francesi, fecero il contrario di Caroline: scelsero di essere un Pesce Grande in Piccolo Stagno. Esclusi dal Salon ufficiale, o ammessi malamente, trovarono uno spazio all’ultimo piano in Boulevard des Capucines, nello studio di un fotografo, ed esposero da soli il 15 aprile 1874 le loro 165 opere: Cézanne, Degas, Monet, Pisarro, Renoir, Sisley. Arrivarono 3500 visitatori, e i giornali ne scrissero. Conclusione: essere outsider si rivela tutt’altro che uno svantaggio. Di questi tempi la “privazione relativa” aiuta probabilmente più di ogni altra cosa. Forse bisognerebbe rivalutarla.
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