I paradossi della cultura
Cultura: un patrimonio per la democrazia (Vita e Pensiero 2023) di Olivero Ponte di Pino affronta un temino da nulla: il punto di equilibrio tra cultura e democrazia in un momento di grandi trasformazioni sociali, tecnologiche, normative ed economiche e in un paese caratterizzato da grande fermento di politiche culturali, da atteggiamenti ma soprattutto da pratiche e comportamenti riguardo alla cultura, alla sua protezione e alla sua valorizzazione non lineari e spesso contraddittori. I lettori di Doppiozero ben conoscono la vita, le opere e il pensiero di Oliviero, per cui non fa notizia la constatazione che il libro è ricchissimo di spunti e di rimandi, che lo stile è militante e che le domande superano le risposte. Basti dire che il primo capitolo si apre con il titolo “Cultura e democrazia” e il primo paragrafo con la domanda “due parole male assortite?”
Fatte queste premesse, è difficile affrontare i tanti temi presenti nel testo. Per tenere fede allo spirito della collana in cui il libro è pubblicato – piccola biblioteca per un paese normale – ho quindi scelto di concentrarmi sul capitolo 3 del libro, che più riguarda la (assenza di) normalità. “Insomma, l’Italia non è un paese normale. Siamo un paese geniale. Purtroppo, i motivi per cui non siamo un paese normale sono anche altri. E non abbiamo ragione di vantarci” (p.43)
Nel capitolo, la tesi della italica non normalità – dal punto di vista culturale – è sostenuta attraverso l’identificazione di otto paradossi, che ci ricordano che in un paese normale esiste coerenza fra dichiarazioni di principio e scelte, fra priorità dichiarate e risorse allocate, e continuità fra leggi e loro applicazione.
Già l’incipit del capitolo, “la grande bellezza”, merita un commento. L’idea di bellezza come vanto collettivo arriva da lontano: il decorum e l’urbanitas erano valori della Roma imperiale e spesso trovavano rappresentazioni in abbellimenti cittadini di varia natura; la straordinaria varietà dei paesaggi in una estensione relativamente contenuta unita alla altrettanto straordinaria varietà dei monumenti, dei luoghi protetti, dei prodotti tipici e dei saperi collegati alla loro produzione e della loro capillare distribuzione nazionale dovrebbero portarci a ricercare e coltivare il bello in tutte le sue forme, anche perché quello dell’Italia patria del bello è uno degli slogan che – insieme alla cultura come petrolio del paese – rimane un popolarissimo evergreen nel racconto collettivo del paese. Ora, è ben vero che lo 0.5% della superficie del paese e l’8,82% delle coste sono protetti, che abbiamo il più alto numero di siti UNESCO del mondo e che siamo stati baciati dalla fortuna al momento della creazione, ma la cura del nostro verde urbano (salvo lodevoli eccezioni) ha ampi spazi di miglioramento, e – tanto per dirne una – consumiamo suolo alla velocità di oltre 2 metri quadrati al secondo nel 2022 (ISPRA 2022). Il cemento ricopre ormai 21.500 km2 di suolo nazionale e in 9 regioni il 100% dei comuni è a rischio idrogeologico, con buona pace dell’armonia fra uomo, città e natura su cui tanti pensatori, governanti, artisti e architetti patrii hanno speso attenzione, energia e risorse nel corso dei secoli. La grande bellezza va rispettata, valorizzata, ricercata; mi pare che fra ecomostri, opere incompiute, edifici abbandonati e vandalizzati, pattume diffuso, superfetazioni creative – ivi comprese le stratificazioni di segnaletica, arredo urbano, insegne e orpelli di varia natura – la grande bruttezza e la grande sciatteria abbiano ampio spazio per esprimersi e come minimo pari dignità rispetto ai valori estetici che tanto frettolosamente e pervicacemente celebriamo. Se ogni volta che accostiamo la parola bellezza alla parola cultura innaffiassimo un albero, raccogliessimo un mozzicone e una cartaccia o ci imponessimo di osservare un’opera d’arte in un museo per un minuto (il tempo medio di permanenza davanti a un’opera d’arte è di circa 33 secondi, quindi si tratterebbe di raddoppiare lo sforzo, il che mi pare ragionevole, visto che si tratterebbe di pagare un doveroso tributo di ammirazione) forse aiuteremmo la grande bellezza a dispiegarsi in modo più efficace.
Il primo paradosso segnalato dall’autore riguarda il fatto che la cultura è alla base dell’identità nazionale, ma la partecipazione culturale è molto scarsa. “I consumi culturali in Italia sono spaventosamente bassi. Nel 2021, il 40% egli italiani non ha fruito di spettacoli o intrattenimenti fuori casa o non ha letto quotidiani o libri” (p. 44) A me pare che una questione fondamentale qui sia la calante familiarità “media” degli italiani con la cultura; data l’esplosione di offerta culturale degli ultimi anni mi preoccupa non tanto il fatto che “in generale” si legga meno, si vada meno al cinema, si frequentino meno le biblioteche, ma che aumenti il divario fra chi ha familiarità con la cultura (che ne ha mediamente sempre di più) e chi ne fa tranquillamente a meno. Poiché la cultura è bene esperienziale (fino a quando non la provi non sai quanto è potenzialmente interessante, stimolante e divertente), se sempre meno persone sono esposte, sempre più difficile sarà stimolarle e coinvolgerle. E quindi propongo una massiccia iniezione di pratica amatoriale: a ben pensarci il confine fra pratica, produzione e partecipazione culturale è netto sul piano concettuale, ma estremamente sfumato nei fatti. Fra chi pratica e si diverte praticando ci sarà chi scopre un talento artistico e vorrà coltivarlo; e chi pratica e si diverte sarà più facilmente incuriosito e disponibile a “consumare cultura”. E chi consuma cultura e si appassiona consumando migliora la sua capacità di discernimento e può più facilmente diventare esperto e progressivamente sollecitato ad alzare lo sguardo e allargare gli orizzonti.
Una prima conseguenza negativa dello scollamento descritto nel paradosso n.1 si vede nell’esistenza del paradosso n.2: la nostra Costituzione sostiene la cultura, ma l’investimento pubblico nel settore è scarso. “Nonostante l’enfasi posta dalla Costituzione, la cultura si trova intrappolata in un circolo vizioso. Lo scarso interesse degli italiani, che si rispecchia nelle loro abitudini di spesa, si riflette nello scarso investimento pubblico, anche se per colmare il deficit di partecipazione dovrebbe accadere il contrario” (pag 48). L’oggettiva ricchezza di patrimonio culturale nel nostro paese e l’esistenza dell’articolo 9 della Costituzione porterebbero a immaginare un’incidenza nelle spese pubbliche in cultura superiore rispetto alla media europea. Sappiamo che non è così; non è solo una questione di risorse allocate, ma anche di come questa allocazione di risorse sia considerata centrale per attivare altri processi. Diciamo che la cultura è alla base dell’identità nazionale perché ad essa si fa riferimento stabile nella comunicazione istituzionale: dall’art.9 al retro delle monete alle tappe dell’ospitalità istituzionale di visitatori stranieri sappiamo che il patrimonio culturale è tenuto in gran conto.
Ancora, abbiamo reti articolate di presìdi culturali pubblici sul territorio nazionale, dalle sovrintendenze ai sistemi bibliotecari ai circuiti dei teatri di tradizione riconducibili in modi diversi e attraverso strutture e meccanismi dedicati a un ente coordinatore a livello nazionale, il MIC. Per quanto le cinghie di trasmissione non siano oliate e il sistema sia perfettibile, si tratta comunque di un complesso presidio organizzativo che molti altri paesi non hanno. Abbiamo risorse pubbliche obbligatoriamente dedicate alla cultura per dettato costituzionale: poche o tante che siano ci sono e continuano ad esserci, pur se erose. Il punto è che le risorse non sono importanti solo dal punto di vista quantitativo, ma anche qualitativo. Il valore strategico della cultura si misura anche dal fatto che ogni euro pubblico speso in cultura dovrebbe essere sponda per altri investimenti, per generare ricadute di varia natura. Ad esempio, mi sembra incredibile che cinque anni di investimento pubblico su18app non abbiano prodotto conoscenza condivisa su come i nostri giovani adulti abbiano impiegato queste risorse.
Ne ho anche scritto a suo tempo su Doppiozero ed è stata voce di uno che grida nel deserto. Se la cultura deve davvero essere alla base della nostra identità nazionale, mi sarei aspettata una attenzione spasmodica a osservare come questa identità si reifichi in comportamenti d’acquisto, come a livello territoriale, forme culturali, autori, idee, temi e soggetti siano messi in relazione da diciottenni lasciati liberi di scegliere grazie a uno straordinario regalo. Sarebbe stato interessante e utilissimo per gli operatori culturali, che avrebbero individuato senza fatica possibili alleati nello sforzo di far crescere non solo il loro mercato, ma anche collettivamente la consapevolezza dell’importanza di avere la cultura come pratica quotidiana. Non solo questo investimento pubblico in cultura non è stato completamente messo in relazione con il rafforzamento dell’identità nazionale attorno alla cultura, ma lo spirito della legge è stato disatteso, legando 18app al reddito delle famiglie da un lato e ai risultati scolastici dall’altro.
Una sponda importante dell’investimento pubblico è la possibilità che sia utilizzato per attivare ulteriore investimento, per esempio di natura privata, nelle più varie forme. Anche in questo caso, si apre un tema non solo di quantità, ma anche di qualità. La conservazione del patrimonio e la sua valorizzazione sono operazioni di costruzione di identità in quanto sono pensate per un interesse collettivo. E quindi in questo senso le decisioni di allocazione di risorse per la conservazione e per la valorizzazione sono un grande atto di generosità e di lungimiranza, giacché sono pensate e realizzate per un beneficio futuro. È inevitabile che quanto più le risorse allocate dagli enti pubblici sono generose, tanto più efficace sarà lo sforzo di attivazione della generosità privata. Non solo: quanto più l’allocazione di risorse pubbliche sarà rigorosa, puntuale e quanto più la richiesta di render conto a chi gestisce sarà improntata alla costruzione di valore collettivo, tanto più credibile sarà l’ente pubblico nel sollecitare il contributo privato. La legge sull’art bonus è una buona legge, nel senso che è versatile, facile da interpretare e da usare, con un buon incentivo fiscale e soprattutto orientata a costruire identità attorno alla cultura. La interpretano così mi pare i tanti piccoli donatori privati che partecipano al restauro di opere d’arte, di fontane, di libri o al sostegno di attività di spettacolo. Alcuni privati preferiscono invece investire per svolgere direttamente una funzione pubblica: credo sia importante interrogarsi pacatamente sul motivo di queste scelte.
E veniamo al paradosso 4, quello che recita: “la cultura è il nostro petrolio, ma l’Italia fatica a produrre turismo di qualità” (pag 51). È indubbio che l’investimento in cultura produca anche importanti ricadute economiche e che il turismo sia uno dei settori più beneficiati da un settore culturale vitale. Anche in questo caso, mi pare ci sia una certa differenza fra considerare la cultura come il nostro petrolio o come il nostro sole. Non c’è bisogno che la cultura abbia valore identitario per massimizzare i ritorni economici di natura turistica: la rarità, la notorietà e l’imponenza delle nostre bellezze sono potenti attrattori. Tuttavia, siccome non siamo soli nell’universo e sono tanti i paesi che puntano sul turismo come driver di ricchezza, sarà bene lavorare molto di più sulle condizioni al contesto, ivi comprese le moltissime esternalità negative collegate a questo settore. In epoca di Agenda 2030, mobilità sostenibile, contrasto all’overtourism e alla gentrificazione, esperienza on site e digitale, destagionalizzazione sono tematiche drammaticamente rilevanti. Le code davanti ai musei sotto il sole sono lette con soddisfazione come indicatori di popolarità e successo commerciale da parte di alcuni amministratori e alcuni giornalisti, ma non credo contribuiscano alla soddisfazione di una esperienza di visita. Per carità, ci sono state persone in coda a Expo 9 ore per visitare lo stand del Giappone e la coda forse per loro era un fine e non un mezzo…. ma mi sembra che nella crescente competizione fra destinazioni il tema della qualità dell’esperienza e della efficienza dei servizi siano centrali.
Se però la cultura è elemento identitario, la logica estrattiva non è sufficiente: occorre che la cultura sia il nostro sole, la nostra fonte di energia rinnovabile. E quindi anche la valorizzazione economica deve essere pervasiva e riguardare una molteplicità di settori: quello turistico senz’altro (o meglio quelli turistici, visto che di segmenti da affrontare ce ne sono diversi), ma quello del restauro, della ricerca e della formazione, della cura del verde. È un made in Italy che può dispiegarsi in tantissime direzioni e farci beneficiare di un importante vantaggio reputazionale di paese. Ma bisogna essere molto determinati, molto rispettosi della nostra cultura e molto coerenti. In altre parole, dobbiamo prendere la cultura più sul serio.