Speciale

I raid nell’arte: il Futurismo

14 Gennaio 2012

Una delle linee seguite dall’arte d’avanguardia nei suoi percorsi lungo il Novecento è consistita nella sistematica e proclamata rottura dei molteplici limiti posti dalla tradizione. La forma umana, paesistica e oggettuale viene sconvolta negli equilibri compositivi e nei punti di vista prospettici, negli accostamenti cromatici e nell’approccio naturalistico da successive ondate di sabotaggio e scavalcamento. Gli artisti, così come gli eroi delle guerre antiche e moderne, si considerano esseri fuori dal comune, toccati dalla divinità; tale visione continua anche nel Novecento e anzi s’inasprisce a causa del confronto sempre più pressante ed acceso con il pubblico e la committenza borghesi. L’aggressività rivendicativa si fa gruppo organizzato, in prima battuta spesso chiuso in un ostinato autoriconoscimento, ma pure portato alla guerriglia verso la società che lo circonda al fine di operare sempre nuovi shock percettivi. Il quadro che esplode verso l’esterno, agitato dal movimento futurista o infiammato dal cromatismo fauve, va di pari passo con le ripetute incursioni fuori dalla stanza dell’artista considerata ormai alla stregua di un carcere. Per far ciò il gruppo d’elite mette a punto i propri strumenti per l’azione sotto l’aspetto di propedeutiche, articolate e provocatorie dichiarazioni di poetica. I manifesti sono, da questo punto di vista, annunci e rivendicazioni del raid e, nello stesso tempo, costruzione tecnica ed affilata dell’arma nel modus operandi del più esperto guerriero. La linea che maggiormente ci interessa, tra quelle dell’esasperata ricerca del nuovo portate avanti dalle avanguardie, verte appunto sull’allargamento, per mezzo di atti dimostrativi in forma di raid, dei confini ristretti dell’estetico tradizionale. Nell’attuare tale progetto una prima linea ha attuato il raid nel corpo della realtà cercando di abbattere le pareti del carcere di cui si diceva sopra. Questo tentativo ha trovato vari interpreti nel corso del secolo passato; i capostipiti sono i futuristi con una tendenza che opera sul territorio volendo snidare il pubblico là dove si trova e coinvolgerlo in raid fisici d’impatto visivo e piegatura spesso teatrale.

 

I manifesti futuristi rappresentano delle precise dichiarazioni programmatiche basate sulla contrapposizione e finalizzate alla distruzione. Tali elementi sono presenti nelle esplicitazioni di poetica riguardanti tutte le arti investite dal movimento. Ci concentreremo in particolare sul teatro convinti che per Marinetti, il leader indiscusso della prima avanguardia novecentesca, il rapporto con il teatro “fu talmente costante da rappresentare la parte più significativa della sua opera” (G. Antonucci). In questa forma spettacolare, a diretto contatto con gli umori del pubblico, la provocazione dei gruppi futuristi si poteva di certo attuare in modo più diretto, efficace e pubblicitario, trasformandosi in veri e propri raid artistici e politici. Marinetti esordisce in Francia con opere teatrali prefuturiste (Le Roi Bombance 1905, Paupées életriques, 1909) in cui si mescolano forte eredità simbolista e motivi più innovativi, ma ancora una volta dà il meglio di sé nella redazione dei manifesti. L’animatore del movimento, a testimonianza dell’attenzione appena ricordata per il teatro, torna per tre volte a rilanciare le sue proposte per la nuova arte drammatica: esordisce con il Manifesto dei drammaturghi futuristi (ottobre 1910), arricchisce la sua teoria in modo decisivo con Il Teatro di Varietà (settembre 1913) e infine, insieme a Bruno Corra ed Emilio Settimelli, espone un’ulteriore, puntuale serie di tesi in Il teatro futurista sintetico (gennaio-febbraio 1915). Il contributo più geniale e fecondo (per esempio rispetto al gruppo Dada del Cabaret Voltaire) è senz’altro rappresentato dal secondo manifesto. L’introduzione segnala già chiaramente, con l’ormai consueta violenza, il tema centrale nel Futurismo del rifiuto del presente, in quanto ripiegato sul passato in forme ripetitive, costruttivamente razionalistiche ed insopportabili per lentezza rispetto alla contemporanea era della velocità:

 

Abbiamo un profondo schifo del teatro contemporaneo (versi, prosa e musica) perché ondeggia stupidamente fra la ricostruzione storica (zibaldone o plagio) e la riproduzione fotografica della nostra vita quotidiana; teatro minuzioso lento analitico e diluito, degno tutt’al più dell’età della lampada a petrolio. (p.91)

 

Dall’opposizione primaria e seminale presente-passato/futuro se ne snoda una lunga serie, scandita in punti, che provvede all’esaltazione del Teatro di Varietà. Al primo punto se ne ribadisce la modernità (“nato con noi dall’elettricità”) e riscontra la struttura oppositiva: “non ha fortunatamente tradizione alcuna, né maestri, né dogmi e si nutre di attualità veloce”. Alcuni punti sono dialettici al loro interno, altri, puramente negativi, sottintendono il loro contraltare e bersaglio, ed altri ancora propositivi fanno comunque balenare ilversus da colpire e abbattere nella prospettiva di superamento tipica delle avanguardie. Così il teatro di varietà “è naturalmente antiaccademico, primitivo e ingenuo” (n°14) e alla psicologia oppone la “fisicofollia”, ovvero “l’azione, l’eroismo, la vita all’aria aperta, la destrezza, l’autorità dell’istinto e dell’intuizione” (n°18). Le indicazioni teoriche sono molte ma in genere strettamente legate ai modi d’attuazione del programma; per esempio il riso nelle forme della parodia e dei motti, “della balordaggine e dell’assurdità che spingono insensibilmente l’intelligenza fino all’orlo della pazzia” (n°5) o la ripetizione che “deprezza sistematicamente l’amore ideale e la sua ossessione romantica” (n°13) svelando, tra l’altro, oltre le maschere artistiche e le ipostasi sociali la natura ferina del maschio e la perfida seduttività femminile (n°9). Inoltre si sottolinea il carattere di cimento fisico, forza e velocità, degli attori che, avendo quale fine lo stupore (n°3), “creano sulla scena la forte e sana atmosfera del pericolo” (n°10) con salti della morte, esibizioni meccanizzate etc. Tuttavia il Teatro di Varietà appare ancora una forma primitiva e inconsapevole su cui dovrà agire, impossessandosene, l’elite futurista. Di qui una seconda parte del manifesto che porta all’estremo le possibilità insite nella forma già esistente e che è riassumibile all’inizio del primo punto:

 

Bisogna assolutamente distruggere ogni logica negli spettacoli del Teatro di Varietà […] moltiplicare i contrasti e far regnare sovrani sulla scena l’inverosimile e l’assurdo. (p. 96)

 

Ecco quindi di nuovo una serie di accorgimenti pratici che toccano l’abbigliamento degli attori e la forma dei testi (accorciati, interrotti, sovrapposti). Quanto al pubblico si suggerisce, per esempio, di cospargere i posti di colla e polvere pruriginosa, “vendere lo stesso posto a dieci persone, offrire posti gratuiti a signori o signore notoriamente pazzoidi, irritabili o eccentrici” (n°2). Certe immagini lasciateci dagli artisti sulle manifestazioni del loro movimento, come quella realizzata da Boccioni già nel 1911 in cui si mostra la folle agitazione del palco gremito, accompagnata da un’orchestra strepitante sullo sfondo di quadri caotici e provocanti, ci danno un’approssimativa idea di una serata futurista. A ciò possono contribuire le cronache dei giornali, scandalizzate e affascinate secondo una logica ripresa con molteplici spunti dai più vari esperimenti compiuti dall’arte di fronte al pubblico lungo tutto il Novecento, ma pure dai concerti rock, dai rave party o da alcune performance politiche.

 

Scrive Claudia Salaris che “la serata si trasforma quasi sempre in una guerra in miniatura che esige il più viscerale coinvolgimento dello spettatore.” Del resto la stessa studiosa ricorda che l’organizzazione del movimento è strutturata al modo di un partito con uffici, segreteria, cellule e sezioni sul territorio per raggiungere capillarmente le masse e si muove nello spazio come “una macchina da guerra” mescolando cultura militare ed estetica. La squadra futurista dunque prepara a casa i propri scioccanti strumenti di battaglia e si reca sul luogo per leggere poesie, presentare quadri o opere teatrali con un’azione rapida e distruttiva della sacralità del luogo stesso e di quanto di solito vi veniva rappresentato. A cadere sotto i colpi della provocazione istantanea del raid dovevano essere le antiche forme cristallizzate nella passività del pubblico attraverso il suo coinvolgimento in una catarsi spinta fino alla violenza fisica. Il ritorno dei “giovani artiglieri in baldoria” (n° 5) al loro campo base o alla questura, che ancor meglio certificava l’avvenuta trasgressione del limite, lasciava nel campo avverso le macerie dell’arte passatista generate dal danneggiamento.

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