Il Cerchio delle ripetizioni felici
Da molti anni io e Lucetta Scaraffia perseguiamo in modo differente e con intenzioni differenti un comune obiettivo. Il motivo iniziale di questa ricerca è lo stupore di entrambi di fronte all’evidenza di una base comune alla preghiera e ai riti che si indirizzano al divino, base che ha come oggetto quella corona di grani che prende cultura per cultura nomi diversi, ma ha un uso pressoché simile.
A partire da questo cerchio di grani si possono seguire i contatti evidenti tra differenti ma adiacenti religioni. Dalle culture dell’Indo al viaggio che il buddhismo percorre verso nord e verso est attraversando il Tibet, la Cina, giungendo fino in Corea e in Giappone e a sud verso la penisola indocinese, i grani di preghiera si diffondono come oggetto quotidiano in buona parte dell’Asia. In centro Asia essi vengono a contatto con la corrente mistica del sufismo rappresentata da Jelal Addin Rumi. Questi adotta il rosario di grani e lo porta all’interno del mondo islamico in Medio Oriente e a quello che si affaccia sul Mediterraneo (da qui si diffonde nell’islam del Maghreb e in quello dell’Africa dell’Ovest). A Konya, dove Rumi si insedia, lo strumento circolare “contagia” l’ortodossia e diventa la base per la preghiera continua dell’esicasmo. Il contagio si sposterà ancora più ad occidente quando sarà la Chiesa cattolica a prendere il cerchio dei grani come simbolo per eccellenza della preghiera alla Vergine.
Questo viaggio e questo contagio solo in parte documentato oggi è ricostruibile su una mappa del presente. Lo stesso stupore dello storico tocca l’antropologo nell’evidenza della fenomenologia diffusa dell’uso del rosario di preghiera nelle contrade più distanti e nei culti più lontani. Esso è perfino rintracciabile in una parte dello sciamanesimo come strumento che accompagna la trance o come oggetto atto a guarire. La vastità della sua diffusione è tale che spesso non c’è culto di nuove sette che non nasca con l’adozione di una variazione dello stesso rosario di preghiera. D’altro canto nella storia del cerchio dei grani c’è quello delle distinzioni tra religioni o tra aspetti diversi della stessa religione che si basano proprio sul numero diverso dei grani, sul modo di dividerli, sui materiali ritenuti opportuni o no, sull’uso, che si tratti di ripetizione o di ripetizione interrotta, a seconda che i fedeli mirino al raggiungimento di uno stato fisico differente.
Quello che è sicuro è che il cerchio dei grani è uno strumento che rappresenta e provoca la natura ripetitiva, circolare e continua del pregare. Queste tre caratteristiche sono rintracciabili in buona parte dei culti e dei rituali. Per un verso il cerchio dei grani è in qualche modo l’accompagnamento o la sostituzione di un rituale di circum-ambulazione, intorno a una montagna, a un fiume sacro, alla statua di un fondatore o di un santo, a un oggetto o a un testo sacro. È un pellegrinaggio che si opera stando fermi o in movimento. Esso riassume la natura di “movimento” della preghiera stessa, anche quando essa sembra statica. Il cerchio dei grani è il ritmo del respiro, il ritmo dell’invocazione, la scansione del tempo assunta come occupazione sacra del tempo da parte dell’orante. L’orante nella sua invocazione o nella sua ricerca del divino all’esterno o all’interno di sé riproduce lo spostarsi delle costellazioni, il passaggio del giorno, il movimento circolare delle stagioni. C’è una connessione impressionante tra la necessità della preghiera circolare e la necessità di “definire” il tempo.
La storia del conteggio del tempo e dell’invenzione degli strumenti per contarlo è legata intimamente all’aspetto circolare della preghiera. Il primo orologio ad acqua viene inventato in Cina per sostituirsi al ritmo rituale dello spostamento dell’imperatore all’interno del palazzo imperiale. Il cerchio dei grani è uno strumento di preghiera ma al tempo stesso rimane uno strumento di conta, un pallottoliere che rende sacro il calcolo e in molte culture diventa un vero e proprio strumento di calcolo. C’è una connessione evidente della circolarità della preghiera con le scienze della divinazione e con le conseguenze matematiche e geometriche di questa numerologia sacra.
L’altro elemento, quello della ripetizione, ha stupito in me l’antropologo ed in Lucetta Scaraffia la storica.
Perché questa impressionante costanza dell’uso della ripetizione nella preghiera? Perché quando l’orante o gli oranti si rivolgono alla divinità lo fanno con “insistenza”. Qualcosa che all’interno delle teologie più elaborate, ma anche dei sistemi religiosi più semplici viene considerato un assurdo: convincere Dio. Eppure sembra che nella natura di “addressing” dell’invocazione, del “tu” rivolto alla divinità, l’insistenza sia una evidenza diffusissima. Non solo si chiede in maniera ripetuta alla divinità qualcosa, ma la si loda in maniera incessante. Questa ripetizione di formule, mantra, orazioni, invocazioni ha una natura doppia: da un lato ribadisce l’occupazione e la creazione di un tempo continuo “nuovo”, quello dell’orante, dall’altra riguarda proprio “l’efficacia” della preghiera stessa. Più si prega e più è probabile che le cose vadano come è giusto che vadano, ma non che vadano come andrebbero senza la preghiera. Siamo dentro a una delle questioni più importanti dell’antropologia religiosa, quella della efficacia simbolica come l’ha definita per la prima volta Levi-Strauss. Il rito e la preghiera hanno per l’orante una reale efficacia, portano al miglioramento, all’ascesi, alla guarigione, a una forma di salvezza dal tempo – e nel – tempo, un tempo che viene rimodellato dall’uso della ripetizione.
L’altro aspetto connesso a questi primi due, circolarità e ripetizione è la “conseguenza fisica” della preghiera. La preghiera implica il corpo, anzi essa ha come matrice il tempo e i movimenti interni ed esterni del corpo. La preghiera è fedele al battito cardiaco, al respiro e addirittura in molti rituali essa è assimilata a questi movimenti che da involontari diventano volontari. C’è una natura biologica della preghiera che è impressionante, e che tratta il corpo come un centro di coscienza totale, da realizzare proprio nell’identificazione di sé con il ritmo del proprio corpo. E c’è un aspetto esterno dello stesso movimento che diventa “automatismo guidato” nell’ondeggiare, nel genuflettersi, nel danzare, nel ruotare, nel gemere e nel respirare collettivo che diventa musica. Inutile dire che il cerchio dei grani è alla base di buona parte della musica e del canto individuale e collettivo. Esso è il pentagramma circolare intorno a cui si riscrive la storia della voce e del lamento che diventa un canto e un ritmo.
Tutto questo prende spesso l’aspetto di una trance. È chiaro che il respiro ritmico e forzato, il movimento ritmico, la ripetizione del soffio o della preghiera conducono a uno stato “diverso” che chiamare alterato è solo un eufemismo. Si tratta piuttosto di un’atletica e di un’ascetica dentro cui corpi e stati psichici vengono rimodellati e portano gli oranti a una condizione da raggiungere, sia essa un distacco dal mondo, sia una purificazione o il senso di una immersione in una totalità o quello del perdersi gioioso o rapito nella divinità. Tutto quello che abbiamo scoperto nel cerchio dei grani ci apre di fronte all’ultima evidenza, quella della necessità della preghiera come gesto continuo, come pratica, come maniera di non smettere mai di occupare il mondo dello spazio e del tempo con il tempo e lo spazio della invocazione.
Adesso allontaniamoci un momento dallo strumento che ci ha condotto attraverso un viaggio e un contagio impressionante. Cosa ci dice questa fenomenologia? Che della preghiera sappiamo molto meno di quello che pensavamo di sapere. Che essa rappresenta intanto un’esperienza umana che prescinde per alcune strutture di base dalle differenze di credi, fedi, religioni. Sembra che quando l’umanità si mette a pregare adotti delle pratiche che sono profondamente legate ad una dimensione psico-fisica comune. La preghiera non è l’invocazione spontanea e improvvisata di un individuo che alla Stanley Kubrick si rivolge al cielo in un anelito di speranza o di disperazione. Senza negare che possa anche essere questo, l’evidenza del fenomeno pregare ci racconta qualcos’altro: e cioè che la preghiera è una complessissima costruzione culturale dove individuo e collettività “montano” un sistema simbolico e pratico allo stesso tempo. È difficile separare la preghiera dalla cosmologia di una cultura, spesso è difficile tout-court separare il sistema religioso di un popolo dalla sua cultura. Quando ci si ritrova ospiti di una famiglia balinese, seppure in un centro turistico come Ubud, ci si stupisce della quantità di tempo e di spazio che la gente del posto dedica all’aspetto cultuale delle offerte e delle invocazioni alla divinità. Questo sistema di offerte, preghiere, sacrifici riempie la giornata come se non ci fosse tempo per altro. E diventa il senso del tempo, delle nascite come dei legami come delle morti. E questa evidenza vi segue dappertutto dove la preghiera viene vissuta non come un accessorio della giornata ma come la sua sostanza.
Ovviamente questa panoramica pecca di tutta la genericità del metodo comparativo, ma ne rivela anche il valore, perché non si possono chiudere gli occhi di fronte a un fenomeno così vasto e diffuso che necessita comunque di una spiegazione. Come mai il cerchio dei grani ha una diffusione planetaria? Si tratta di contagio, di diffusione o si tratta di una base comune da cui sorgono o su cui si installano poi le religioni “ufficiali” o le religioni come sistema sociale generale?
Questa generalizzazione è oggi necessaria perché va proprio contro la superficialità di un approccio relativistico che racconta ben poco della “natura” delle “culture umane”. È giunto il momento di considerare di nuovo l’importanza di un approccio comparativo alle religioni e la preghiera è un canale importantissimo per ricostruire questo approccio messo da parte dal lavoro delle scienze umane. C’è un aspetto scientifico, di ricerca che ci sta molto a cuore, proprio perché lo studio delle religioni è diffusamente considerato un campo “a parte” e abbastanza marginale, salvo poi doverlo recuperare per rispondere alle “urgenze” dello scontro tra civiltà e al carattere violento di questo scontro. E c’è un aspetto di missione che le scienze umane hanno nei confronti della società, quello di spiegare il perché delle differenze religiose, ma anche il perché della natura molto simile dei fenomeni religiosi. “La varietà dell’esperienza religiosa” ci interroga ancor oggi ma allo stesso tempo ci spinge a capire perché i conflitti, gli attriti, le violenze nascano proprio dalla insopportabilità della base comune da cui l’umanità costituisce la propria adesione a una fede o a un’altra.
La tolleranza religiosa è una questione epistemologica, non politica. Si tratta di capire come le differenze si installano su una base comune, e di capirlo rispettando ovviamente le differenze, ma anche ribadendo l’universalità dell’anelito che le sostiene. Questo approccio deve per forza dare fastidio a chi crede che la tolleranza sia una cappa da imporre o a chi crede che sia impossibile un confronto. Certo le strategie che le religioni adottano per confrontarsi si basano spesso su un “malinteso” per cui si costituisce l’alterità degli atri come condizione di rispetto per la propria. Le religioni e i loro praticanti non sono in genere interessati a gettare uno sguardo nella religione altrui e questa è una forma di buona costruzione di uno spazio di indifferenza. Ma c’è anche un’enorme casistica di quella che l’antropologa Unni Wikan chiama “risonanza”, rapporti tra religioni vicine che si visitano nel concreto laddove sono in gioco “i fatti della vita” e non le teorie. È quello che la Wikan ha trovato nel suo lavoro sui rapporti tra Islam e Induismo a Bali, ma anche nel cuore del Cairo ed è quello che raccontano i migliaia di santuari nel mondo che sono meta di pellegrini di fedi differenti.
La gente si affida alla sapienza dell’altrui religione per risolvere problemi urgenti e complessi. È una forma di comunicazione non diretta, ma per “risonanza”. E probabilmente è anche il modo in cui il cerchio dei grani si è diffuso nel mondo. È una pratica che viene incontro a chi ha un’esigenza di andare nel profondo del proprio vissuto psico-fisico. Ed è la stessa ragione per cui ci permettiamo di fare una mostra sul “Pregare”, sapendo bene quanto sia difficile oggi parlare di preghiera come base comune in un mondo in cui la trasformazione delle identità religiose in identità politiche allontana invece che avvicinare l’umanità.
Eppure “Pregare”, ne siamo convinti, è un’esperienza comune a buona parte dell’umanità perché non si tratta di una “presa di posizione”, ma della manifestazione di uno stare al mondo, uno stare che volenti o nolenti accomuna tutti. Ma nella pretesa di mettere accanto le diverse forme di preghiera ci accompagna una volta di più lo stupore di fronte alla gestualità che in maniera impressionante ricorre nelle manifestazioni religiose. È una volta di più il dominio del corpo che si afferma in queste manifestazioni, ridefinendo quelle “tecniche del corpo” che Marcel Mauss aveva indagato un secolo fa circa, tra l’altro dedicando alla preghiera uno studio proprio come “tecnica del corpo”.
La mostra che nella sua parzialità – la fenomenologia delle religioni è immensa – ci siamo permessi di montare è anzitutto una sfida: quella di voler capire, quella di non dare per scontato di sapere cosa è una religione e cosa non è, quella di avere bisogno oggi di una ridefinizione di universalità. Il cerchio delle ripetizioni felici come mi viene di chiamare il cerchio dei grani è una linea rossa che ci può aiutare, seguendola, a ridefinire oggi quali sono gli universali che ci aiutino a rispettare l’umanità altrui “come se fosse la nostra”. Un’impresa non facile, ma dentro cui con passione stiamo operando da vari decenni.