Il mio ritratto, domani
Monica, la protagonista del film di Marina Spada Il mio domani, frequenta un corso di fotografia, i partecipanti devono imparare a realizzare un autoritratto. La cosa è tutt’altro che semplice, non basta infatti mettersi davanti alla macchina fotografica, appoggiarla su di un cavalletto e aspettare l’automatismo dello scatto. Farsi un autoritratto significa desiderare che si realizzi un’effettiva immagine di sé, significa scegliere una posa, dare un’espressione al volto, decidere magari un ambiente o un abbigliamento particolari che ci rispecchino al meglio. Nella frazione di un secondo, ma con una forza che ha in sé qualcosa di definitivo, si deve condensare quello che siamo, deve apparire un’immagine che rifletta nello sguardo degli altri come ci dovrebbero effettivamente vedere o come vorremmo che ci ricordassero. Ma un’immagine di questo tipo in realtà non esiste, è soltanto un’idea, le immagini di sé riflesse nelle fotografie sono soltanto fantasmi di quello che non siamo mai stati.
Monica infatti non riesce a realizzare il proprio autoritratto, ogni volta che si predispone a farlo qualcosa della sua vita vissuta la porta via da quella attenzione che dovrebbe essere tutta per sé. Riesce regolarmente a rivolgere la macchina fotografica verso ciò che la circonda, ma non riesce a farla ruotare su se stessa per ritrarre la propria immagine. In effetti è un’operazione anomala, la macchina fotografica sembra esistere perché uno sguardo si posi alle sue spalle e decida, al momento giusto, d’immortalare quello che sta vedendo, così invece, la macchina fotografica assume una strana autonomia, è lì, solitaria, in evidenza e da quella solitudine in cui si staglia ci guarda, senza sapere quello che di noi sta effettivamente vedendo, di noi che a lei ci stiamo offrendo in tutta la nudità del nostro esserci. È una lotta impossibile contro il tempo, non ci si deve infatti semplicemente predisporre ad aspettare lo scatto imprevisto del fotografo, ma si deve direttamente andare incontro al momento prestabilito dell’autoscatto e così arriviamo a quell’appuntamento prefissato con noi stessi sempre in leggero affanno, ogni volta con un attimo di ritardo rispetto alla sua scontata realizzazione.
Il film, nel suo insieme, si dipana esattamente come un contrappunto a questa difficoltà, è il tentativo di restituirci un ritratto di Monica con le connotazioni di un autoritratto. Tratteggia l’esistenza di una donna colta nelle varie situazioni relazionali in cui la sua vita è immersa, ma mettendo in evidenza il momento in cui queste relazioni sembrano abbandonarla, rivelando lo sfondo della loro ambiguità, il fondo di ipocrisia che le contraddistingue, restituendola in questo modo a un necessario passaggio, apparentemente catartico, di perfetta solitudine. Eppure Monica sembra non confrontarsi con l’importanza di questi momenti, non si sente costretta a guardare se stessa, a cogliersi al di là di come si è sempre vista riflessa nel solo sguardo degli altri, ma è di nuovo solo in quel riflesso dove pensa di doversi ancora cercare. Forse la difficoltà a realizzare il proprio autoritratto risiede nel cercare di riprodurre la stessa immagine che lei cerca disperatamente nello sguardo degli altri e che sente di non trovare più. Ciò che sembra avvertire attraverso questa sottrazione è il solo mancare a se stessa, come se scoprendo di non essere presente come vorrebbe nello sguardo degli altri non le restituisse altro che la consapevolezza di non esistere affatto.
Monica infatti non si trova più nello sguardo del padre che regolarmente va a trovare nella sua casa in campagna, nella speranza che la propria presenza si riveli per lui di conforto, mentre il padre, immerso nelle sue abitudini, nell’immobilità di quel paesaggio sempre uguale a se stesso, non aspetta altro, come d’altronde avverrà, che di morire. Non si trova più nello sguardo dell’uomo che crede di amare, un uomo più adulto di lei, sposato, in una posizione di maggiore responsabilità nel suo stesso ambiente lavorativo, un uomo che si rivela soltanto capace di assecondare autonomamente i cambiamenti della propria vita, senza tenere minimamente conto delle conseguenze che queste scelte possono avere per la loro relazione. Non riesce a trovarsi nello sguardo del coetaneo che frequenta con lei il corso di fotografia, come se l’intimità fisica che consumano insieme non rivelasse altri sbocchi che la sua possibile ripetizione, tanto è vero che il giovane riesce tranquillamente non solo a mostrare agli altri partecipanti del corso il proprio autoritratto, ma decide di mostrare quello in cui è completamente nudo. Non si trova nello sguardo della sorella, che la cerca soltanto per porla davanti a sé nelle situazioni relazionali, rimarcando che è lei quella che viene presa sul serio, che è capace di mostrarsi sempre attendibile, ma gettando anche un velo di grigio sulla sua esistenza così apparentemente priva d’incertezze. Sembrerebbe trovarsi finalmente nello sguardo problematico del nipote, che decide di ospitare nella propria casa, con cui prova a organizzare una vita in comune, ma che riesce solo fino a quando la sorella non verrà a chiederne la restituzione e a ricordarle che non può tenerlo con sé come quel figlio che non è mai riuscita ad avere.
Una vita avviluppata in un’inaggirabile impasse. Proprio lei, consulente filosofica, che organizza incontri di formazione sulla capacità di saper cambiare, di cogliere le giuste motivazioni per i mutamenti che inevitabilmente vengono a contraddistinguere ogni singola esistenza. D’altronde scoprirà che le ditte che le permettono di realizzare questi corsi, confidano che questa predisposizione ad accogliere positivamente il cambiamento, permetta di far accettare con più facilità ai propri quadri i riassetti futuri e gli inevitabili licenziamenti che ne conseguiranno. Tutto sembra sospeso in una realtà che non mostra tanto un suo rovescio, quanto un senso di vuoto incombente. Come la Milano in cui vive, città piena di cantieri, in perenne mutamento e che lei cerca inutilmente di immobilizzare andando a fotografarli e la campagna dell’infanzia, immobile, sempre uguale a se stessa, dove ogni volta che si affaccia alla finestra sembra che il suo sguardo si posi direttamente soltanto su di una fotografia.
Eppure il segreto di un autoritratto risiede forse proprio nella diacronia che affiora in questa simultaneità tra un perenne cambiamento e un fondo di eterna immobilità. Monica sembra intuire che è proprio nella crisi di questa scissione di sé che si apre il reale spazio in cui gli affetti transitano, ci determinano per quello che siamo e poi si perdono, se ne vanno, lasciandoci nella lieve fragilità di essenziali attimi di perfetta solitudine. L’autoritratto non è allora la condensazione di ciò che crediamo o vorremmo essere, non è il voler trattenere vicino a sé, per poterla donare ad altri, l’immagine che sembrerebbe corrisponderci nel modo più bello, è piuttosto il momento di passaggio di ciò che non possiamo più essere: è l’abbandono al nostro domani.