Speciale
Ricamare le bestemmie del mondo
Senza riuscire a decifrarne con esattezza il motivo, continua a tornarmi alla mente la frase della giovane fotografa turca, Nilufer Demir, che ha scattato le fotografie del piccolo Aylan: “Sono venuta al mondo per scattare quelle foto, ma adesso devo guardare avanti”. Credo che a continuare a colpirmi sia in particolare la disarmante verità che queste parole esprimono, il contrasto che evidenziano tra l’esperienza di aver incontrato un momento in cui il mondo si è raccolto in un’immagine, si è arrestato per sempre, mettendo al mondo uno sguardo, e la percezione di un tempo che nonostante tutto, nonostante l’essere stati parte indelebile, come in questo caso, di quel momento, continuerà ugualmente ad andare avanti.
Nel film di Vittorio De Sica Umberto D., una giovane servetta, dopo il risveglio, entra in cucina e stancamente compie una serie di gesti abitudinari: riassetta la stanza con un po’ di sufficienza, caccia le formiche con un getto d’acqua, macina un po’ di caffè e infine, protendendo la punta del piede, chiude la porta. A quel punto i suoi occhi, e i nostri occhi insieme ai suoi, incontrano il suo ventre di donna incinta, in quel momento, nell’atto di quell’incrocio tra corpo e sguardo, è come se assistessimo alla nascita, scrive Gilles Deleuze, di tutta la miseria del mondo. È nella semplicità di quella situazione, in quell’insieme di gesti contrassegnati dalla loro inessenzialità, su cui la macchina da presa indugia e lascia emergere, nell’indeterminatezza della propria sospensione temporale, quella che Deleuze definisce un’immagine ottica-pura.
La scena del film, allo stesso modo delle immagini del piccolo Aylan, non nascono da una concatenazione significante, da una sequenzialità temporale che lega quello che stiamo vedendo a un prima e a un dopo, sembrano essere piuttosto l’inizio di un racconto destinato a una continua ripetizione. Non sono infatti l’espressione di un’azione capace di determinare una risposta, una reazione che possa imprimere una sequenzialità temporale, sono piuttosto l’espressione di un’interruzione che lascia emergere l’unicità di quel solo gesto: è l’incontro con lo sguardo della servetta, con lo sguardo della giovane fotografa, che sono i nostri stessi occhi posati sulla scena. Come se il loro sguardo si abbandonasse su ciò che stanno vedendo ma solo per noi, che siamo lì, impotenti, ad assistere all’indicazione di un futuro che dovrebbe accadere, la messa al mondo di una vita che in realtà non avverrà mai. Questo è il sentimento di compassione che ci raggiunge, è la dimensione impietosa di una visione sul tempo di quell’arresto di mondo.
Le situazioni senso-motorie in cui abitualmente siamo presi, per quanto possano essere violente, si rivolgono comunque a una funzione visiva pragmatica capace di “tollerare” o “sopportare” quasi ogni cosa, dal momento che sono prese in un sistema di azioni e di reazioni. Ma quando i nostri schemi senso-motori si inceppano o si rompono, allora, come ricorda ancora Deleuze, può apparire un altro tipo di immagine: un’immagine intera e senza alcuna indicazione metaforica, capace di far sorgere la cosa in se stessa, letteralmente, nel proprio eccesso d’orrore o di bellezza, nel proprio carattere radicale o ingiustificabile, perché in fondo non ha più alcun bisogno di essere “giustificata”, né nel bene né nel male. L’avvento di un’immagine ottica-pura, il suo essere al tempo stesso fantasma e constatazione, critica e compassione, può risvegliare in noi una funzione di veggenza. Su questo tipo di immagini non si può speculare, perché evidenziano un punto di cedimento alla nostra impotenza. Non sono tuttavia espressione di un semplice vuoto o di una pura mancanza; nel loro “avvenire” ci restituiscono un lembo di reale su cui possiamo ricamare la trasformazione del nostro sentire.
Durante una giornata di studi sull’arte outsider sullo schermo scorrevano in sequenza alcune immagini, in una di queste erano ritratti dei piccoli lavori di ricamo realizzati, all’interno di un atelier, da alcune donne internate in manicomio. Ci è stato fatto notare che nei lavori erano ricamate delle bestemmie. Probabilmente le stesse che avevano contrassegnato il vissuto di quelle donne, bestemmie di un mondo che le aveva portate a una sofferenza tale da esserne in un primo momento emarginate e dopo da esserne direttamente escluse, ritrovandosi poi rinchiuse in quel luogo senza mondo. E lì, come delle carmelitane, anziché ripiegarsi su se stesse, quelle donne pregavano con il loro filo e il loro ago per un mondo che non erano più chiamate a vivere, ma che per questo non avevano smesso di amare.
Ecco, credo che la compassione sia proprio questo: trovare uno spazio dentro di noi dove ricamare le bestemmie del mondo.