Niente da nascondere

9 Gennaio 2012

Esiste un riferimento in grado di denotare il contrario del senso di colpa? Forse è proprio il non aver niente da nascondere. Che cosa indichi però effettivamente questo “niente”, disteso per intero sopra al concetto di nascondimento, è difficile da indicare. Cosa può essere questo “niente” che il nascosto dovrebbe mostrare? Forse è ciò che risiede nel nostro sguardo, in ciò che osserviamo e in ciò che crediamo di dimenticare nella semplicità con cui i nostri occhi si distendono sulle proprie visioni.

 

La scena iniziale del film di Michael Haneke Caché si colloca proprio all’interno di questa sovrapposizione. Una ripresa a camera fissa riprende frontalmente, da una certa distanza, un’abitazione. Al di là del passaggio casuale di qualche pedone lungo la via e dell’uscita di alcune persone dalla casa, scene del tutto insignificanti, attendiamo di capire che cosa subentrerà per condurci effettivamente all’interno della struttura narrativa del film. Invece, a suo modo, tutto quanto è già accaduto, come se “niente” fosse stato.

 

Non stavamo infatti guardando la ripresa diretta del film, ma una registrazione in videocassetta, azionata sul televisore all’interno della casa che credevamo di osservare dall’esterno. Lo capiamo dalle immancabili righe di contrasto che distorcono le immagini, nel momento in cui la pellicola si riavvolge su se stessa. Abbiamo creduto che il nostro sguardo si collocasse dietro la camera che riprendeva la casa dall’alto, in quella tipica posizione da spettatori che inosservati seguono gli eventi, ci troviamo invece in uno sguardo che coincide con quello dei protagonisti, una coppia, impersonata da Daniel Auteuil e Juliette Binoche, che sta guardando quelle riprese che non mostrano effettivamente niente, se non il fatto che qualcuno ha deciso di far loro sapere in forma anonima che non li sta semplicemente osservando, ma registrando.

 

Così, mentre la trama del film prosegue nel suo svolgimento, qualcosa in realtà si è definitivamente arrestato, allo stesso modo di come accade attraverso una registrazione. Nel nostro sguardo si è insinuato un anacronismo, la consapevolezza che ciò che stiamo vedendo potrebbe essere soltanto la ripetizione di qualcosa che è già stato. È come se fossimo spinti verso una progressione della conoscenza contemporaneamente a una necessaria anticipazione regressiva nel tempo. D’altronde è la stessa struttura del film a rimanere all’interno di questa dinamica temporale. Da una parte il concatenarsi degli avvenimenti sembra spingere verso la risoluzione di chi stia effettivamente dietro a quelle registrazioni, dall’altra assistiamo a un ritorno anticipato, rispetto alla stessa composizione narrativa del film, d’immagini dell’infanzia di Daniel Auteuil, perché è a lui che le videocassette sono in realtà rivolte.

 

Questo doppio movimento nel tempo è scandito da immagini contrassegnate dalla presenza del sangue, raffigurato sia nei disegni che avvolgono le videocassette, sia nei flash back che corrispondono a ciò che in quei disegni è ritratto: un bambino, sempre lo stesso, con del sangue alla bocca o schizzato dal sangue proveniente da un gallo a cui con un colpo d’accetta ha reciso la testa.

 

 

Tutto predispone a una situazione di minaccia, a qualcosa che è destinato ad avere un epilogo cruento, probabilmente legato a un contesto traumatico avvenuto nell’infanzia del protagonista. Così quando, guidato ancora da una registrazione in videocassetta, giungerà all’appartamento in cui vive quel bambino divenuto ormai, come lui, un uomo adulto, pensiamo sia finalmente giunto il punto focale della resa dei conti. Scopriamo infatti che l’uomo che vive nell’appartamento è un algerino che i genitori di Auteuil volevano adottare, ma a cui il figlio legittimo si era opposto perché non voleva dividere “niente” con lui, con la sua incomprensibile estraneità.

 

Una vita a cui è stata negata la sua possibile felicità, che chiede ora conto a colui che ritiene responsabile di quella privazione. L’uomo invece affermerà, in modo del tutto convincente, di non sapere assolutamente niente di quelle videocassette. Dichiarerà però di ricordare perfettamente il momento in cui era stato allontanato dalla loro comune casa d’infanzia, come se per lui tutto fosse ancora lì: ossessivamente presente; per Auteuil, al contrario, quell’avvenimento era completamente avvolto nell’apparente insignificanza che aveva avuto per lo svolgimento successivo della sua vita, in lui rimanevano soltanto alcuni leggeri frammenti d’immagine.

 

Quando l’uomo gli chiederà successivamente di raggiungerlo di nuovo nel suo appartamento e davanti a lui si taglierà la gola con un rasoio, riteniamo, come spettatori, che la scena ci sarà sicuramente riproposta nella sua registrazione. Al contrario, proprio da quel momento in poi, le registrazioni invece cesseranno, il film viene restituito all’esclusiva presa diretta di un’unica visione, tutto è ricondotto e abbandonato al punto indecidibile in cui non siamo mai in grado di sapere che cosa il nostro sguardo si limiterà a osservare e ciò che invece deciderà di registrare nella nostra memoria. In fondo il “niente” da nascondere è proprio questa innocenza dello sguardo, molto più difficile da reggere di qualsiasi senso di colpa, perché è esattamente ciò che rivela il rovescio ottico della nostra coscienza.

 

 

Così Auteuil, uscito dall’appartamento in cui è stato, insieme a noi, ancora una volta spettatore estraneo di una vita, si recherà prima di tutto al cinema e poi, tornato a casa, s’infilerà nudo sotto le coperte per abbandonarsi a un sonno il cui sogno non ci farà vedere soltanto la scena in cui il bambino viene forzatamente condotto via dalla casa, ma indugerà oltre, proprio lì, dove non c’è più “niente” da vedere: la sola casa immersa nella luce, alcune galline che si muovono solitarie nell’aia e il silenzio devastante dell’innocenza con cui lo sguardo passa oltre.

 

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