Il mirino, la vittima, lo spettatore

12 Gennaio 2015

È tutto una questione di sguardo, ormai. Di occhi, di posizioni, di punti di vista e punti di osservazione.

 

American Sniper, ad esempio, che è la storia del cecchino più letale nella storia dell’esercito americano, è inevitabilmente un film sullo sguardo. Lo si capisce dall’insistenza con cui Clint Eastwood mostra nel film il primo piano di Chris Kyle che prende la mira, accovacciato e concentrato nell’osservare il nemico; oppure dal continuo ritorno della soggettiva del suo occhio, con la croce di precisione in mezzo allo schermo a stamparsi come una firma, come un segno di riconoscimento.
 


American Sniper, frame dal film
 

Il gesto – l’atto di guardare e di filmare colui che guarda – è tutto, indica la posizione del regista di fronte alla realtà che rappresenta. E in American Sniper questa posizione è chiara, costretta e inevitabile come la visione del cecchino, ma anche privilegiata e giustificata, come ogni scelta dell’eroe Chris Kyle, soldato in nome della democrazia e del bene.

Anche quando il suo punto di vista viene ribaltato – e Eastwood per un attimo sembra rimandare al dittico sulla Seconda guerra mondiale Flags of Our Father e Lettere da Iwo Jima, raccontando il mondo sconosciuto dei nemici – in realtà il salto, per quanto notevole e disturbante, non scompagina l’impianto ideologico del film, non smarca come in altre occasioni il regista dalla propria rappresentazione.
 

Si vede Chris Kyle mirare distante dal suo mirino di precisione questa volta:

 


e poi, caso unico nel film, la persona sotto osservazione, un bambino, da un punto di vista non abituale.


Per il classico Eastwood è uno scavalcamento di campo non da poco, l’effetto è straniante. Ma è solo un attimo. Questo bambino, a differenza di quello della prima scena del film, non viene ucciso. Lui non spara con il bazooka, quindi Kyle non spara con il suo fucile. Quell’altro bambino, invece, affrontava un plotone di marines con una granata, e dunque era giusto – inevitabile – ucciderlo.

Eastwood estende sì lo sguardo alla complessità del reale; osserva sì le infinite esistenze di chi è travolto dalla guerra, ma dà in ogni caso, da una parte o dall’altra dell’asse, una lettura morale della realtà che rappresenta. Il gesto – del guardare, dello sparare – è sempre subordinato alla morale, quando invece nell’orrore della guerra – nell’orrore di quella guerra, che solo per gli americani convinti di vivere «nel paese più bello del mondo» era una guerra con veri nemici e giuste cause – non ci dovrebbe essere morale che tenga, ma solo un gigantesco deserto reale e ideale, dove si spara contro un nemico per il semplice, tragico fatto di essere , sul campo di battaglia, lontani da casa, fuori dal proprio posto.

 

È in fondo lo stesso Eastwood a mettere in scena quel deserto di caos e confusione: nella sequenza della battaglia nella tempesta di sabbia. Che è bellissima, certo, ed è lo sconvolgimento del senso di verità e di colpa, di nemico e compagno, americani e iracheni nello stesso caos, la nebbia della storia che avvolge l’individuo.

 

 

Ma questo, per dire, c’era già in Gangs of New York, quando lo scontro privato fra Amsterdam e il Macellaio si perdeva nella tragedia comunitaria della sommossa (e più in generale della guerra civile), togliendo ogni alone di mitologia al duello decisivo.

 

Gangs of New York, frame


Non che conti qualcosa che Scorsese l’abbia fatto prima di Eastwood, figuriamoci. Ma Scorsese nella sua nebbia raffigurava la Storia che travolge l’individuo, mentre Eastwood fa esattamente l’opposto, l’individuo lo fa rinascere. La «leggenda Chris Kyle», dopo aver messo in pericolo la sua squadra per uccidere il proprio nemico giurato, il cecchino nemico Mustafa, viene salvato da quegli stessi compagni che aveva parzialmente tradito. E il suo orgoglioso io, perduto nella nebbia di sabbia, si ritrova grazie a una mano afferrata nel nulla.

 

Il mondo di American Sniper è inevitabilmente limpido, anche oltre la tempesta di sabbia. Le idee e le intenzioni di Chris Kyle (e di Clint Eastwood) si smarriscono nel caos, ma non si dissolvono nella Storia. Al massimo, si infrangono a casa propria, nell’assolata, bruciata terra del Texas dove Kyle verrà ucciso. Ma Eastwood non insiste su questo scacco, non sottolinea il bagliore accecante, stordente della realtà americana (cosa che invece fa Thomas Pynchon in Vizio di forma, ma questo è un altro discorso…). Perché Kyle viene ucciso da un agnellino trasformatosi in lupo, pronto a sbranare il cane pastore che ha abbassato la guardia. Nello sguardo finale del futuro assassino di Kyle, scavato e smarrito, e nella premonizione della moglie su cui si chiude il film, c’è tutta la cartesiana precisione di American Sniper: uno sguardo malato e sbagliato, contro uno dolce e giusto.

 

American Sniper, frame dal film


(E se ci si chiede per caso dove vada a finire il fratello di Kyle, che a un certo punto si vede su una pista d’atterraggio in Iraq, soldato pure lui, ma stanco della guerra e desideroso di tornare a casa, per poi sparire inspiegabilmente dal film, credo proprio che vada a finire lì, nello sguardo del reduce malato di stress post-traumatico, cosa che rende l’uccisione di Chris Kyle una sorta di fratricidio biblico ribaltato di segno, il debole che uccide il forte, l’agnellino che sbrana il cane pastore…).

 


La somma di sguardi, insomma, per Eastwood non dà zero, non porta allo scacco della rappresentazione di una guerra priva di senso, ma al contrario conduce al giusto, inevitabile ristabilimento di un ordine nell’assurdo della Storia. La cosa di per sé va benissimo, il cinema americano lo ha sempre fatto. Solo, in American Sniper la precisione della veduta, più che limpida, sembra meccanica, eterodiretta; non chiama mai in causa lo spettatore, ma lo direziona e lo guida.

 

Tutto l’opposto di quel che accade da un altro sguardo, quello di Will McAvoy (Jeff Daniels n.d.r.) nell’ultima immagine dell’episodio della serie televisiva The Newsroom, andato in onda prima di Natale negli Stati Uniti. Questo:

 

The Newsroom, frame


Quegli occhi sono una sfida, chiamano in causa, e in linea con il contenuto liberal della serie – fondata idealisticamente sulla ricerca della qualità nell’informazione, sul ruolo formativo della televisione, sull’importanza dell’integrità, della correttezza, dell’insegnamento e dell’educazione – coinvolge lo spettatore, quello ipotetico della ANC e quello reale della serie, lo invita a mettersi in gioco.

Il chiarore e la limpidezza invocate da The Newsroom sono l’esatto contrario delle certezze abbaglianti di American Sniper: sono un obiettivo, un’utopia. Nell’impostazione volutamente ingenua, ma assolutamente classica e hollywoodiana, di Aaron Sorkin, i giornalisti di The Newsroom sono coinvolti in una missione di civilizzazione, sono Don Chisciotte in guerra contro i mulini a vento, ma al di là della loro pomposità, ciò che conta è che lo spazio che intendono percorrere è uno spazio da creare passo dopo passo, è una strada ancora da percorrere.

E lo sguardo finale di McAvoy, nella quiete finalmente ritrovata della redazione (siamo alla fine, ed è l’unico momento di serenità e calma lavorativa in tre stagioni), non può che essere il segnale più aperto e democratico di una nazione che si offre invece di imporsi, che combatte ma non impone il proprio punto di vista. Guarda noi spettatori, McAvoy, a differenza della moglie di Kyle, che invece guarda il male.

 

Tutti gli uomini del presidente, 1976. Regia Alan Pakula


E il chiarore della sua posizione ideale non rimanda alla granitica convinzione di Eastwood, ma piuttosto al luogo più luminoso e aperto che il cinema americano abbia mai rappresentato, la redazione del «Washington Post» in Tutti gli uomini del presidente, che negli anni del Watergate opponeva al buio del potere la chiarezza dei fatti, l’oggettività dei ragionamenti, la lealtà della giusta distanza. Di quel giornalismo, allora, si diceva fosse il cane da guardia della democrazia, oggi lo si dice dei soldati. E di cosa, ancora oggi, dopo il 7 gennaio, sia simbolo la redazione di un giornale, non c’è nemmeno bisogno di dirlo.

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