Speciale

Il potere destituente

In una conferenza tenuta ad Atene il 16 novembre 2013 (ma non si tratta di un hapax) Giorgio Agamben, il filosofo dell’inoperosità, introduce, nella sua costellazione teorica, in maniera forse sorprendente, ma probabilmente necessaria, per uscire dall’angolo in cui si era chiuso con le stesse mani (in particolare, con i suoi ultimi lavori più ambiziosi, Altissima povertà e Opus dei, sembrava aver imboccato un vicolo cieco in cui appariva difficile intravedere un margine per l’azione), la nozione di potere destituente.

 

Per noi, è bene essere chiari, Agamben, per la sua capacità di tenere insieme Benjamin, Aristotele, Foucault, Heidegger, è un punto di riferimento ontologico. In effetti, la nozione di potere destituente, ben prima che Agamben la impiegasse esplicitamente, rintraccia nella grammatica della sacertà un terreno ontologico fertile nel quale radicarsi. Per questa ragione l’ultima posizione di Agamben ci stimola a tentare di presentare alcuni dei nostri materiali di lavoro che, da qualche anno, e con una certa, caparbia, disordinata sistematicità, accumuliamo intorno al tema del potere destituente.

 

Il potere destituente rappresenta, innanzitutto, un contraccolpo concettuale per registrare la condizione e la realtà delle forme della politica contemporanea che, riconoscendo la catastrofe cui siamo consegnati, rifiutano sia di lascarsi andare alla logica dell’amministrazione di condominio della politica del potere sia di rinchiudersi nella mera evocazione di un dover-essere fuori dal mondo. In quanto contraccolpo concettuale, è una nozione aperta, fatalmente ambigua, sfuggente, e destinata a formarsi nello svolgersi degli eventi. Propriamente, il potere destituente, quindi, non è un oggetto di studio, ma un dispositivo nel quale la sua definizione è totalmente implicata nella sua manifestazione concreta.

 

La destituzione politica della politica pretende una decisione, un gesto, una forma di ascesi rivoluzionaria. Non c’è politica, una politica dell’impossibile, l’unica, cioè, in grado di trasformare la fisionomia del mondo, senza un pensiero della sua destituzione e disappropriazione. In altre parole, oggi un vero evento politico è quello in grado di lasciare deragliare la politica fuori la logica della rappresentanza politica. Per intenderci rapidamente, per questo movimento di diserzione politico dalla politica, può essere strategico fare ricorso a una figura concettuale: Antigone. Il suo rifiuto di applicare la legge sovrana, la politica che ci impone come vivere, la sua violenza della non violenza, destituente e forte, scatena una metamorfosi politica della polis, in grado di fare cadere il sovrano. La diserzione dall’ordine del potere sprigiona una carica politica imprevedibile che fa del gesto della figlia di Edipo un movimento che allude a una forma di potere senza fondamento.

 

Lavoriamo alla nozione di potere destituente, ben inteso, non solo noi, ma con altri compagni di viaggio più o meno intermettenti, dal 2008, prima, intorno all’esperienza di una rivista italo-francese, «La rosa di Nessuno» (che detto per inciso, Agamben pure cita, ma forse un po’ erroneamente) e attualmente con un’altra rivista, ‘post-europea’, Outis, quando abbiamo dato alle stampe un volume dal titolo, Potere destituente. Le rivolte metropolitane (dopo questo primo volume, ne sono seguiti altri, individuali e collettivi, con al centro il medesimo oggetto di analisi; tra questi ne citiamo qui soltanto uno, il terzo volume di Outis, Il potere destituente. Oltre la resistenza, perché contiene 13 tesi + 1 sul potere destituente a firma di Grisha).

 

Nel volume del 2008 pretendevamo di pensare le rivolte delle banlieues francesi del 2005, contro buona parte dei commentatatori, che escludevano una carica politica alle sollevazioni francesi (ad esempio, vedi Badiou), come l’esemplificazione estrema di una nuova figura della politica collocata al di là della politica classica (del suo linguaggio, dei suoi riti, delle sue regole). Insomma, l’ambizione era, è, di pensare lo scollamento tra politica e potere, la grande invenzione moderna, senza rinunciare né alla politica né al potere. Dunque, prima di mettere a fuoco la nozione di potere destituente, è necessario, a un primo livello di elaborazione, provare a dire che cosa non è il potere destituente, in modo da consegnare a un orizzonte preciso, si fa per dire, il nostro itinerario.

 

Si tratta immediatamente di notare che la questione del potere destituente ci conduce fuori le traiettorie tradizionali della concettualizzazione della politica moderna. Infatti, se il moderno è la coincidenza della politica e del potere (in una linea che da Hobbes, per fare solo qualche nome, arriva sino a Carl Schmitt, passando attraverso Hegel e un certo Marx), e quindi fra politica e Stato, la nostra intenzione è, invece, di pensare una politica al di là della questione del potere, o meglio non fondata dal potere né fondata sul potere.

 

A questo proposito ci affidiamo a uno spicchio dell’opera del filosofo francese Jacques Rancière. Per Rancière (vedi, almeno, La Mésentente. Politique et Philosophie, del 1995, e Aux bords du politique, 2004) la politica nasce dall'incontro fra due processi eterogenei, un processo governamentale, che Rancière chiama police, da una parte, che organizza e gestisce le comunità umane, distribuendo posti e funzioni gerarchiche, e dall'altra parte, c'è un processo di soggettivazione, che Rancière chiama politica, che si fonda su un presupposto di uguaglianza tra tutti gli esseri umani, che decostruisce e interrompe le relazioni istituzionali e economiche. La politica, più precisamente, è l’irruzione, sulla scena del mondo, di chi nel mondo è generalmente senza parte. In questa tensione, secondo Rancière, si potrebbe individuare la chance di separare politica e politica.

 

 

Nell’ottica del potere destituente la dialettica fra potere costituente e potere costituito non è più soddisfacente. Con il concetto di potere costituente, infatti, abitiamo ancora la logica della sovranità moderna. Lo stesso Negri, nel 2002, nell’introduzione della seconda edizione de Il potere costituente (la prima risale al 1992), pone lo stesso problema quando riconosce che con il potere costituente, la figura del potere rivoluzionario moderno, restiamo impigliati, in realtà, nella dialettica della politica che intendiamo oltrepassare. Negri, ci sembra, successivamente forse lascia cadere questo lieve e promettente inizio di auto-critica e abbraccia con coraggio e totale ottimismo politico e teorico, ai nostri occhi ingiustificato, la dimensione costituente della politica senza ragionare sufficientemente sulla necessità di un momento insurrezionale destituente.

 

Ben inteso, abbandonare la dialettica tra il potere costituente e il potere costituito, impone un prezzo salato da pagare per qualsiasi ambizione rivoluzionaria: come ci ha insegnato Michel Foucault, se prendi le distanze dalla logica della sovranità, sei consegnato, al contempo, a una separazione dal concetto di resistenza come forma di contropotere che ambisce a prendere il posto del potere. In altre parole, crediamo che nell’età in cui il più inquietante e raffinato dispositivo di governo neo-liberale della vita sia diventato la libertà, una forma di libertà diffusa che provoca dispositivi di controllo senza precedenti, che governa non imponendo l’ordine, ma gestendo il disordine sociale, per resistere al potere non bisogna più soltanto resistere, cioè, affidarsi a manovre che ancora riconoscono la validità analitica e pratica della dialettica tra la legge e la libertà, ma si tratta di collocarsi oltre la resistenza, laddove, piuttosto, si elude il potere, inventando un altro potere in grado di sabotare qualsiasi forma di potere contemporaneo.

 

Questa premessa, che disloca la politica in un territorio forse senza fondamento, ci serve per stabilire un primo punto qualificante del potere destituente: il concetto affiora innanzitutto per non lasciare fuori dalla politica la miriade di soggettività che rifiutano il potere politico, non in nome del potere, ma, se si può dir così, in nome di un'altra esistenza. Vale a dire, che non si pongono semplicemente contro il potere, ma a distanza da esso: lo schivano. È evidente che in un certo tipo di manifestazioni e di lotte, da vent'anni a questa parte, cioè, diciamo, scusandoci per la schematizzazione, dalle rivolte di Los Angeles fino alla «primavera araba», che hanno in comune la volontà di evitare ogni conflitto diretto contro il potere costituito, cruciale è la dinamica del rifiuto, dell'assenza, della forza non negativa del negativo, della dimensione affermativa della distruzione, come critica di tutto quello che esiste, secondo quel nesso fra nichilismo e politica, concepito dal giovane Benjamin, che dovrebbe essere alla base di qualsiasi politica globale estranea alla politica del potere.

 

Il tratto di una politica destituente si situa oltre le logiche statuali, rifiutando la dinamica della rappresentanza. La questione potrebbe essere posta, allora, in questi termini: come pensare la politica quando accade la rivolta, quando, cioè, si dà un'interruzione delle strutture logiche, temporali, istituzionali della sovranità politica? Le lotte delle banlieues, dei migranti a Rosarno, le occupazioni di luoghi simbolici a Madrid o al Cairo, non si pongono più sul terreno del riconoscimento, perché rifiutano di lasciarsi identificare/simbolizzare. Farsi identificare significa, sempre, porsi dalla parte dello Stato.

 

Qual è una soggettività destituente? In altri termini: è possibile fornire un nome comune a ciò che esteriormente non presenta in apparenza nulla di comune ? Non abbiamo paura di dire che queste forme di soggettività destituenti, legate ad un'idea della politica senza fondamento (una politica priva di arché, cioè, che alimenta una concezione della democrazia come eccesso: la democrazia è sempre un’eccedenza democratica; ciò che oggi ogni regime democratico intende soffocare in nome della democrazia), sono un popolo (sono i popoli). Sono l'evento (im)popolare del popolo. Un popolo inatteso, imprevisto, senza coscienza (non c'è progetto), senza capo né coda, che affiora imprevisto nella lotta. Solo un popolo che si aggrega in questa maniera può essere un popolo democratico che sfugge alla sua cattura democratica (per noi, la democrazia non è mai una questioni di numeri).

 

Parliamo di popolo, sapendo di maneggiare una categoria per certi versi compromessa, almeno nella sua filiera moderna-occidentale (etnia, nazione, confine), perché vogliamo chiarire che le lotte destituenti non sono figure della marginalità, dell'inattività, del rifiuto dell'azione, dell'uscita dal mondo. C'è un solo mondo. One world: questa parola d'ordine dei sans-papiers di tutto il mondo ha per noi un significato filosofico e politico. Le rivolte destituenti si pongono sul terreno della mondializzazione capitalista, non sono nostalgiche, non vogliono resuscitare il passato, non sono separate dal capitale, come potrebbero apparire, ad esempio, ad occhi distratti, tante lotte ecologiste, come quella dei NO-TAV in Val di Susa. Sono, piuttosto, ad esso inerenti, ma interrompono e punteggiano lo svolgimento della sua logica. In effetti, esse impongono alla politica un'altra temporalità, la temporalità politica dell'evento.

 

Che cos’è un gesto politico destituente? Un filosofo ed editore napoletano (dirige la Cronopio), Maurizio Zanardi, in un recente seminario su filosofia e teatro dedicato a Carmelo Bene, ci ha fornito forse un elemento prezioso per pensare la natura di un gesto politico destituente (un gesto, come qualsiasi gesto di rivolta, che si dovrebbe dare ritraendosi), sulle orme del Lorenzaccio beniano: Lorenzaccio è quel gesto che nel suo compiersi si disapprova. Disapprova l'agire. E la storia medicea, dispensata, non sa di fatto stipare questo suo (–) enigma eroico; ha subìto e glorificato di peggio, questa Storia. Ma le cose son due: o la Storia, e il suo culto imbecille, è una immaginaria redazione esemplare delle infinite possibilità estromesse dalla arbitraria arroganza dei 'fatti' accaduti (infinità degli eventi abortiti); o è, comunque, un inventario di fatti senza artefici, generati, cioè, dall'incoscienza dei rispettivi attori (perché si dia un'azione è necessario un vuoto della memoria) che nella esecuzione del progetto, sospesi al vuoto del loro sogno, così a lungo perseguito e sfinito, dementi, quel progetto stesso smarrirono, (de)realizzandolo in pieno.

 

Una politica destituente ha un compito limitato ma preciso: creare le condizioni, cioè, il vuoto, perché un’altra politica, quella che oggi appare impossibile, possa accadere. Indica il primo movimento da fare: per scatenare un politica dell’evento, l’evento della politica si annida in una diserzione singolare da ciò che è, per infrangere il corso normale della storia e produrre una molteplice, estatica, pluralità.

Il potere destituente, in questo senso, è una figura nichilistica della politica che non sprigiona nulla di nichilistico.

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