“Porto in salvo dal freddo le parole” / Il prato bianco di Francesco Scarabicchi
Il prato bianco e l’ascendenza di Giorgio Morandi
Il prato bianco è il titolo di una intensa raccolta di poesie di Francesco Scarabicchi pubblicata originariamente nel gennaio del 1997 per i tipi delle edizioni l’Obliquo di Brescia e riproposta oggi, esattamente venti anni dopo, da Einaudi nella sua prestigiosa serie bianca. La poesia del marchigiano Franco Scataglini, a cui il libro è dedicato, e quella di Umberto Saba sono presentissime sullo sfondo, ma le radici della poetica di Scarabicchi affondano anche in un’altra, meno evidente, terra: quella di Giorgio Morandi. È possibile, si chiedeva il grande maestro bolognese, dipingere il silenzio? Dipingere ciò che non ha né immagine, né suono, né nome? È possibile elevare l’immagine della semplice presenza alla dignità di un assoluto? Dedicarsi alle cose più umili del mondo (bottiglie, teiere, bicchieri, caraffe, ecc), esposte nella loro nuda esistenza, non significa, infatti, per Morandi illustrare il mondo, ma provare a coglierne il mistero, il suo enigma irrisolvibile. La dimensione anti-illustrativa dell’immagine mostra che in essa viene preservata una trascendenza che esorbita ogni fredda riduzione tautologica all’oggetto che rappresenta per mostrare che nell’immagine artistica c’è sempre, come direbbe Adorno, “qualcosa che resiste”, una eccedenza interna che rende impossibile ridurre la sua presenza a una semplice presenza. Ebbene la poesia di Scarabicchi riprende in modo originalissimo questa lezione. La sua attenzione appare assorbita dalla nuda solennità dalle cose del mondo, da immagini silenziose, prive di ricami linguistici, libere da ogni gioco intellettuale, incisive, assolute.
Vocazione anti-romantica e anti-espressionista, radicalmente ascetica, della sua poesia come del figurativismo di Morandi. Entrambi non cedono alla scorciatoia dell’astrazione, alla sirena facile della dimensione pulsionale del colore o del suono.
Scarabicchi nella sua raccolta di poesie più importante quale è L’esperienza della neve (Donzelli, Roma, 2003), dirige il timone della sua parola verso presenze nude, ridotte all’osso alla loro più pura immanenza. Gesto di spogliazione ascetico del mondo dall’involucro conformista della sua percezione canonica. Egli non indica alcuna trascendenza separata dal piano di questa immanenza ma, nondimeno, eleva il tratto anonimo di tale immanenza a cifra dell’eterno che si ripete:
“I vivi sostituiscono i vivi, le case hanno finestre e porte, la pioggia cade e bagna, per camminare ci vogliono le scarpe. Ciascuno ha un nome, i nomi tornano, si cambiano, le frasi sono sempre le stesse, il pane tagliato, i bambini, gli adulti, i morti, la cenere.” (idem, p. 74)
Gli oggetti del mondo, come nella grande pittura di Morandi, non sono semplicemente consumati dal tempo, ma eterni che resistono nella loro fragile sagoma al passare del tempo. Inserzione dell’eterno nel tempo, luce che filtra nella notte. Gli oggetti sono ciò che innanzitutto resta:
“Una bottiglia, una mela…Solo ciò che è concreto sopravvive: lo scheletro, un anello, i denti. Gli occhiali di tartaruga rimasti nella custodia del comodino la notte in cui si è spenta. La coroncina del rosario fatta con i gusci di noci, il ditale che portava nella tasca del grembiule, la spilla a balia, un pettinino rosso.” (idem)
La presenza non occulta la verità, non è ombra destinata platonicamente a dileguare di fronte alla permanenza del mondo delle idee. L’essenza non è nascosta dietro l’esistenza. In Scarabicchi, come in Morandi, la nuda presenza dell’oggetto evoca il resto che il trauma del linguaggio genera separando irreversibilmente l’uomo dall’Uno: l’oggetto è il resto, sempre plurimo, che incarna questa separazione e, al tempo stesso, ciò che la commemora insistentemente.
Caducità ed eternità
La domanda che attraversa Il prato bianco e alimenta ostinatamente tutta la poesia di Scarabicchi riguarda il destino finito delle cose del mondo e l’incontro misterioso con il loro splendore. Il mistero non è dietro al mondo, ma coincide con l’evento stesso del mondo: “nei mattini di maggio dove crescono, liberi dall’offesa, la gioventù e i gerani?” (Il prato bianco, Einaudi, Torino 2017, p. 17; d'ora in poi PB). È la stessa domanda che Freud riprende in Caducità: cosa resta, cosa si salva dall’erosione del tempo? La bellezza di un fiore, destinata a perire rapidamente, può redimere l’orrore della finitezza inguaribile della vita? La bellezza della poesia esclude la ferita della castrazione o la sa ospitare? Per Freud è questo, in ultima istanza, il segreto dell’"ars poetica": sopportare la ripugnanza del reale (Il poeta e la fantasia, in Opere, Vol. 5, Torino 1980, p. 383). In questo senso essa non sostiene l’illusione di un mondo dietro il mondo, ma sa elevare la caducità del mondo ad un evento degno dell’assoluto. È una cifra essenziale del lavoro di Scarabicchi:
“Come il viandante sul mare di nebbia”, una “nave che salpa” nella “città d’autunno”, come “l’alba del lago nella luce ferma”, come “battelli fermi, nell’ora di nessuno, sul mare, la domenica”, dove “cade la pioggia e la luce di ottobre finisce”.
Tutto sembra fermo e, insieme, sul punto di partire, di andarsene, di svanire. Tutto è in bilico tra l’essere e il nulla, tra il tempo e l’eterno: “nulla che resti neanche l’ombra dell’ospite che va”, “senza nome né lapide/ per cosa le ignote sepolture di febbraio?”. Mistero della caducità inesorabile delle cose del mondo e, nello stesso tempo, del loro apparire eterno: “che ne sarà dell’uomo/ paziente e solitario/ che vedo, rincasando/ dipingere un cancello?”. Mistero di una presenza solcata sempre dall’assenza, di una presenza che non può mai essere raggiunta del tutto, “in cui tutto, per sempre, è eterno niente". Desolazione della vita che porta con sé l’espropriazione sempre presente della morte: “come neve/ bianca una collina/ senza il gelo del mese/ senza inverno/ così è stato l’inferno/ che non brucia”. Ma anche resistenza della parola che, sebbene esausta, non cede mai alla tentazione del silenzio, che sempre sa riprendere il suo giro anche dopo “anni di fiume fermo, acqua del sonno della penna che tace”.
La cifra del bianco
Scarabicchi è attratto dalla cifra del bianco, dal gelo, dalla nebbia, dalla neve. È la dimensione sobria della sua melanconia. Quello che resta non assomiglia alla statua ricca di gloria dell’Ideale, né alla potenza inumana e matrigna della Natura. Quello che resta sarà, piuttosto, il silenzio dell’immagine, il frammento, la deposizione di ogni orgoglio narcisistico, il dettaglio, la devozione alla vita del mondo. Di nuovo emerge nelle sue parole la grande lezione di Morandi:
“la tazza sbeccata, le scarpe che infilo al mattino, gli spiccioli nelle tasche, l’orologio, un colombo che vola sui fili del tram, l’erba ai bordi delle traversine lungo la via ferrata, il fanale di una motocicletta che passa distante...”. (L'esperienza della neve, cit. p. 75)
La parola di Scarabicchi non esplode mai, non è agitata, le sue ridondanze non assordano. Piuttosto – come per Morandi – si scandisce in brevi tocchi monocromi nei quali prende forma la forza elementare dell’immagine. La parola non è un veicolo della potenza del logos né del caos dell’irrazionale, ma custode del segreto del nome che deve essere preservato urgentemente dalla notte della morte – “nell’inverno che viene” – come un “lume”. Non a caso se c’è un fenomeno della natura che assume nella poesia di Scarabicchi la dignità di una cifra metafisica è quello della neve. Dopo Il prato bianco, L’esperienza della neve (2003) e Nevicata (2013) sono altre raccolte di poesie di straordinaria bellezza. Qui il riferimento alla neve ricorre con insistenza. La neve come la pioggia, cade dal cielo, viene da un altro luogo, viene, come ricorda Lacan in Lituraterre, dalle nubi dell’Altro. Ma, diversamente dalla pioggia, la neve lascia un segno della sua presenza, si deposita, sopravvive alla sua caduta. Nel tempo della neve “tutto è immobile e muto/pure il tempo/ sembra fermo in eterno” (Nevicata. Con paesaggi incisi da Nicola Montanari, Liberilibri, Macerata, 2013, p. 9. Essa non è pioggia che scivola via, ma – lacanianamente – resto che resiste, oggetto piccolo (a) della pioggia del significante: “sui cavi della luce/ sulle punte del cancello a lance/ sul bordo dei muretti a recinzione/ ovunque seminata ovunque scesa/ a benedire il luogo e la mattina” (idem, p. 8).
Nella neve Scaribicchi vede un gesto silenzioso e anonimo di benedizione del mondo. È, se si vuole, il francescanesimo laico che ispira il suo poetare: contorsione minima della parola che, come neve, appare prosciugata da ogni elemento superfluo – sterilmente ornamentale – che ne dissolverebbe in modo ideologicamente persuasivo la sua pura potenza evocativa. È il rigore della verticalità della parola poetica che Scarabicchi spesso invoca come fosse un taglio di Fontana nella tela del mondo. Basta, infatti, una cosa del mondo (“il lungo filo di ferro che cadenza battendo contro il palo di legno della luce” o “i passi che non so sul legno del pontile”) a dare senso all’evento assoluto del mondo.