Speciale

Il segno che viene dalle periferie

28 Gennaio 2012

Il treno era uno dei suoi, Moonman ne aveva una dozzina che correvano nella rete della metropolitana, a tutta birra, e per caso stasera si trovava su uno di questi, sotto le condutture dell’acqua e delle fogne, sotto il gas, il vapore e l’elettricità, tra i canali di drenaggio e i cavi telefonici, e a ogni fermata cambiava vettura e controllava le persone che salivano, come le loro facce da metropolitana, retrattili, e le porte facevano ding dong prima di chiudersi con uno schianto.

 

DeLillo in Underworld, il suo grande affresco della società americana del secondo Novecento, non tralascia di dar conto dei fenomeni artistici, inserendo nel romanzo ampi riferimenti alla pittura e al cinema d’avanguardia. Uno dei poli forti di questo testo spiccatamente policentrico è certo il Bronx e dunque DeLillo non ha voluto ignorare, nella parte intitolata Cocksucker Blues Estate 1974, il fenomeno del Graffitismo a cui si riferisce il brano d’apertura. Lo scrittore newyorkese del resto si è dimostrato un attento e prensile osservatore delle arti contemporanee come confermano molti romanzi con protagonisti cinefili (Americana), divi rock (Great Jones Street), artisti (Body Art), fotografi (Mao II) che rappresentano altrettanti scandagli in tali mondi; lo prenderemo dunque a guida non estemporanea per la nostra breve analisi della Graffiti Art.

 

La citazione apre lo spazio dedicato a Ismael Munoz, graffitista adolescente che contempla da spettatore la propria opera; ovvero il proprio nome d’arte disegnato con effetto tridimensionale sulle fiancate dei vagoni della metropolitana. I treni sono suoi perché se ne è appropriato siglandoli. Tra l’altro DeLillo evidenzia bene la trasposizione simbolica di sé in una firma carnea e insieme spirituale: “i colori si bloccano e sanguinano e le lettere si collegano e pulsano di vita, saltano e strillano – anche le sbavature sono intenzionali, superdefinite, per mostrare come le lettere sudino, vivano e respirino e mangino e dormano, danzando e suonando il sax”.

 

Il risultato di sottrazione concluso con il raid artistico risulta tuttavia, nel caso particolare dei graffitisti, assolutamente eccentrico perché mediato dal disegno e dalla firma; al modo dei grandi ladri come Arsenio Lupin essi lasciano il nome-segno del colpo, ma pure lasciano paradossalmente anche l’oggetto del colpo. Ecco dunque una sensazione d’onnipotenza per “l’eroe incognito della linea”, inafferrabile e capace di tornare nel luogo del delitto. E tuttavia anche un senso di inappartenenza e di straniamento verso la propria opera, tanto che, mentre un uomo fotografa i graffiti di Moonman, Ismael Munoz sente il bisogno irrefrenabile di inserirsi nell’istantanea insieme agli altri passeggeri.

 

Questa ossimorica sottrazione/non sottrazione si complica sdoppiando il danneggiamento, tipico del raid, in un ulteriore coppia oppositiva. È certo che per le istituzioni il segno dei graffitisti diventa uno sfregio degli “immacolati vagoni della metropolitana, che pretendono di essere luoghi neutri, azzeranti, dove ci si affida alla pura funzione del trasporto, accettando di vivere in uno stato di sospensione, in una cellula asettica” (R. Barilli). Di qui le condanne giornalistiche, i tentativi polizieschi di controllo e prevenzione, infine le tecniche di cancellazione dell’avvenuto raid per tornare ai colori smaltati e smorti del non-luogo (si pensi che nell’anno dell’esplosione del movimento la Metropolitan Transportation Authority spende 150 milioni di dollari a tale scopo). Così Rimester, un altro writer, racconta al collega Moonman di aver visto le sue carrozze passare sotto la doccia acida di spruzzatori installati in un deposito isolato; “e tutta quella faticaccia gratuita, quella frenesia spray delle due del mattino, viene spazzata via in pochi minuti. Altro che succo d’arancia, amico. Era quello il nuovo killer dei graffiti, una merdosa sostanza chimica procurata dalla Cia”.

 

La dinamica prevede dunque un danneggiamento interpretato in modo opposto dai graffitisti e dalle istituzioni. Per i primi rappresenta l’accensione della vita nelle stazioni, il cambiamento di segno in positivo dalla pura funzionalità, dall’economico alla gratuità e all’estetico. Per il potere invece una sfida criminale da combattere, una presenza da rimuovere. Dunque i graffitisti vogliono fortemente esistere attraverso il proprio segno distintivo apportato con il raid, il potere fa di tutto per cancellarli insieme al loro reversibile danneggiamento. Ismael Munoz pensa allora tra sé in merito a tale nullificazione del proprio nome: “È come quando fai cadere una foto da uno scaffale e muore una persona. Solo che questa volta nella foto ci sei tu”.

 

Questa lotta va inquadrata tenendo conto della provenienza fisica e sociale della maggior parte dei primi graffitisti. Si trattava infatti di neri e ispanici delle periferie i cui nomi di battaglia già sottolineavano una condanna all’anonimia e alla marginalità (A-One, Toxic-One, Craze) o una volontà di riscatto antagonista (Crash). Del resto il fenomeno, interno alla più articolata cultura hip hop, si avvicinava per il suo protagonismo di gruppo alle bande giovanili. Rammellzee, artista e teorico delle “lettere armate”, si ribattezza Master Killer ed inscena performance travestito da gangster, circondandosi di sodali chiamati “guerriglieri della parola” (F. Alinovi). Ancora DeLillo illumina bene la vocazione adolescenziale a cimentarsi, insieme al piacere di infrangere i divieti in una situazione di pericolo:

 

La sua squadra era composta da apprendisti speranzosi, ovviamente. Scrittori del futuro. Assistevano il maestro. Gli facevano da palo mentre dipingeva. Formavano uno sgabello incrociando le braccia per sostenerlo quando doveva raggiungere la parte superiore di una vettura. […] Tenevano le bombolette di vernice spray dentro tre sacche da ginnastica e gli schizzi di Ismael in un album da disegno. Avevano pesche ed uva dentro un sacchetto di carta infilato in una borsa di plastica. Avevano l’acqua minerale francese che a lui piaceva bere mentre lavorava, prelevata anche questa durante le scorribande della giornata, Perrier, dentro graziose bottiglie verdi.

 

L’incursione dei writers è pericolosa perché è un vero e proprio reato e perché si svolge in luoghi e condizioni difficili che più di una volta hanno causato loro incidenti anche mortali. Sono molteplici i confini spaziali e simbolici attraversati da queste azioni. In primo luogo quello tra centro e periferia interconnessi dalla subway; non solo i graffitisti arrivano dai margini violando essi stessi i recinti del ghetto, ma anche le loro opere in movimento incessante si diffondono come un virus lungo le linee raggiungendo le stazioni più importanti e rispettabili. Il treno di Moonman diventa allora “visibile su tutta la rete” in modo che così “entri nella testa della gente e gli vandalizzi i bulbi oculari.” Inoltre dai più cupi recessi del sotterraneo, dove si riparano i senzatetto e pullulano ratti chiamati conigli di rotaia, si regista un prepotente andamento verso l’alto che significa finalmente violenta visibilità sociale.

 

Ma bisogna stare su un marciapiedi e vederli arrivare, altrimenti non si può capire la sensazione dello scrittore, bisogna vederlo, il convoglio numero 5, arrivare rombando lungo i vicoli dei ratti e sbucare fuori dal tunnel passando come una ventata sui binari sopraelevati, e all’improvviso eccolo, Moonman, eccolo sfrecciare in cielo nel cuore del Bronx, sopra l’intero territorio bruciato e arrugginito, e questa è l’arte di cui si parla nei vicoli, fin dai tempi di Bird, e voi non potete più non vederci, non potete non sapere chi siamo, ormai abbiamo una notorietà totale.

 

Ecco perché la forza dei graffitisti consiste proprio nella forma-raid che, in quanto incursione e ritirata, esalta il transito e il collegamento tra l’oscurità della provenienza fisica e sociale e la luce della notorietà. Il polo dell’ombra nasconde e protegge gli artisti di strada, ma da solo li avrebbe condannati all’inesistenza, quello della visibilità mondana invece, delle gallerie come Fashion Moda del South Bronx, li ha infine risucchiati e consumati nella scintillante chiarezza dell’esposizione mercantile. 

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