Il sorriso del lottatore

12 Giugno 2014

C’è un filo che lega, che segna tante delle manifestazioni di affetto per Mandiaye N’Diaye, attore delle Albe scomparso domenica scorsa nella sua Africa, testimonianze ricevute dalla compagnia in questi giorni: è il sorriso di Mandiaye. Nei modi più disparati, quella luce appare in molte lettere e ricordi, scompare e riappare insistente. Come una scena indimenticabile, un’immagine incancellabile, come un marchio d’arte, come una firma della memoria: Mandiaye era il suo sorriso.

 

Ph. Cristina Ventrucci

E anch’io quando lo penso, lo penso attraverso il sorriso. Lo incontrai per la prima volta nella primavera del 1989, a Rimini. Dovevamo trovare tre giovani senegalesi: si trattava di un’emergenza, i compagni africani con i quali avevamo costruito il nostro primo spettacolo meticcio, Ruh. Romagna più Africa uguale, ci avevano lasciato dall’oggi al domani, pochi giorni dopo avremmo recitato all’ITC di Bologna, bisognava pensare in fretta a una sostituzione. Una situazione di difficoltà, che la gente di teatro conosce bene, e in cui occorre reagire. Io e Luigi Dadina entrammo alla mattina in un enorme caseggiato abitato da centinaia di immigrati, e ne uscimmo a tarda sera, ubriachi di strette di mano, di parole, di canti e balli improvvisati, di decine di tazze di the. Le nostre scelte le avevamo fatte. Fu a quel punto che un ragazzino esile mi venne vicino, e con un sorriso disarmante mi disse di chiamarsi Modu, che aveva già recitato, che aveva già fatto teatro in Senegal. Colpito dall’energia di quello sguardo, ma esausto, gli risposi a malincuore che grazie, avevamo già stretto un accordo con tre suoi compagni, e rientrammo a Ravenna. La mattina dopo, tornati al caseggiato per andare insieme ai tre prescelti all’ufficio di collocamento, i tre “scritturati” si presentarono in due: dov’era il terzo? E’ andato in spiaggia a vendere, mi risposero tranquilli. Venni preso da cupo sconforto, poi come un lampo nel buio mi riapparve davanti agli occhi quel sorriso. Cominciai a chiedere di Modu, e mi venne risposto che tanti di loro si chiamavano Modu, che era una specie di facile soprannome, per evitare di pronunciare nomi più complicati. Finalmente lo trovai, stava ancora dormendo. Ci sei? Vieni con noi? Dico le mie preghiere, e arrivo. E’ così che è cominciata la nostra amicizia, un’ avventura teatrale durata un quarto di secolo: con una finta bugia. Si può pensare, sbagliando, che Mandiaye mi avesse mentito, perché in realtà non aveva mai fatto teatro, prima. Non era una bugia: era una profezia che si sarebbe incarnata. Mandiaye non era griot per discendenza familiare, ma lo sarebbe diventato per scelta. La sua.

 

I polacchi. Ph. Silvia Lelli

Il suo sorriso aveva prima di tutto una qualità infantile, come quella di tanti bambini africani, il cui sorriso va oltre le brutture del mondo, oltre le ingiustizie del pianeta, oltre la cattiveria dei grandi, oltre le discariche e le baraccopoli, oltre tutti i cinismi, oltre tutte le nostre chiacchiere da intellettuali. Un sorriso che fa nuovo il mondo ogni giorno. Un sorriso che significa accoglienza, la vita che si fa ospite. Io ci sono, e tu anche ci sei. Ti vedo, i miei occhi sorridenti ti vedono. Non sei bianco, non sei nero, non sei adulto, non sei bambino: ci sei, e questo basta. I mei occhi scintillano per accoglierti, perché tu mi accolga. Possiamo stare insieme su questa terra, possiamo giocare insieme, senza violenza, senza giudizio, senza la paura che nasce dal giudizio. E’ il sorriso dei re. La vita potrebbe essere un giardino ospitale, e invece non lo è. Lo sappiamo bene che non lo è. Ma quel luccicare regale degli occhi è la prova, il sigillo, il segno di fede, di fiducia, che un altro mondo è possibile, ed è in questo mondo.  

 

Sogno di una notte di mezza estate, Ph. Silvia Lelli


Mandiaye è diventato uomo nelle Albe. Crescendo tra le prove, gli spettacoli, maturando la sua vocazione d’attore, ha capito che quella bugia detta a Rimini poteva diventare la sua strada nella vita. Ha capito che il teatro poteva servirgli per trasformarsi restando fedele. Che quel modo di narrare che aveva imparato al villaggio dalla nonna, dalla zia, poteva farsi architettura nell’arte del racconto. Che i sogni che nutrivano la sua cultura serere, nel teatro diventavano oro per l’immaginazione scenica. Tra quelle prove, il suo sorriso assunse un’altra dimensione: divenne segno di forza, di energia, di coraggio. Mandiaye è stato un impareggiabile lottatore, sulla scena e nella vita. Nel ‘96 lavorai alla riscrittura di testi di Aristofane: in All’inferno! Mandiaye interpretava un Cremilo africano che vuole riportare il dio dell’oro nel suo villaggio, Diol Kadd, e lotta per questo contro il fantasma di Povertà. All’epoca Mandiaye non aveva ancora pensato di ritornare a Diol Kadd: il nome del suo villaggio apparve per la prima volta sulla scena, e di lì a qualche anno anche nella vita. Di lì a poco Mandiaye avrebbe lottato veramente per far risorgere Diol Kadd, per fondare là una “casa del teatro”, per scavare i pozzi per l’acqua potabile, per costruire una scuola, per arginare il deserto e rimettere in circolo l’agricoltura, per creare degli attori contadini. Un vero “intellettuale organico”, avrebbe detto Gramsci. Uno che amava il suo villaggio, il suo popolo, che non gli bastava arricchire la famiglia. Uno che si caricava tanto sulle spalle, e lo faceva sorridendo. Per decenni da noi, in certi ambienti politicizzati, è stato vietato sorridere: il sorriso è stato interpretato come un sintomo di superficialità, del sorriso han fatto monopolio i pubblicitari, i politici corrotti e corruttori, l’arte della televendita: è così che si è fatta strada per anni l’idea che l’intellettuale serio e impegnato non sorride, è triste per definizione, triste per i mali che affliggono il pianeta, triste perché la situazione lo richiede. In realtà, spesso solo una posa. Si può percepire tutto il male e l’ingiustizia del mondo e, combattendoli, sorridere. Si può comprendere che il male non è solo una cosa esterna a noi, incarnata nei labirinti dell’economia e della politica, incarnata negli altri, nei cattivi. Si può e si deve comprendere che alberga anche dentro di noi, nelle cupe profondità della nostra anima: si può, si deve comprendere tutto questo e allo stesso tempo restare lucidi, non farsi sedurre dal buio, e continuare ad affrontarlo, il buio, e non smettere di sorridere. Sorridere in faccia al nemico che ci abita. Quella luccicanza Mandiaye la sfoggiava come un magnete nei panni di Padre Ubu, nei duetti folgoranti con la Madre Ubu di Ermanna, concertati di sciabolate in romagnolo e wolof: sotto quella maschera di crudeltà, traluceva il sorriso del lottatore: io ve lo mostro il Male, perché insieme lo si possa sconfiggere.

 

Mighty Mighty Ubu Chicago. Ph. Alessandro Ursic

Adesso Mandiaye ci ha lasciato: o anche questa è una finta? Un’azione teatrale? Un sogno di quelli che ci raccontava, un enigma da cui trarre insegnamenti? Il lottatore era solito usare parole d'eternità: erano la sua sfida alla morte, quella sfinge cui il teatro è legato dalle origini. 
Conserviamo una lettera davvero speciale, scritta da Mandiaye per la morte di una persona cara a tutte le Albe: "dobbiamo sapere che la morte vive con noi, è il nostro compagno più vicino, dorme con noi, si diverte con noi, fa tutto con noi, ma prima o poi ci tradirà... è per quello che mia nonna diceva sempre che bisogna tradirla prima che ti tradisca... per questo dobbiamo pregare, perché la lontananza di chi scompare diventi un bene per tutti noi, perché questa persona cui abbiamo portato amore diventi un'antenata di storia e racconti per tutti noi".
Mandiaye era un devoto alla luna, e per sostenere meglio e più a lungo la sua inguardabile luminosità, si metteva un dito sotto il mento e in questo modo si alzava il capo, con gesto infantile. 
Un gesto che ha più volte usato negli spettacoli, e che ha indicato a noi come poter guardare attraverso.
Anche noi ora ci metteremo il dito sotto al mento, per poter continuare a vedere il nostro amato compagno. Sorridenti.  

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