Il trauma dei patimenti

15 Giugno 2011

Negli scrittori contemporanei è assai frequente il ricorso a descrizioni esplicite del dolore fisico, anzi: del patimento, avrebbe detto Leopardi, come stato, cioè, di sofferenza eminentemente corporea e creaturale, ovvero connessa alla fragilità del nostro essere biologico. La riprova è in due rappresentazioni particolareggiate della fenomenologia patologica, prese da due libri recenti: in un caso si tratta di Tommaso Pincio, che nel suo Hotel a zero stelle racconta di una febbre altissima che lo colpì bambino a seguito di un intervento alle tonsille. Febbre che si risolse in un modo del tutto imprevisto, con una misura terapeutica non solo audace, ma assolutamente contraria a ogni più banale profilassi: il padre del piccolo ammalato, credendo avvicinarsi il momento finale e fatale di quella malattia senza nome e dunque non suscettibile di diagnosi, lo porta alle giostre, e solo a quel punto il piccolo riesce a vomitare il tampone che l’incauto (a dir poco, evidentemente) chirurgo gli aveva dimenticato in gola durante l’intervento (caso nemmeno troppo inverosimile, a quanto sappiamo da svariati episodi di cronaca).

 

Altro libro, altra storia: siamo nell’“impero” di Gianluigi Ricuperati, un romanzo vero e proprio, a differenza della narrazione alternativamente romanzesco-saggistica e autobiografica di Pincio. Il protagonista de Il mio impero è nell’aria, Vic Gamalero, è un giovane uomo ossessionato dall’idea di far soldi, ma più che per accumularli, per mero gusto dello sperpero e della sostituzione, un po’ come accade ne L’Argent di Zola. Cambia lavoro, cambia donna, cambia modalità di arricchirsi, di spendere e dilapidare, cambia vittime dei suoi raggiri, a un certo punto vorrebbe anche cambiare casa e prenderne una milionaria, se non cominciasse, progressivamente, a rendersi conto del limite che comunque andrà imposto alla propria nevrosi (o patologia?) dissipatoria. A un tratto, come nei più scontati plot romanzeschi, la nevrosi di Gamalero si manifesta in un arresto fisico: la sindrome di Ramsay-Hunt, o emiparesi facciale, che lo costringe a ricoverarsi in una clinica specializzata, tenendo temporaneamente a bada il demone dello sperpero. Fine della storia (o quasi).

 

Ho avuto occasione di riflettere, di recente (cfr. “il manifesto”, 25 febbraio 2011), sul motivo dell’“oscena” esibizione del dolore in alcuni autori contemporanei (Aldo Nove, Giulio Mozzi), e, più in generale, sull’atteggiamento emotivamente ricattatorio del dolore “fotografato” troppo da vicino, attraverso una narrazione mimetica che punta alla compartecipazione del lettore. Sia Pincio che Ricuperati si pongono però, viceversa, alla giusta distanza dai rispettivi alter-ego (e nessuno crederà mai, del resto, che un’autobiografia, nemmeno nei suoi momenti di più documentata fedeltà, sia una “vera” fotografia – andando da Stendhal a Proust e fino a Walter Siti). Ecco che la descrizione degli effetti di una ferita, oppure lo spostamento metonimico per cui la ferita psicologica si somatizza, narrativamente, in un accidente fisico, può diventare, grazie a quella dissociazione tra autore ed “eroe” che Michail Bachtin chiamava extralocalità, 1) motivo di condivisione esperienziale maggiore che per via emotiva o “oscena”; 2) motivo di interrogazione esistenziale, più che pettegola: insomma, Pincio, questo tampone in gola ha rischiato di ucciderti davvero? E tu, Ricuperati, quest’emiparesi così ben raccontata (nei dialoghi telefonici coi parenti, e le parole forzatamente storpiate, come in una gag tragicomica), l’hai avuta o no?

 

Leopardi diceva che il patimento fisico, lungamente esperito, finisce col ripiegarci in noi stessi, rendendoci meno disposti all’amore e, di conseguenza, più inclini all’egoismo. Ma diceva anche, al contrario, che il lungo “esercizio” o “uso dei patimenti”, cui l’esperienza del mondo e degli uomini ci costringe, può fungere da antidoto rispetto a quell’ambizione che ci rende sordi ai bisogni degli altri. Fatto sta che in un’epoca in cui il dolore privato non si ostenta (se non nelle forme spettacolari e morbose degli omicidi efferati dei casi di cronaca) ma piuttosto si nega, sin nelle sue manifestazioni esteriori e minori (si pensi alla recente poetica dei crolli di Gianni Celati: tendiamo a sostituire, consumisticamente, ad aggiustare tutto ciò che si crepa, che si guasta col tempo, dalla facciata di una casa al volto umano, e dunque tutto ciò che perde in fascino, cioè funzionalità, attrattiva commerciale ed uso), dei libri leggiamo di preferenza quelli che dal dolore allontanano, distraggono, proteggono, oppure, in qualche modo, consolano; al tempo stesso, però, amiamo anche immergerci in quelli entro cui il dolore campeggi senza filtri, a patto che si riesca a festeggiarne l’uscita, la sospensione, da quel dolore, e dunque che ci si possa consolare, ancora una volta: mano nella mano, io lettore e lo sfortunato, ma sopravvissuto autore.

 

Altro scrittore contemporaneo, altro libro: Esche vive, di Fabio Genovesi: la storia (tra l’altro) del ragazzino Fiorenzo che giocando con gli amici ai petardi, perde una mano. “La prima cosa che fa la gente, quando vado in giro a presentare il mio libro, è guardarmi le mani”. Nell’ambito di una discussione accesa, qualche anno fa, sul tema del cosiddetto “ritorno alla realtà” nel cinema e nella letteratura posteriori all’11 settembre, Mattia Carratello, editore, riferì pubblicamente la vicenda di uno scrittore americano cui fu chiesto dal proprio editore un risarcimento, in seguito alla scoperta che il racconto autobiografico della propria vicenda di alcolista era inventato. Ma se Genovesi, Ricuperati e Pincio non andrebbero comunque incontro a un destino analogo, non è solo perché dall’eterno, manzoniano connubio tra storia e invenzione, si continua da noi a scorporare e privilegiare la seconda, perlomeno in termini di consumo di massa: è vero pure che buona parte della critica highbrow invece che leggere una storia confessionale o il resoconto della morte della madre o del padre (vedi pagine iniziali di Italia de Profundis di Giuseppe Genna, ad esempio), andrebbe, piuttosto, a scommettere sui cavalli, o a giocare con la Playstation.

 

Quando il racconto del dolore o, peggio che mai, della morte effettivamente ci tocca, come avviene, indubitabilmente, nella narrazione - rappresentazione di Ricuperati, è necessario chiedersi insomma se sia vera, se sia inventata, o piuttosto se abbia un valore e un senso anche per noi, quella descrizione? Una descrizione della morte ci fa ridere, tra l’altro: forse di quel riso terribile di cui parla Leopardi, che può concedersi solo chi abbia sperimentato il coraggio di morire, o chi abbia dovuto veder morire gli altri (i “cari altri”, passando da Leopardi e Gadda, allora, senza il patetico dell’esperienza fotografata, e solo in forza di procedimento letterari). E dunque il problema non è se raccontare o no il dolore o i patimenti (“i mali”, li chiama Michelstaedter nel Dialogo della salute, in cui di salutare non troviamo poi ben nulla, a partire dalla sinistra ambientazione iniziale nel cimitero), il problema è ancora e sempre il come, non il cosa.

 

Ed ecco come fa Ricuperati, a raccontare la morte degli altri, anzi l’imminenza della morte, che è anche, inevitabilmente, imminenza del proprio dolore, e della propria deformità traumatica, anticipando già a metà del libro quell’emiparesi che nella parte finale (e meno riuscita, in quanto più incline a uno psicologismo patetico-sentimentale che alla quintessenziale rappresentazione del dolore) sarà semplicisticamente spiegata a partire dalle inevitabili tare infantili. Quando la madre sta per morire, le bocche che devono dirselo si producono in una mimica facciale scomposta, che riporta alla mente le deformate figure pregiottesche evocate nell’oltretomba dei topi, nei Paralipomeni leopardiani, o all’urlo afasico di Munch, che diremmo post-traumatico, con categoria assai in auge al momento (vedi l’ultimo Žižek o il recente Senza trauma, di Daniele Giglioli). Per non rimanere del tutto attoniti di fronte all’irrazionale della morte (perché proprio adesso, e perché proprio a noi), la si dice in modo afasico, in una giostra di balbuzie visiva, dove le voci non hanno suono e i simboli non hanno significati univoci, fino all’esito beckettiano, con la rottura sonora e tragicomica del pathos visivo:

 

In cucina cinque adulti e un ragazzino, tutte bocche. Un alfabeto di bocche in sofferenza intensiva. La bocca irrigidita di mio padre, appena tornato da un pellegrinaggio, simile a una w ristretta all’inverosimile. La bocca piena di febbri e afte di mia sorella, una h rossa e bombardata, come i cerchi intorno agli occhi gonfi di lacrime. La bocca larga e rossa di mio fratello, una mezza parentesi, chiusa o aperta a seconda dei momenti, rovesciata su un fianco, in un silenzio che faceva passare solo aria. La mia bocca, una spirale su cui confluiva l’inesperienza sotto forma di stupide frasi. Infine la bocca di mia madre, quella mia madre ancora riconoscibile, appena informata della malattia. Ancora lei, insomma, prima del cambiamento, la sua bocca identica alla mia – un segno d’interpunzione interrogativo, un punto di domanda da inventare, che poi, quando tutti avevano detto la loro, alzandosi di scatto e uscendo dalla stanza caldissima, gettò in mezzo queste parole:

 

Insomma, diciamolo, sono spacciata.

 

E lì piombò un attimo di silenzio, seguito da un’aggressione di ma cosa dici,non diciamo proprio niente, mamma per favore,mamma non dire, semplicemente mamma, e punti esclamativi, esortativi, sillabe ripetute come su un piatto isterico, no – no – no – no- no- no.

 

Soffri (tu), e fa’ (un po’) ridere (gli altri): è questa, forse, la prima, provvisoria, soluzione de/al dolore, nel romanzo contemporaneo. Non senza traumi, o post-traumatico, allora, ma senz’altro invece alle prese con traumi assai meno contingenti che nei decenni passati (funestati dalle mode dei romanzi “precari” o “criminali”): quelli che riguardano l’uomo singolo, alle prese col suo destino: il problema tragico per eccellenza, a ben vedere. Ma dove c’era il fato, adesso ci sono, assai più tangibili e laici, un tampone e una emiparesi mandibolare. Al di là dell’ “estremo”, che secondo Daniele Giglioli è la categoria che meglio definisce le “scritture” dei decenni passati, e che evidentemente non prevede il quotidiano, non, quanto meno, nella sua serietà auerbachiana, c’è un indubbio ritorno, nella narrativa contemporanea, a un cotè intimista o espressionista: alla descrizione dei mortiammazzati seriali si sostituisce la narrazione icastica della propria singola deperibilità biologica, oppure la compartecipazione creaturale alla morte degli altri a noi vicini, che è la morte per noi. E scusate se non è un trauma.

 

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