Inarrestabile Marina Cvetaeva
Non è semplice dare conto in poco spazio di Marina Cvetaeva, della sua natura multiforme, della sua vasta opera e voce tragica, la più tragica della poesia russa, come l’ha definita Iosif Brodskij. Riesce però bene nell’intento l’antologia La via delle comete, curata da Paolo Galvagni ed edita da Interno Poesia (2023). Pur nella snellezza del volume, la scelta delle liriche, pubblicate con il testo a fronte, offre un saggio significativo di Marina Cvetaeva e compone un ritratto della poetessa. Di fatto è lei stessa, nella concezione di una poesia che è anche diario lirico, a fornire un’immagine di sé, spesso essenziale, ma evocativa e sempre diversa. Di volta in volta Cvetaeva si definisce e ridefinisce in tempi e spazi diversi: è uno stelo, è acciaio (p. 63, 1915), è un uccello che canta e vola (p. 113, 1920), è «la caduca schiuma del mare» (p. 115, 1920), è la fuga inseguita dalla vita (p. 185, 1924), è impietrita come una trave (p. 225, 1934).
Su questo ritratto si innestano gli accadimenti di una vita intensa, dominata prestissimo dalla scrittura di versi. I primi dell’antologia risalgono al 1906, anno in cui perde la madre, mentre gli ultimi sono del febbraio 1941, sei mesi prima del suicidio. Probabilmente è anche la precoce scomparsa della madre a originare nuclei tematici destinati a permanere nel tempo, come il tema della morte, appunto, pervasivo della sua poetica, e strettamente legato all’oblio e al ricordo, nei confronti dei quali Cvetaeva mostra un rapporto ambivalente. «Con leggerezza pensami / con leggerezza dimenticami» scrive nel 1913, poco più che ventenne, immaginando di esortare un passante a fermarsi sulla sua tomba: «Passante, fermati! / Leggi [...] che mi chiamavo Marina / e quanti anni avevo (pp. 41-43)». Sono versi che presagiscono le circostanze del più completo anonimato in cui morì, suicida, nella cittadina tatara di Elabuga, dove fu sepolta frettolosamente.
In un’epoca e una patria che non potevano accogliere i suoi versi, essere dimenticata o ricordata sembrano quasi la stessa cosa. Anzi, sarebbe persino desiderabile «passare senza lasciare una traccia», (p. 143, 1923) ma nutre la consapevolezza che la lascerà. Anni prima infatti scriveva che per i suoi versi, come per i vini pregiati, sarebbe giunto il loro turno (p. 45, 1913). Esiste poi la dimensione privata del ricordo, quella familiare e dell’essere madre. «Diventerò per te un ricordo» [...] «scorderai il mio profilo dal naso adunco, / e la fronte nell’apoteosi della sigaretta» (p. 111, 1919) scrive con palpabile malinconia rivolgendosi alla figlia Ariadna, la solidale primogenita che ha poi raccolto l’eredità poetica della madre e ha scritto le sue memorie, di cui Galvagni riporta un estratto nelle pagine introduttive al volume.
C’è infine il ricordo della terra natìa, che dopo anni di emigrazione non è altro che una nostalgia superata, «un inganno smascherato» che ha lasciato il posto all’indifferenza. «Mi è indifferente tra quali / volti rizzare il pelo come un leone / imprigionato» perché, continua, «tutto – è lo stesso, e tutto – è uguale» (pp. 223-225, 1934). Di nuovo, però, il sentire è ambivalente, l’indifferenza sembra più esibita che completamente e fino in fondo provata. Il distico finale apre infatti a una potenziale, imprevista nostalgia, attivata dall’improvvisa vista di un sorbo, in cui Cvetaeva ravvisava il simbolo della Russia. Siamo però già al 1934, cinque anni prima del ritorno in Unione Sovietica, quando lo spirito non è più quello di un tempo e lei è sempre più sola, povera e isolata.
Si sente sempre orfana, Marina, prima dei genitori, poi, quando nel 1922 lascia la Russia sovietica, anche della madrepatria. Nella poesia “Il corno di Rolando” si paragona a un buffone che invece della «malvagia deformità» (p. 121, 1921) racconta del suo essere orfana, sola, anche nella notte, mentre tutti dormono, come nel ciclo “Insonnia”. Doppiamente orfana, dunque, Cvetaeva trasmetterà questo corredo genetico ai figli, prima ad Ariadna: «Simili amiche tu e io! / Simili orfane tu e io!» (p. 97, 1918), poi all’amato terzogenito Georgij, che nasce durante il soggiorno ceco, nel 1925, e diventa l’emblema di un’intera generazione, avvolta «fin dalla nascita in mantelli da orfani» (p. 205, 1932).
Cvetaeva vive la solitudine della reietta, dell’esclusa e incompresa, che è in fondo il destino del poeta, secondo un topos frequentato nella poesia russa dell’Ottocentо che vede contrapposti il poeta e la folla, incarnazione, quest’ultima, della banalità e dell’ordinario essere. Ma mentre il poeta-profeta ottocentesco si autoesclude in una posa quasi sprezzante, Cvetaeva è immersa nella folla, sembra soccombervi: «Sotto il fischio dello stolto e la risata del borghese, – / sola fra tutti – per tutti – contro tutti!» (p. 121), ma riesce ad erigersi per mandare il suo «sonoro appello nel vuoto dei cieli». Qui siamo nel 1921, quando è ancora in Russia. Poi vivrà la diversità come il peso di una disabilità, ma con più rassegnazione: «Che devo fare, cieco e figliastro, / in un mondo, dove ciascuno è figlio e ci vede» (p. 141, 1923). E sarà proprio una diffusa rassegnazione a dominare i versi dei suoi ultimi anni, in particolare gli Ultimi versi (qui la recensione) che scrisse tra il 1938 e il 1941.
Nelle pagine dell’antologia si incontrano i familiari: la madre, la nonna, il marito, i figli, ma anche le persone della sua vita, i suoi amori, maschili e femminili, e i poeti a lei contemporanei: la sua anima gemella Pasternak, il «fratello della sventura canora» Esenin (p. 189, 1926), Mandel’štam, Achmatova, il colossale «cantore dei portenti e delle piazze» Majakovskij (p. 129, 1921). Tra i poeti a lei cari c’è anche Rilke, con cui Marina si scrisse per alcuni mesi, nel 1926, grazie all’intercessione di Pasternak. Della vertiginosa corrispondenza tra Rilke e Cvetaeva vorrei segnalare una nuova edizione, appena pubblicata da L’orma editore nella graziosa collana I pacchetti: L’oceano leggeva con me. Lettere a Rilke sulla poesia (a cura di E. Trabucchi, 2023). Come spesso le capita, Marina si lascia andare a iperboliche dichiarazioni d’amore e a riflessioni sulla poesia; scrive quasi senza prender fiato, si entusiasma in un modo che sembra eccessivo, anche se, come ha scritto Ariadna di sua madre, l’eccesso per un poeta non è che la sua condizione naturale. Da Rilke vuole tutto, niente, «voglio che tu mi permetta in ogni istante della mia vita di guardarti come a una montagna che mi protegge» (L’oceano leggeva con me, p. 15) gli scrive richiamando la simbologia della montagna, significativa per Cvetaeva poiché combina l’altezza, in cui lei stessa si trova a volare, con la grandezza che offre riparo. Ciò che nella natura è grande, dirompente e incontrollabile ricorre nella poesia di Cvetaeva, che guarda alla natura con la vicinanza selettiva dello zoom, capace di coglierne l’essenza grezza e materica, e al contempo con lo sguardo onnicomprensivo del poeta romantico.
“Inarrestabilmente sgorga il verso” è il titolo che il curatore dà al saggio che introduce il volume e che riprende un verso cvetaeviano. Nel dichiarare la corrispondenza tra vita e poesia, Cvetaeva fa uso di due avverbi: inarrestabilmente e irrimediabilmente. Inarrestabili e irrimediabili sono le parole che sgorgano dalle vene, così come vi sgorga il sangue. Il suo impeto poetico, che si spegne gradualmente solo verso gli ultimi anni, a dimostrazione, ancora una volta, del crudele e per lei inevitabile legame tra poesia e vita, è capace di preservare l’asciuttezza e l’essenzialità della parola, che risulta nuda, quasi scarnificata. È esemplare e concisa la sua scrittura, come la definisce lei stessa. Ed è sobria e consonante alla sua voce la traduzione di Paolo Galvagni che rende tangibile ciò che scrive Brodskij a proposito della tragicità di Cvetaeva, ovvero che non è solo il contenuto della sua poesia ad essere tragico, ma anche la lingua, la prosodia, la sua voce.
I testi citati sono:
M. Cvetaeva, L’oceano leggeva con me. Lettere a Rilke sulla poesia, a cura di E. Trabucchi, L’orma editore Roma 2023.
A. Efron, Marina Cvetaeva, mia madre (trad. di R. Baffi), La Tartaruga, Milano 2003.
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