Una a davanti a me / Io io io

20 Gennaio 2018

“Di questa storia a me colpiscono tre aspetti”: a casaccio, tra migliaia, orali e scritte, la citazione viene dal post di una persona di cultura. “Embè?” dirà chi legge. “C’è qualcosa di strano?”. No. A me colpiscono... è ormai italiano perfetto. Se ne serve chi parla e scrive in punta di forchetta. 

 

Ci si pensi, però: la reazione sarebbe stata eguale se si fosse trattato di Di questa storia a lui colpiscono tre aspetti? Anche con valore psicologico, colpire entra infatti in una costruzione transitiva. Accostare alla sua reggenza la preposizione a dovrebbe essere sentito come errore o (che è lo stesso, esprimendosi in italiano) come crudo meridionalismo. Non succede così, invece. Senza differenze geografiche, in un contesto del genere gli attuali sì-dicenti trovano a adeguata alla reggenza, quando si tratta di pronome di prima persona. A tale persona danno così enfasi, la sottolineano. Una a davanti a me sembra naturalissima: un suo diritto inalienabile. “Perché? Si potrebbe dire diversamente?”: così chi scrive s’è sentito chiedere quando ha osservato ciò che a lui pare ancora una stranezza. “Sì. E in più modi”, fu la risposta. Ma altro è qui sul tappeto. 

 

L’espressione è infatti sempre sotto il segno della prima persona. Diversamente, non si potrebbe. Aprire bocca, prendere in mano una penna o (in epoca tecnologica) le comparabili attività sono anzitutto dire “io”. Dire poi ciò che si ha da dire (ammesso appunto lo si abbia). Eleganza, discrezione imporrebbero allora alla prima persona di non insistere troppo, esprimendosi, sopra la propria evidenza, di lasciarla il più possibile implicita, soprattutto quando si pensa di avere qualcosa da comunicare. 

Oggi, non ce la fa quasi più nessuno.

 

Ecco allora, come caso esemplare, una licenza concessa dalla prima persona a se stessa. Non appena s’esprime e capita spesso sia tutto un suo essere colpita, stupita, meravigliata, preoccupata, indignata e così via, la prima persona sente correlativamente di meritare anche altri privilegi, oltre il (momentaneo) possesso della parola. Persino quello che turba (almeno in apparenza) le relative reggenze verbali, quando è in gioco il primo piano. E sgomita, per arrivarci. Così l’eccezione s’è fatta regola, in proposito: a me colpisce, stupisce, meraviglia, preoccupa, indigna e così via. Pare solo una minuzia grammaticale ma, come dettaglio d’un comportamento spontaneo, è indizio loquace. E antropologia e ideologia dei loquaci odierni ne vengono illuminate. La prima persona che s’esprime in tal modo si rende conto di cosa sta facendo? No. Pensa del resto di non avere scelta. Lo fa, perché non sa fare diversamente. La volgarità dell’atto non ne risulta ridotta. Semmai, il contrario. 

 

Del resto, “a me, a me, a me”, manifestazione enfatica di quello che Gadda definì “il più lurido di tutti pronomi”, pare ormai la sola cosa che ha veramente voglia di dire la prima persona ideale, nella temperie presente. E c’è persino il sospetto che sia la sola che è in grado di dire. 

 

Comparso sotto altro titolo sul Corriere del Ticino del 26 agosto 2017.

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