Isherwood, la notte della storia 

18 Aprile 2023

Romanzo considerato minore nella produzione di Christopher Isherwood, Il mondo di sera (Adelphi, pp. 394, euro 21, traduzione di Laura Noulian) è invece, en travesti, un titolo chiave nel complesso della sua attività letteraria, non solo perché posto in mezzo, essendo uscito nel 1954, ma anche per il significato di atto di espiazione di una colpa nata con il suo capolavoro, Addio a Berlino del ’39, a sua volta preceduto quattro anni prima da Mr Norris se ne va. La colpa è proprio a inizio di Addio a Berlino, fonte ispiratrice del film del 1972 Cabaret con Liza Minnelli, dove lo scrittore inglese naturalizzato statunitense e morto nell’86, scriveva come a epigrafe del proprio statuto narrativo: “Io sono una macchina fotografica con l’obiettivo aperto; non penso, accumulo passivamente impressioni”. 

Tale distacco dalla realtà espresso in un libro di carattere autobiografico, sebbene intestato a un narratore omodiegetico, che involgeva storie di persone comuni riunite a Berlino negli anni precedenti all’avvento del nazismo, si traduceva in una forma di insipienza esercitata su un evento tenuto sullo sfondo, come un rumore indistinto, mentre in primo piano si stagliavano le vicende individuali, tanto anonime quanto distanti dai presaghi segni di rovina incombente. Nei successivi quindici anni Isherwood si interrogherà, fino forse a macerarsi, sul significato del proprio atteggiamento escapista, creando una condizione che ricorda i pastori di Ilio, intenti a pascolare le loro greggi e del tutto indifferenti all’infuriare dell’assedio acheo di Troia. Ne deriverà appunto un senso di colpa, dovuto anche ad alcune critiche, tale da far dire a Giovanni Raboni che Isherwood “non ha nessun entusiasmo per la Storia; al contrario, nutre nei suoi confronti un elegante e amaro scetticismo”. Così Il mondo di sera costituisce un attestato di resipiscenza, quantunque perpetui il principio di divisione netta tra storie private e Storia pubblica cui Isherwood non ha mai rinunciato. Il riconoscimento della propria colpa si ferma tuttavia alla sua sola imputazione, all’atto cioè di assunzione di responsabilità nel momento in cui l’autore si pone davanti alla propria coscienza e si interroga.

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Decisivo è il dialogo collocato nel 1941 tra Stephen Monk, l’autore implicito, e Gerda Mannheim, giovane profuga tedesca negli Usa, sull’ultimo libro scritto nel 1934 dalla moglie di lui, Elizabeth Rydal, e intitolato “Il mondo di sera”, lo stesso nome di un giornale berlinese comunista in edicola prima di Hitler. Del libro si sa solo che tratta di un gruppo di persone che in un fine settimana si ritirano in una casa di campagna e chiacchierano fino a quando si scopre qualcosa su tre di loro. Cosa si scopra non è detto: un’omissione voluta da Isherwood per segnalare che la trama di “Il mondo di sera”, benché intitoli il proprio libro, non ha alcun valore, se non quello di indicare un’intenzione: porre cioè una questione che è privata e sentita come tale, ma che nondimeno sottende uno stato molto diffuso: il comportamento da tenere di fronte alla “resistibile ascesa del nazismo”, come la chiama Bertolt Brecht.

La situazione ricorda un celebre dipinto, Studio di antiquario di Frans Francken II, dove si vedono uomini di lusso mercanteggiare quadri in un raffinato negozio di antiquario mentre all’esterno uomini-asino stanno distruggendo il mondo. Sono impassibili oppure ignari gli uomini di lusso? Sanno che stanno per essere sopraffatti sicché, rimanendo immobili e indifferenti, fronteggiano la minaccia ignorandola (come chi non pensando alla malattia ritiene di non averla) o piuttosto sono del tutto all’oscuro degli eventi? In entrambi i casi appaiono corrivi se non correi, come gli uomini che, seduti nei dehors dei bar di Berlino, vedono in Mr Norris se ne va passare militanti con la svastica e approvano con un sorriso di degnazione. 

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È su questa linea che si svolge il serrato confronto fra Stephen e Gerda (fatta la tara a qualche svista storica come quella delle “persone torturate e bruciate come immondizia nei forni”, verità che nel 1941è ancora molto lontana dall’essere nota), la quale critica il romanzo di Elizabeth chiedendo come fosse possibile scrivere nel ’34 e non parlare dei nazisti, ancor di più perché, ambientato alla fine degli anni Venti, avrebbe dovuto cogliere l’occasione “per mostrare come iniziano queste cose”. Le persone che allora si ritrovano in campagna, sfuggendo alla peste dell’insorgenza nazifascista, sono uomini di lusso indifferenti agli uomini-asino che scorrazzano per le strade ed entro tale quadro la giustificazione che Stephen adduce circa l’elusività di Elizabeth (“Sapeva che i grandi numeri e le vaste dimensioni in realtà fanno sì che ai nostri occhi una tragedia appaia meno reale”) non è che un infingimento: quasi una chiamata a difesa dell’esperienza fatta da Flaubert con Salammbô, romanzo non riuscito proprio per via della legge dei grandi numeri, che più crescono e sono richiamati e più inducono improbabilità. 

In verità, ciò che secondo Gerda avrebbe dovuto fare Elizabeth scrivendo “Il mondo di sera” è quanto Isherwood imputa a se stesso per una reticenza commessa al tempo di Mr Norris se ne va e poi di Addio a Berlino. Dove a mancare non è l’accenno al nazismo ma la consapevolezza del suo orrore e la sua condanna sul nascere. Se in definitiva avesse dato un altro titolo a questo suo libro del ‘54, magari più aderente alla fabula, sarebbe stato difficile supporre che l’accusa di Gerda, un grido di dolore di chi è sfuggita ai nazisti, valga come una auto-denuncia, ma quel titolo copiato da un foglio comunista e dato a un romanzo che si balocca tra signori a riposo serviti da camerieri e intenti in convenzionali conversazioni mentre il mondo corre verso la rovina non può non essere spia di una crisi di coscienza personale che integra una colpa e immagina una espiazione che però non arriva, giacché Il mondo di sera con i suoi personaggi ricalcati su quelli di Addio a Berlino non è che la reiterazione di uno sbaglio.

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Ma più che di sbaglio, occorre parlare di un teorema, per il quale Isherwood ritiene più importanti le persone che i fatti di cui sono artefici quelle detentrici del potere politico, epperò non riesce a conciliare le due sfere, probabilmente per il rifiuto di vedere in personaggi di romanzo il sembiante di persone reali e per il convincimento che la narrazione debba avere una funzione rappresentativa di un preciso fattore umano. Si prendano allora i dialoghi, la parte più personale di Isherwood, un carico di ovvietà e pleonasmi, cose sapute e sentite, che nulla aggiungono all’intreccio né alla migliore definizione dei personaggi, tanto che dirà bene Giorgio Manganelli quando osserverà che “Isherwood ama i dialoghi veloci e insensati, le conversazioni un po’ sciocche, ma dense di allusioni frivole e inquietanti”. Il mondo di sera arriva persino a inscenare conversazioni surreali tra Stephen e la moglie morta come se però essa fosse tanto viva quanto capace di provocare un incidente perché lui rimanga immobilizzarlo a letto e non scappi più. 

I dialoghi sofistici e a volte stucchevoli di Isherwood, sempre gravidi di un profondismo di maniera tentato da un facile moralismo assoluto e da un gurgite alla Oscar Wilde (nel colloquio tra Steve e Bob Word – “ragazzo fine e smilzo la cui voce rauca non si accorda al viso delicato ma alle spalle”, osservazione propria di un omosessuale – il primo allettato in ospedale dice all’altro: “Sei il tipo di visitatore che preferisco. Non mi hai detto nemmeno una volta che mi compatisci” e il secondo gli ribatte: “Non posso. Sono troppo occupato a compatire me stesso”: tutto Wilde appunto), sembrano risentire dell’andamento di un grande romanzo primonovecentesco, La montagna incantata di Thomas Mann, autore citato con rispetto da Isherwood, anch’esso fatto di lunghe riflessioni pseudo-filosofiche, digressioni cerebrali, tirate alla maniera socratica infine di dubbio interesse. 

E un altro romanzo della stessa temperie, nello spirito dei telefoni bianchi, dei grandi ricevimenti signorili, di un clima decadente che sa di attesa e di ignoto, quanto alle serate mondane e alle feste della jet society, cade in taglio: Il Grande Gatsby di Scott Fitzgerald. Jay Gatsby, tipo oblomoviano, idealista, gaudente, è fratello d’inchiostro di Stephen Monk, che perciò rientra nella categoria dei personaggi degli anni Venti europei votati a rivolgimenti innanzitutto amorosi così rocamboleschi da segnare il proprio destino. E se Giovanni Castorp di Mann è un inetto nella misura della malattia polmonare che lo limita, Stephen è un farabutto che non merita maggiore stima di Gatsby. Su tutt’e tre incombe una minaccia globale che si chiama guerra mondiale, con la differenza che Gatsby e Castorp vivono la vigilia della Prima mentre Monk quella della Seconda alla quale finisce per partecipare proprio come Castorp: probabilmente per trovarvi entrambi la morte, così come la morte violenta aspetta Gatsby per mano di un nemico privato e non di uno Stato straniero.

E farabutto lo è davvero Stephen, se dice di sé: “Non ero del tutto sano di mente”. La seconda moglie Jane arriva a dirgli, dopo aver abortito volontariamente su sua istigazione: “Non toccarmi, brutto bastardo, sei un falso!”. Steve, dodici anni meno di Elizabeth, la prima adorata moglie, conosce la giovanissima Jane nell’anno in cui Elizabeth si avvia lentamente alla morte per una cardiopatia senza speranze. In una villa a mare nel Sud della Francia, lei osserva dalla finestra dei giovani americani pieni di vita e bellissimi che in una lettera a un’amica confessa di odiare per l’invidia che prova. Una di loro è proprio Jane Armostrong, la quale conquista facilmente Stephen, costretto così a ingannare la moglie pur di vederla, ma dopotutto bendisposto ad avere subito un’altra donna benché la propria stia morendo.

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Il mondo di sera copre circa vent’anni, dalla metà degli anni Venti al 1942, e richiede un esercizio di adattamento per dare un ordine cronologico a fatti che sono dall’autore ricostruiti secondo un criterio di scomposizione del tempo, perché affidato a una tecnica narrativa di cui Isherwood si serve piuttosto spesso: la lettera come mezzo analettico. Parlando infatti di quanto gli ha insegnato Edward Morgan Forster, dice in un’intervista che si può iniziare un romanzo “altrettanto bene con le lettere di qualcuno”. Così Isherwood escogita un incidente stradale perché Stephen possa rimanere per un lungo periodo a letto e finalmente rileggere le lettere di Elizabeth indirizzate a un’amica e da questa avute dopo la sua morte. Attraverso le confidenze della moglie, Stephen rivive la loro tenera storia d’amore, le peregrinazioni da un continente all’altro, l’assistenza prestata nella ribattitura a macchina dei suoi manoscritti, il comune rapporto con la cara Sarah, una quacchera che lo ha accudito sin da bambino e che si rivela, entro uno svolgimento inatteso e forse dissonante, in possesso di capacità soprannaturali, forse in omaggio allo spiritualismo di Emerson, più volte richiamato. 

Riportando le lettere, Steve rivive anche il rapporto con Michael Drummond, un Tadzio manniano al cui amore cede anche stavolta in un legame omosessuale che si traduce in un tradimento in più di Elizabeth. Ma curiosamente, il dichiarato omosessuale che è Isherwood, in questo romanzo scritto a cinquant’anni, è nel tratteggio delle figure femminili, da Sarah a Gerda, da Elizabeth a Jane, che riesce meglio, perché incerta e indeterminata appare quella di Michael, così come le altre di Bob e Charles, coppia gay più recensita che definita. Restano fortemente vivide la struggente amorevolezza e bontà d’animo di Elizabeth, la generosità umanitaria della vivacissima Sarah, la pietà altruistica e di tenace concetto di Gerda, che offre la giusta chiave di lettura del romanzo, la leggerezza sebbene tormentata dall’amore della licenziosa Jane.

Senza Michael, Il mondo di sera sarebbe il romanzo di un eterosessuale che fa del suo protagonista Stephen Monk un impenitente dongiovanni, ricco e fascinoso, inquieto e solo, senza alcuna occupazione lavorativa perché così possa restare con sé stesso, rinserrato tra i suoi tormenti e la ricerca della felicità, soprattutto tra le sue donne. Meno autobiografico di Addio a Berlino, al quale si rifà, il romanzo si raccomanda per una conoscenza maggiore di Isherwood e funge da cartina di tornasole. Merita una posizione migliore nella gerarchia delle sue opere, perché rivela forse come i suoi libri di maggiore successo abbiano bisogno di questo per consentire di entrare nell’officina non tanto narrativa quanto personale di un autore degno in Italia di maggiore attenzione.

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